mercoledì 22 settembre 2010

La calata dei guelfi sconquassa Unicredit

Il ritorno del guelfismo, contro l'"impero". La fine dell’equivoco che Milano coltiva della Lega buona amministratrice. L’uscita di Hvb e Bank Austria: tedeschi e austriaci non vogliono essere annegati nella gestioe unitaria. La fine della banca europea, anche i polacchi e i croati vorranno contare. Il ritiro dei libici, che nom mettono i soldi dove non sono graditi. Lo sfascio dei delicati equilibri del sistema Mediobanca (Generali, Telecom Italia, Rizzoli-Corriere della sera): al contestato fronte Libia-Ben Ammar sono legati i soci francesi che hanno assicurato stabilità nell’ultimo decennio, e tutti sono legati a Geronzi. In una ristrutturazione che deve portare alla fuoriuscita di molti dipendenti, specie su Roma. Con la possibile fine delle fortune politiche di tutto il centro-destra nel Lazio e al Nord, Unicredit è un caso Alitalia moltiplicato per dieci: l’azionariato diffuso del gruppo bancario è stimato in 500 mila persone, di cui 400 mila in Italia, a fronte dei 40 mila dell’Alitalia, che hanno appena sborsato uno dei sette miliardi di aumento di capitale nell’ultimo anno e mezzo.
Sono tutti esplosivi, e tutti negativi, gli scenari che la cacciata di Profumo apre. Non per l’uomo, che certamente è sostituibile, ma per il perché e il come, indegni di una banca. Tanto meno della prima banca in Italia, in Austria e nell’Est Europa, e della seconda in Germania. Si può anche vederla nell’altro modo, che la politica si riprende la banca, la vecchia politica dei piccoli potentati democristiani, padani, austriaci, bavaresi, ma non è una soluzione che possa stare sul mercato: il riassetto della governance interna avrebbe dovuto avere un altro iter e un’altra conclusione che l’affermazione dei “diritti” delle fondazioni. Cinque ore solo per un comunicato, peraltro breve e sgrammaticato, dalle otto all’una e mezza di notte, danno la misura dell’abisso in cui i nuovi vecchi padroni hanno precipitato la banca.
Lo scenario politico è condizionato al grado di lucidità dell'opposizione, quindi può anche rientrare. La scomparsa dei patrimoni d'altra parte non è una novità a Milano. Ma la politica comincia a pagare per questo, dalla Parmalat in poi, e l'operazione Unicredit è di una gravità assoluta. Basta immaginare i consiglieri delle fondazioni coi denti aguzzi, e gli artigli già sul malloppo: i Palenzona, Calandra Bonaura, Li Calzi, l’indagato Biasi sotto i baffi di Castelletti, per sapere cosa in realtà è successo. Con l’abbrivo della Banca d’Italia di Mario Draghi. Per lasciare la banca più grande senza management: il presidente non può gestire la banca, ci sono regolamenti che non lo consentono - anche se il “gesuita” Draghi finge d’ignorarli, e lascia scrivere il contrario (Rampl tra l’altro dovrebbe governare assistito dai vicepresidenti, cioè anche da Bengdara, il governatore della Banca di Libia...).
Lo spettacolo è unico, ma di insipienza e incapacità: cacciare l’amministratore senza averne un altro, l’amministratore della più grande e più composita banca, uno che è riuscito a pagare il dividendo anche nella crisi. E la protervia: tutti hanno brindato e brindano, anche se perderanno gli utili e intaccheranno il capitale. “Ora finalmente posso contare”, gongola da Palermo un professor Puglisi, non altrimenti noto che come presidente della Fondazione Banco di Sicilia. E da Verona il sindaco. Che non conta nulla, la Lega è sempre più un bluff. Ma si chiarisce la natura delle fondazioni, sempre e solo politiche. Facendo giustizia delle autorappresentazioni liberali e liberistiche che le fondazioni esibiscono, soprattutto fastidiose quelle di Guzzetti e dei suoi giornali milanesi. Sono un soggetto confessionale anzi, come lo ha sancito con sentenza della Corte costituzionale l’allora giudice Zagrebelsky, uno dei santoni del nuovo guelfismo.

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