La delocalizzazione esporta lavoro e capitali, a Timisoara, in Albania, in Slovenia, in Turchia, dove il lavoro costa meno per unità di produzione standard. Ma riducendo, alla sommatoria, il reddito disponibile: i capitali, il monte salari, e in circolo ogni altra fonte di reddito. La delocalizzazione è esportazione di reddito e quindi di capacità d’acquisto. Per questo la domanda interna ristagna.
La delocalizzazione è anche una pausa, quando non una riduzione, della produttività. Settoriale, nelle attività coinvolte, e generale. Per i mancati investimenti nei settori coinvolti, e per effetto del peso cresciuto che le attività protette o captive, banca, assicurazioni, servizi, e lo sterminato comparto della pubblica Amministrazione, hanno nell’economia generale.
Il fatto è ben noto in Germania, dove la delocalizzazione si fa a condizione di accrescere i beni e servizi nazionali da conglobare nell’accresciuta produzione. Con l’effetto di avere una produttività cresciuta di un 10 per cento negli ultimi dodici anni, quelli della ristrutturazione più massiccia, mentre in Italia la produttività risulta ridotta del 6 per cento. Con la creazione di una forbice insostenibile, in un mercato aperto, concorrenziale, tra i margini della produzione unitaria in Germania e in Italia.
Il fatto è peraltro noto anche in Italia. La voragine tra i due sistemi produttivi è dovuta alla risposta diametralmente contraria del sindacato italiano rispetto a quello tedesco. La posizione italiana è sempre quella della difesa del contratto nazionale e dello statuto dei lavoratori, con paghe stagnanti o in calo in termini reali, e un mercato del lavoro sempre più asfittico. Mentre quella tedesca è stata di salvare il reddito complessivo, garantendone una crescita adeguata, e il mercato del lavoro. Questa posizione ha anche giovato al sistema produttivo, come si vede, in una sorta di circolo virtuoso.
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