E se i cattolici italiano fossero incapaci di buona politica? In fondo è di questo che hanno preso atto il cardinale Ruini (grande politico cattolico, però, il cardinale…) e Giovanni Paolo II vent’anni fa con lo sciogliete le righe. Sì, De Gasperi, con la scelta della Nato e dell’Europa, ma De Gasperi era di Trento, e quasi un asburgico. Sì Fanfani, ma il politico del fare, l’unico del resto, è sempre stato indigesto e alieno ai cattolici, Che si crogiolavano, e ancora si crogiolano, di Moro e Andreotti, politici nefasti in ogni altra esperienza, gli archetipi del ponziopilatismo – la sbarra tra le ruote, non vedo e non sento, non c’ero, lo dico e lo nego, le verifiche, il quadro politico, il rinvio, le crisi governative di tre mesi.
De Rita e Antiseri hanno posto sul “Corriere della sera” la “questione cattolica”: un mondo attivissimo alla base ma disimpegnato dalla politica. Il che non è vero, i cattolici sono sempre attivissimi in politica, nel partito Democratico e in quello di Berlusconi incluso. M, questo è il punto, con effetti sempre nefasti, del dire e non dire, del rinvio, del ripensamento, dei rituali vuoti se non per far valere un potere d’interdizione – il potere negativo, di distruggere. Mentre è sotto gli occhi di tutti che i cattolici non sono scomparsi, sono anzi più “padroni” che mai del sociale, dal terzo settore alle banche. Lo sono diventati: la conquista del terzo settore e delle banche è degli ultimi venti anni, quelli della depoliticizzazione.
Con più verità andrebbe detto insomma che i cattolici hanno tutto in Italia, tutte le forme di potere, minimo (associazioni, fondazioni, assessorati), medio (burocrazia locale e nazionale), grande (banche, energia, grandi opere, Rai, assistenza sociale), eccetto che nella politica nazionale. Dove si segnalano, però, questo è importante, per la capacità persistente di distruggere: verifiche, crisi, rinvii, lottizzazioni, corruzioni. Antiseri ipotizza che i cattolici non abbiano più un grande partito perché i migliori tra loro non si impegnano in politica. Ma questo è forse l’unico atto di onestà “politica” dei cattolici, lasciare scoperta la propria negatività.
La chiesa ha maturato tutte le forme politiche moderne (A.Passerin d’Entrèves, Chabod, Arendt) l’auctoritas e la rappresentanza, il voto per testa e le assemblee, il merito e il premio. Ma non ha espresso, nell’epoca delle democrazie costituzionali, ceti politici di spessore. In Italia ma anche ovunque sia presente, in America Latina e negli Usa, e in Europa nella penisola iberica e nell’asse centrale, tedesco e slavo. Governicchia, più male che bene, in Austria, in Belgio è riuscita a dividere il paese, si sono divisi perfino la biblioteca di Lovanio, dalla A alla L, e dalla M alla Z., in Olanda, in Germania, dove s’identifica con metà dell’elettorato, non esprime più niente, e così in Polonia e in Slovacchia.
O forse si può dire così, reiquandrando la questione cattolica con la Germania di Adenauer, col Benelux di Paul-Henri Spaak e Jan Willem Beyen, con la Francia del Servo di Dio Schuman: dove hanno avuto un ruolo di battaglia, di contenimento del sovietismo, i cattolici sono diventati attivi e produttivi. Fino alla Grande Sovversione di Walesa e Solidarnosc. La scelta europeista, che è quella epocale del secondo Novecento in Europa, sarà stato l’ultimo – più recente – atto dell’intelligenza politica della chiesa. Ma il grande federatore sarà stato Stalin. Perché l’Europa è, sì, un progetto di superamento dell’odio tra Francia e Germania, che però è maturato sotto la minaccia sovietica – il primo piano di Jean Monnet, nel 1945 e ancora nel 1946, la cosiddetta Dottrina dell’ingranaggio, era in chiave revanscista e punitiva, col passaggio alla Francia delle miniere di carbone tedesche, a partire dalla Sarre (dopo il passaggio del carbone della Slesia alla Polonia).
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