Giuseppe Leuzzi
Un solo Procuratore della Repubblica a Enna, per settemila procedimenti penali l’anno, 35 per ogni giorno di lavoro, in una zona mafiogena. Mentre a Trani, alla periferia di Bari, nove Procuratori si crogiolano aspettando d’intercettare il nome di Berlusconi al telefono.
La città distingue il Nord dal Sud, più che ogni altra morfologia. Al Nord è una capanna, copertura, al Sud è apertura. Il Sud si protegge con la piazza. Che però è poco rimedio, che incessantemente catapulta fuori – è in questa mancanza di riserbo la “nevrosi” del Sud?
Le generalizzazioni etniche sono più spesso negative, la similitudine, la napoletanità, anche se inalberate con orgoglio. Sono scarti regressivi, innestandosi in una situazione di dipendenza che non ribaltano e anzi aggravano. La differenza si connota positivamente nell’unità di intenti, o civile, o sociale, o culturale. Altrimenti è separatezza, fondamentalmente ostile.
Le generalizzazioni, rileva Gershom Scholem in “Teologia e Utopia”, sottintendono o sottolineano non la diversità ma un senso di ostilità. È vero e rilevabile di ogni stereotipia, non solo di quella (anti)semita. Un napoletano e un toscano sono diversi e l’hanno sempre saputo La napoletanità scatta quando il toscano non ne può più.
Scrivendo nel 1957 per il “Corriere della sera” le impressioni di un suo viaggio in Calabria, Bernard Berenson novantenne, ha una fresca idea: il problema del Meridione è il contadino. “Il tipico Mezzogiorno, cioè l’Italia al di sotto di una linea idealmente tirata da Salerno a Lucera, soffre più del fatto che vi manca il contadino vero e proprio che non dell’assenteismo del padrone dei fondi… Buon numero di aziende agricole darebbero migliori risultati se nel Mezzogiorno esistesse un effettivo contadinato. E con ciò intendo gente che di genere razione in generazione vive volentieri sopra al pezzo di terra al quale presta la propria opera manuale, che lo ama e lo preferisce a qualsiasi altro… In Toscana, non è raro che poderi siano coltivati dalla medesima famiglia per più di due secoli; poco di simile si riscontra nel Mezzogiorno”. Il Sud ama il possesso, non la terra – l’agricoltura.
Come creare un legame con la terra, si chiede poi Berenson. Con la riforma agraria ci vorranno tre generazioni, si risponde. Cioè oggi. Oggi effettivamente si comincia a vedere gente che ama la terra che coltiva, e sta imparando a fare l’olio e il vino che sempre ha prodotto.
“Questi boschi così temuti, in effetti non solo sono poi così tanto,e questi famosi briganti calabresi sono come i bastoni ruotanti di La Fontaine: da lontano sono qualcosa, da vicino non sono niente”. A un certo punto del suo viaggio a piedi, quattromila miglia nel 1830, per la Calabria e la Sicilia, il ventiseienne ginevrino Charles Didier colloca questa osservazione. Che è sbagliata, i briganti ci sono e c’erano, ma è vero che da vicino sono solo briganti. Il timore-che-non-è-vero-timore, però, il pregiudizio o voce pubblica, non è senza effetto: “Il terrore che ispira rende il calabrese cattivo, perché niente demoralizza di più popoli e individui del disprezzo e dell’odio pubblico”.
Pentiti
Lo sbirro e il criminale s’incontrano, si sa. Ma Juenger sa che s’incontrano in modo speciale (“Entretiens” con J.Hervier, p.133): le due figure “si ricongiungono nella figura dell’onorevole corrispondente, del confidente, come lo si chiama, che è metà poliziotto e metà criminale”
C’è sempre un superteste nel giustizialismo, ma a confermarne la natura perversa (illegale, golpista). Se il superteste è una persona onesta, che ha denunciato i delitti per tempo e non è stato creduto, è in realtà un testimone a carico dell'apparato repressivo, forze dell'ordine, giudici, giornalisti a cui si è rivolto. Se è un supertestimone dell’ultima ora è, nella migliore delle ipotesi un mitomane – ma di solito è un profittatore. Oppure è l’equivalente della lettera anonima: uno che apre e tiene vive alcune tracce, senza l'obbligo di certificare le sue affermazioni. E anzi tanto più può aggravarle in quanto è garantito dall'impunità.
“Testis unus testis nullus” è – era - uno dei principi fondamentali del diritto.
Calabria
“Ricordiamo lo sperimentalismo di Francesco Leonetti” è quanto il poeta cosentino, animatore di “Officina”, corrispondente di Pasolini, si merita nella pur attenta “La letteratura calabrese” di Antonio Piromalli. Scarsa è l’autostima dei calabresi.
Giovanni Paolo Parisio (“Aulo Giano Parrasio”) insegna a Milano otto anni. Molti calabresi nel Cinquecento, e ancora nel Seicento, sono precettori nelle famiglie ducali dei Farnese e dei Gonzaga, e nelle università di Milano, Padova, Roma. E ancora nel Settecento – Casanova (recalcitrante) e Metastasio (riconoscente e perfino sentimentale) vi fecero parte della loro educazione, localmente, recandosi in Calabria.
Nessun milanese o padovano è mai venuto a insegnare in Calabria. Giusto Lombroso, che insolentiva i calabresi, e Morselli, che ci fece il servizio militare, di guardia al bidone.
Galluppi ha riaperto l’Italia alla filosofia. Introducendo in Italia Kant, seppure con lettura “faticata e parziale” (Firpo). La cattedra di filosofia a Bologna fu tenuta dal 1862 per mezzo secolo da tre calabresi: Francesco Fiorentino di Sambiase, Francesco Acri di Catanzaro, G.M. Ferrari di Soriano.
Verga giovane, con il denaro datogli dal padre per concludere gli studi, pubblicò a sue spese il romanzo "I carbonari della montagna" (1861- 1862), un romanzo storico che si ispira alle imprese della Carboneria calabrese contro il dispotismo napoleonico di Murat. Che più non si edita.
Umberto Zanotti Bianco, il miglior conoscitore dei problemi della Calabria, in particolare dell’Aspromonte, negli anni 1910-1920, è un piemontese. Che si avvicinò alla regione un po’ sull’emozione per il terremoto del 1908, e un po’ per l’archeologia, col suo amico Paolo Orsi.
Del patrimonio bizantino in Calabria trattano per la prima volta negli anni 1820 August Friedrich Pott, il pioniere della linguistica, futuro specialista del romanì, la lingua degli zingari, e Karl Witte, che sarà famoso cultore di Dante. Un secolo dopo ne tratta Gerhard Rohlfs. Tre tedeschi.
I greci di Calabria erano liquidati come “tamarri”, parola poi entrata nell’italiano corrente, e “pajechi” o “paddechi”. Due termini che il vocabolario di Rohlfs registra nel significato di “uomini rozzi, villani zotici, e stupidi” – e di cui non sa trovare l’etimo (ma il secondo non è uno spregiativo per ragazzo, pais-paidòs?)
La grecità si riscopre in questo scorcio di millennio con i fondi europei propiziati dalla Grecia per festival e restauri.
C’è una cospicua “materia d’Aspromonte”, un ciclo cavalleresco attorno alla montagna, intesa come ultimo baluardo della presenza bizantina da conquistare, nei secc. IX-XI, poi sfruttato dai normanni, e nel tardo Quattrocento-primo Cinquecento, dagli Estensi e da altre signorie quando si vollero trovare antenati illustri. Un ciclo pieno di versioni e diversioni, sull’originale di un troviero normanno, come i più noti Reali di Francia e la materia di Bretagna, o arturiana. Ma è ignoto in Calabria. Lo hanno studiato un giovane olandese per la sua tesi di dottorato nel 1937, Roelof van Waard, “Études sur l’origine et la formation de la chanson d’Aspremont”, Groninga, e il toscano Marco Boni sessant’anni fa, nella volgarizzazione di Andrea da Barberino. L’uno lo inquadra nell’itinerario del pellegrinaggio in Terra Santa, Boni nel ritorno al volgare dopo l’umanesimo dotto, nella scorrevole ottava toscana.
Carmelina Siclari, che da Reggio ne ha tentato la lettura e la contestualizzazione storica, non è potuta andare oltre un breve saggio per le edizioni Novecento, e un’edizione (autoedizione?) sconclusionata di una delle edizioni del Quattro-Cinquecento - quella, si presume, redatta per gli Estensi.
leuzzi@antiit.eu
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