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Allusione - È il metodo descrittivo più in uso. È uno svicolamento dalla crisi e dalla depressione, dalla caduta del Muro principalmente, poiché è l’unico accenno scultoreo tollerato. Ha anche una sua sensualità. Ma che ne direbbero Kipling e Conan Doyle? Che è ipocrita. E se insistita neppure divertente: L’ombra, l’indistinzione, portano all’assopimento.
Amicizia – Ne hanno un senso fortissimo gli anglosassoni. Per esempio Hemingway per Pound, o Pound per mezzo mondo (ma non reciprocano i cattolici Joyce e Eliot per Pound, non senza riserve). I Lawrence, T.E. e D.H., Chatwin, et al. Senza far gridare alla mafiosità, come fra i meridionali o per Sciascia – magari a opera dello stesso Sciascia. Semmai all’omosessualità latente, cioè colpevolizzata. Povera amicizia, perché tanto astio?
Si gusta, non si spende. È un banchetto intimo, inesauribile. Ma vuole palato fino.
Fantascienza - È l’iperburocrazia, la burocrazia moltiplicata per mille, la riduzione di ogni evento, tempo, passione, natura, a organizzazione. Fredda perciò, repellente. La fantascienza di successo è quella che introduce i sentimenti, cioè l’individuo: il rapporto col padre (la Forza), l’angelo custode (Schwarzenegger), l’agnizione tra fratelli, amici, innamorati: in un mondo siderale questi rapporti semplici diventano emozionanti.
Flaubert – “Alla virtù delle donne, ci credo più io di tanti campioni di moralità, perché credo all’indifferenza, alla freddezza e alla vanità di cui quei Signori non tengono conto”. È uno dei primi appunti di Flaubert adolescente. Forse scorretto – ma chissà, un secolo e mezzo di psicologia non ha dato di meglio – ma ben precoce: un critico di “Madame Bovary” non potrebbe essere più appropriato.
Letteratura – “La vita letteraria”, dice Baudelaire a proposito di Poe nei “Paradisi artificiali”, è il solo elemento in cui possono respirare certi essere declassati”.
Lettura - Si legge molto ai bambini, ne sono ingordi. Si legge, pare, ai malati – Arbasino racconta che gli amici si davano il cambio per leggere a Gadda sul letto di morte, che li guardava con gli occhi sbarrati. Si legge, per intendersi, narrazioni, non notizie o altri articoli di giornale. Ad alta voce. A opera di qualcuno per qualcun altro. Si leggeva ad alta voce, le mamme leggevano, le nonne, in famiglia la sera prima dell’elettricità. Si leggeva nei collegi salesiani a mensa a pranzo, per i primi quindici minuti. A pranzo e non alla cena, più breve. Uno leggeva su un palchetto, gli altri dovevano mangiare in silenzio.
Ho vissuto le letture familiari. E sono stato uno dei lettori ai pranzi in collegio, per anni, ma non ricordo null’altro di quelle letture. Se non, vagamente, che erano letture di avventure, certamente non di edificazione, fossero pure le vite di san Domenico Savio o di san Luigi Gonzaga (ma questa era tutta la pedagogia salesiana allora: non edificante). Erano forme di colloquio muto? O un ronron, una musica di sottofondo? Un modo per evitare, con gli schiamazzi, le turbolenze, e l’inevitabile rifiuto del cibo? La lettura si assapora silenziosa.
Anche il coinvolgimento degli altri, familiari, amici, nelle proprie letture non funziona. Si divaga, e si finisce nella disattenzione, si perde il filo. La lettura è un colloquio di se con se stessi, divagante, annoiato, svagato.
Manzoni – Secondo Pound (“Lettere da Parigi”, p.48) è a Flaubert che bisogna affiancarlo: “Dal quale confronto risulterebbe inferiore, o almeno credo, essendo il suo principale e unico difetto di essere piuttosto noioso, anche se eminentemente meritorio”. Aveva lo stesso gusto della passione giusta, e la passione fredda. Senza il cinismo, però, né la fregola.
Ma è Stendhal il suo specchio, col quale condivide l’età, storica se non anagrafica, il gusto romantico della storia, e la passione per Milano e Parigi insieme. Uno è però napoleonico, provinciale, avventuroso e sradicato, l’altro cosmopolita radicato, provincializzato perfino, per passione conservatrice, per rifiuto del mondo. “Il francese risorse dopo Stendhal”, nota lo stesso Pound (“Carte da visita”, 53), “che scriveva male”. L’italiano inaridì col perfezionista Manzoni.
Nietzsche – Non crede in Dio, ma nel diavolo sì. Nichilismo povero, erede di Hegel e Hölderlin ragazzi.
Proust – I proustiani non si lasciano toccare, rifuggono il contatto fisco. Ma amano le cose: sedie, fiori, quadri, gioielli. Non si può dire cioè che vivono di fantasia. Anche i personaggi devono essere “qualcuno”, a chiave vaga, per il diletto della ricerca. Sono solipsisti ancorati al possesso, che onorano, borghesi.
Il Novecento sarà stato Proust - con Joyce e Musil: l’alluvione incontenibile dell’io narrante, prospettiva, entità e tutto, nella quale ovviamente la storia e gli eventi, pure tragici, inverecondi, si stemperano. Non bastano cinquecento pagine per dare rilievo a Albertine, oltre alle centinaia sparse qua e là, al di fuori della psico-sociologia dell’epoca, fine secolo datatissimo, soprattutto nel modo d’essere delle passioni, dalla gelosia allo snobismo, on aggiunte di maschiettiamo dopoguerra. Alle genericità rimediandosi con le trasgressioni da campionario clinico, alla Krafft-Ebing.
Romanzo – Quello italiano è debole perché l’Italia è elusiva. Da Gianni Agnelli al parroco di paese è una gara a nascondersi, dissimulare il proprio ruolo, le ambizioni e le passioni. Il romanzo nazionale italiano, quello di Manzoni, naviga tra figure di scarto e moraleggia, perfino nelle parti liriche. Manzoni rispecchia l’Italia, o l’ha fatta?
È francese, ed è d’amore. Dopo essere stato per alcuni secoli di cavalleria, e di galanteria.
Anche altre letterature hanno ottimi romanzi, e su più generi, d’avventura, storico, poliziesco, ma li chiamano in altro modo, novel, tale, novela. Italiano e tedesco hanno ripreso la locuzione francese per recente sudditanza culturale. In inglese e in spagnolo romance ha significato limitato alla locuzione originale franco-provenzale, di romanz come genere cavalleresco e di fantasia.
Saba – Scrittore melenso – e personalità perfino poco simpatica. Tipico caso di autore che è il suo critico: Saba in realtà è Giacomo Debenedetti.
Sciascia - È manzoniano, quindi antimeridionalista: è narratore raziocinante, costruito. Come Manzoni, è il problema del potere che lo agita, non la violenza, o la bellezza, l’amore, la natura, la morte.
Sciascia non aveva la grazia. Ma neppure Manzoni, se lo si guarda dentro, ce l’ha. Manzoni in più ha una buona dose di humour. E grande cultura storica, nonché esperienza di vita e cosmopolita. Mentre Sciascia sa raccontare.
Ma perché Sciascia dovrebbe essere Manzoni? È lui che se la tira.
Stendhal – L’amore vuole estetico – la cristallizzazione: “Basta pensare a una perfezione per vederla nella persona amata”. E riservato ai gentiluomini, con rendita: ne esclude chi non ha cultura e chi non ha loisir: il selvaggio, l’affannato. Purché di sesso femminile: solo la “donna sensibile” è capace di “non provare piacere fisico se non con l’uomo amato”, l’uomo no, “perché egli non si trova a dover sacrificare il proprio pudore che per pochi momenti”. Compreso il secentesco colpo di fulmine: “La donna che ama trova troppa gioia nel sentimento che prova per riuscire a fingere”, a fingere l’indifferenza, mentre “la diffidenza rende impossibile il colpo di fulmine – la virtù maschile, cioè”.
Galanteria? Stendhal è il romanziere-uomo, per il quale l’amore, e le storie d’amore, sono l’unica storia possibile.
Teatro – È il miglior mezzo di propaganda, la rappresentazione convince meglio dell’argomentazione. Anche fuori scena: sulla strada, alla tv. Tutto il contrario della razionalizzazione weberiana. Aveva ragione Rousseau, il teatro corrompe. Rousseau che scrisse per il teatro. Anche Marx ci ha tentato.
letterautore@antiit.eu
venerdì 17 settembre 2010
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