Il fine della letteratura – della poesia – è il piacere, opina Barthes già nel 1967 sul “Times” letterario (“Dalla scienza alla letteratura”, che introduce questa raccolta). Ma ha scritto centinaia, migliaia, di pagine inutili, spiacevoli. Sullo scrivere lettere. sul pieno che è il vuoto. E il vuoto che è il pieno. La diatesi. E lo shifter? Questo, è vero, è di Jakobson. Fra le diatribe ormai stucchevoli sui quattro moschettieri, Flaubert, Proust, Balzac, con un pizzico di Stendhal – più l’onnipresente Sollers. Fra testi certo memorabili (qui “La morte dell’autore”, “Il neutro”, “Brillat-Savarin”), ma per far rimpiangere il tempo perduto. La linguistica cosa lascia? I socioletti acratici. Alla fine l’aveva detto lui stesso nel 1973 in conferenza ai lunedì letterari italiani: “Non conosciamo bene né la fisica, né la dialettica, né la strategia di ciò che chiamerò la nostra logosfera”. Resta vero ciò che era vero: “La linguistica della connotazione… non è ancora costituita”.
Roland Barthes, Il brusio della lingua
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