La scuola di Rignano Flaminio aveva un’uscita secondaria, il registro delle presenze non era accurato. Una giornata di deposizione al processo, dopo un anno di indagini, non ha estratto dal capitano dei Carabinieri Capobianco di Bracciano, che ha formulato il capo d’accusa, altre verità. Come se i registri delle presenze nelle scuole degli ottomila comuni italiani fossero tavole della legge, e l’uscita secondaria non fosse al catasto, ma un segreto degli orchi. È l’altro buco nero della giustizia italiana: la capacità, o incapacità, di indagine. Singolarmente carente anche in casi ben più tragici, soddisfacendosi solitamente di allinearsi e coprirsi con le nevrosi e le fobie del momento: per sei mesi si perseguono i pedofili, per sei gli usurai, per sei gli stupratori, per sei gli impiegati del catasto che prendono troppi caffè, e questo assolve da ogni prevenzione o repressione di specifici delitti.
Benché anche il caso di Rignano non sia lieve: tre o quattro generazioni di bambini ne resteranno marchiati a vita. Per l’impudenza di un paio di genitori, che hanno scaricato sulle maestre, e sui figli, le loro fantasie perverse. E per l’incapacità di chi ha voluto e condotto le indagini, fin dall’inizio con un intento dichiaratamente colpevolista: bisogna assolutamente che ci siano dei casi di pedofilia in ogni Procura. Di questo caso peraltro si può parlare perché non ci sarà risarcimento: i giudici e gli inquirenti non saranno chiamati a rispondere della loro vanità, le maestre saranno solo contente di liberarsi dalle loro grinfie. Né i bambini potranno mai chiederne conto ai genitori. I bambini sono sempre vittime degli adulti, naturalmente, è una dipendenza inscalfibile. Ma una vera giustizia dovrebbe ogni tanto chiederne conto agli adulti, quando peccano di leggerezza, o di perversione.
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