È forse l’insegnamento più valido di Maurice Duverger, insigne storico francese delle idee politiche che ora si trascura. Era il perno della storia della Quarta Repubblica francese, come da lui sintetizzata, trasfusa nella sua opera su De Gaulle e la Quinta Repubblica (“La Vème République”): la litigiosità in regime parlamentare è accentuata soprattutto tra personalità e fazioni politiche affini, più che tra i partiti e gli schieramenti opposti. L’attività è continua a smarcarsi dalle posizioni dominanti nel proprio schiarimento, e a indebolire le posizioni di leadership stabile. E si traduce quindi, inevitabilmente, nell’instabilità continua e nel sabotaggio di ogni tentativo dirigistico o di governo. Senza rimedio, se non l’antiparlamentarismo. E cioè, nel caso francese, De Gaulle. Che poi assestò il sistema costituzionale sul semipresidenzialismo, un assetto che dà al presidente meno poteri del presidente-dittatore pro tempore americano, ma lo tiene in carica per sette anni, due in più del Parlamento.
La Repubblica italiana è stata modellata sulla Quarta Repubblica. Questo non si dice più, da un paio di decenni, ma si è sempre saputo. E ne ha mediato l’instabilità, proprio secondo lo schema interpretativo di Duverger. Anche questo non si dice più, ma è sempre vivo il ricordo delle furibonde liti tra maggiorenti democristiani, tra Andreotti e Fanfani, tra Moro e Fanfani, tra Andreotti e Moro, tra Andreotti e De Mita, o Forlani. Mentre Craxi trovò la sola possibilità di governare i socialisti nell’annientamento di ogni maggioranza interna – nella “maggioranza bulgara” di cui lui stesso si lamentava.
Il voto è in questo sistema, insisteva Duverger, sempre destinato a essere disatteso, qualsiasi maggioranza esprima. Che sembra un paradosso ma è la realtà: il sistema parlamentare, escogitato per riflettere il voto popolare (e con le leggi elettorali proporzionali in Italia pretendeva di rifletterlo all’unità), nel suo pratico funzionamento è destinato a disattenderlo sempre. La politica avvilendo nei giochi di corrente: gruppi, fazioni, personalità, oggi fondazioni. Il fatto fu noto per un periodo agli interessi vested (Confindustria, banche, giornali), e da allora sempre agli elettori, che vent’anni fa promossero i referendum antiparlamentari, e da allora hanno sempre votato per semplificare gli schieramenti.
Oggi gli interessi costituiti sono tornati, se non al parlamentarismo, che non osano avocare, alla “crisi permanente”. Temendo evidentemente una decisa azione di governo, in campo fiscale, per esempio. O della spesa pubblica. O della giustizia, che in Italia è sempre stata una giustizia per i potenti – di qualsiasi schieramento. Gli elettori sono invece ancora intuitivamente aggrappati all’idea di una semplificazione della rappresentanza in favore di un rafforzamento del governo. È questa probabilmente la ragione maggiore del successo persistente del berlusconismo, che ha saputo raggruppare tante anime politiche “proporzionali”. Ma in questa divisione è l’attuale difficoltà del fronte riformista, dell’adeguamento delle istituzioni fuori delle false utopie della Quarta Repubblica francese. Tanto più che in questi venti anni il sistema della rappresentanza si è potuto semplificare sostanzialmente a livello locale (Comune, Provincia, Regione), ma in nessuna misura nel governo della Repubblica: il presidente del consiglio continua a non avere nessun potere, solo l’obbligo di mediare costantemente, mentre la legiferazione viene rinviata e impedita dal bicameralismo “perfetto” (due Camere con le stesse funzioni e gli stessi poteri) e da procedure parlamentari defatiganti.
Di Duverger, lo studioso decano a 84 anni degli scienziati politici, è è opportuno ricordare che è stato eletto in Italia al Parlamento europeo nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro, nelle liste del Pci. Ed è – è stato - più noto per l’opera “La democrazia senza il popolo”.
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