Giuseppe Leuzzi
Garibaldi brigante
A maggio Annita Garibaldi, pronipote dell’Eroe dei due mondi, nipote diretta di Ricciotti, figlia del suo quinto figlio Sante, durante la trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa, ha detto che il nonno Ricciotti nel 1861 ritenne necessario combattere coi briganti: “Mio nonno a Caprera si indignò talmente tanto dello sfruttamento del Meridione da parte della nuova Italia, che andò a combattere con i Briganti”. Ricciotti avrebbe combattuto nel territorio di Castagna, in provincia di Catanzaro, in cui operava un gruppo di briganti capeggiati dal garibaldino Raffaele Piccoli. Una rivolta che andò avanti fino al 1870.
Ricciotti Garibaldi, il figlio unico di Giuseppe e Anita, era nato in Uruguay nel 1847. Aveva quindi nel 1861 solo 14 anni. Ma nessuno storico se la sente di smentire Anita jr.. D’altra parte lo stesso lo stesso Giuseppe Garibaldi scriveva a donna Adelaide Cairoli nel 1868, la madre dei martiri: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esser preso a sassate, essendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”.
La richiesta va rinnovata: perché Napolitano non apre per il centocinquantenario gli archivi della lotta al brigantaggio, se non sono stati distrutti?
Il costo delle radici
Andrebbe riesaminata la protervia dell’emigrato, che sempre si ritiene in credito col paese d’origine, la regione, la famiglia. Un punto è già chiaro: la bilancia dei pagamenti dei ritorni degli emigrati è un grosso salasso per le terre di emigrazione.
Il ritorno si fa per periodi sempre più ridotti, da qualche anno due o tre giorni, per Ferragosto, giusto per vedere la mamma, o il padre. Con sempre meno figli al seguito. Comunque sempre senza spendere. Non per il cibo, che viene fornito dalla famiglia. Né per altri generi voluttuari, che un emigrato non può trovare rispetto a ciò di cui può disporre fuori. Forse per la benzina, ma non necessariamente.
La famiglia di origine invece spende molto per questi ritorni. Grandi pasti. Regali per tutti, anche per chi non è venuto. E una serie di provviste che, apprezzate o meno, ma costose, appesantiranno il viaggio di ritorno: olio, vino, insaccati, formaggi, dolciumi, ricordi. Qualcuno si porta anche la carne, in sacche-freezer, pagata dai parenti.
Il saldo negativo può non essere indifferente. Si ipotizzi con ogni probabilità una spesa media per ogni ritorno di 500 euro. Per 100 mila ritorni in Calabria o in Sardegna, il saldo regionale per questa voce è negativo ogni agosto di 50 milioni – di 100 milioni se i ritorni sono 200 mila. Per la Sicilia i ritorni ipotizzabili sono il doppio, e così pure lo sbilancio.
A ciò si può aggiungere l’invio periodico di generi alimentari e di conforto, sempre a senso unico, dalle famiglie al congiunto emigrato, di vino, olio, agrumi, dolciumi, con aggravio di spese di corriere. Il saldo dei pagamenti dell’emigrazione postbellica, non di necessità, continua a essere negativo ancora per lunghi anni, un paio di generazioni. Fino a che si perde la nostalgia e l’uso del ritorno.
Se ne può anche inferire che le radici, se servono all’emigrato, alla sua igiene mentale e alla sua autostima, implicano un costo non indifferente e continuato per la terra d’origine.
L’odio-di-sé meridionale
“Il porto dove si svolgono i traffici della mafia. Il porto di Gioia Tauro, città capoluogo della mafia, dove sono state scoperte tonnellate di tritolo in un container. Il più grande porto di container del Mediterraneo”, strillava gioiosa alle 15.30 di giovedì una voce femminile annunciando le news di “Baobab”, trasmissione impegnata di Radiorai Tre, rete impegnata. La notizia è che, tra tutti i porti di transhipment (trasbordo) di container, solo a Gioia Tauro sia stato individuato e neutralizzato il carico di esplosivo. Ma per la Rai la cosa è importante solo perché può dire in qualche modo che il più grande porto container del Mediterraneo è mafioso.
Il porto canale di Gioia Tauro, ben progettato e ben gestito, peraltro da società genovesi, milanesi, tedesche, da sempre ha suscitato rancori. Anche perché, oltre a moltiplicare il transhipment attraverso uno scalo italiano, a danno di Algeciras, Barcellona e Porto Said, ha preso traffico ad alcuni scali del Nord Italia. Ma i giornali locali, la “Gazzetta del Sud”, “il Quotidiano”, “Calabria Ora”, non ne hanno opinione diversa. Non ne sanno molto, e non si curano di saperne. Di un porto che è la grande più realtà industriale della Calabria e a questo punto, dovesse la Fiat andarsene da Pomigliano e Termoli, anche del Sud. I tre giornali unicamente sono interessati a metterci la mafia. Non si può dire per storditaggine: si faranno leggere solo se il porto è della mafia.
La Scozia è un buon esempio di sottosviluppo indotto. La tradizione quale oggi la conosciamo che nobilita la Scozia, dai clan alle musiche, fu inventata di sana pianta (H.Trevor Roper in “L’invenzione della tradizione”), nella prima metà dell’Ottocento, in clima cioè di revanscismo nazionale, nella parte meno nobile della Scozia, le Highlands. Ci vuole poco, basta la convinzione. Per un paio di secoli l’Inghilterra lo aveva impedito, qualificando gli scozzesi di pastori, selvaggi, ladri di pecore. Al punto che gli stessi scozzesi lo dicevano di sé, lo poetavano perfino.
Calabria
Philippe Séclier, il fotografo francese che riedita “La lunga strada di sabbia”, ha trovato appeso nella bottega del barbiere di Cutro un fotoritratto di Pasolini “radioso”. “La lunga strada di sabbia” è il diario del viaggio di Pasolini per i duemila chilometri delle coste italiane in quattro o cinque giorni dell’estate del 1959. Il poeta vi diceva Cutro “un posto da banditi”. Ma piace sfottere, ed essere sfottuti.
L’impetuoso Campanella e il metodico Telesio considerano Aristotele “il tiranno dell’ingegno umano”, contrarissimi all’autorità sovrimposta alla scienza. I primi e a lungo i soli. A conferma della “natura inquieta e altera dei calabresi”? (G.Galati, “La poesia dialettale calabrese”).
Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella, i calabresi più eminenti, sono di spirito infiammato,. Molto intuitivo, poco coltivato – uncouth. O allora, Cassiodoro, estremamente remissivo.
I calabresi terragni che ora popolano il Canada e l’Australia nel Quattrocento erano a Tripoli, Tunisi, Algeri, e a Costantinopoli in una Nèa Calabria.
Catanzaro ha avuto dal 1497 un habeas corpus, caso unico in Italia, imposto a un re Ferdinando di Napoli: un cittadino non poteva essere imprigionato fino alla pubblicazione della sentenza di condanna, la città non pagava le tasse che non aveva votato. Ne dà notizia Charles Didier, “Viaggio in Calabria”, che ne fu informato nel 1830, quando girò la penisola a piedi, ed è l’unica fonte.
Didier dice che la costituzione fu imposta al re di Napoli Ferdinando. Che però, se era Ferdinando II d’Aragona (Ferrandino) era morto già l’anno prima, nel 1496. Nel 1497 il re di Napoli era Federico d’Aragona.
I calabresi trovava il patriota Paolo Mattia Doria tre secoli fa, chiedendosi perché la penisola fosse afflitta dalle dominazioni straniere, “di mezzana cosa incapaci: o sono fortissimi o vilissimi, o dottissimi o ignorantissimi”. E anche: “Sino che stanno nell’ignoranza, sono a’ vizj soggetti, ma sprigionato il lor talento, sono abilissimi”.
Si dice anche delle popolazioni di montagna. E forse questo è la Calabria, con tutto il suo mare e i suoi greci: un blocco di montagna. Non solido, anzi soggetto a terremoti e frane. Non inscalfibile quindi, e anzi malleabile. E anzi instabile, soggetto agli umori.
leuzzi@antiit.eu
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