Non c’è nessuno spettro, queste non sono storie di fantasmi. Giusto la sospensione davanti alla realtà che costituisce la cifra di Soldati, la cosiddetta ambiguità. Col limite delle sei cartelle da trenta righe, la lunghezza obbligata dell’elzeviro, due colonne con mancanze, che per un secolo ha aperto la terza pagina dei grandi quotidiani - il secolo nefasto della terza pagina, ghirigoresco, che ancora informa la cultura nazionale. Si vorrebbe leggere di più.
L’ambiguità di Soldati i (troppi, ma non più dirimenti, se Dio vuole) malevolenti attribuiscono all’educazione gesuita, per dire deviata o contorta. Mentre qui si tratta di conoscenza e non di morale – “Chi sa dire qualche cosa di ciò che tutti, fra poco, saremo o potremo?” Giacomo Jori lo spiega acuto nell’introduzione a questa raccolta: “Non sarà un caso che due degli autori della letteratura italiana più competenti e hantés dagli spettri, il Tasso e Mario Soldati, siano entrambi, a secoli di distanza, allievi dei gesuiti, se la spiritualità e la pedagogia ignaziane istruiscono ad abitare la psiche per sostituire gli spettri, l’«idolo» o immagine mentale che coincidono col nulla («idolum nihil est», Prima lettera di San Paolo ai Corinti 8,4), con la realtà viva dell’Incarnazione”.
Come di tutti i racconti di Soldati, in cui l’io narrante è lo scrittore, senza finzioni, la lettura è semplice. E lo scrittore è uno che vive emozioni semplici, anche quando le sa contestabili. Non si nasconde, non si camuffa. Soldati è del resto uno dei pochissimi intellettuali del secondo Novecento dalla schiena dritta - ci furono undici obiettori a Mussolini su mille professori universitari, ma un giorno, se si farà la conta, la proporzione non sarà minore tra gli intellettuali repubblicani nei confronti di Togliatti?
Mario Soldati, Storie di spettri, Oscar Mondadori, pp.210, € 9
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