Il Pci è Gramsci, esordisce Canfora. Mentre è, era, si sa, di Togliatti, fino alla fine, e anche dopo – lo è tuttora, anche se il Partito non esiste più, nei suoi liquidatori, i nipotini di Berlinguer. Gramsci del resto ne fu a capo per un solo anno. Dopodiché, dopo che perse la leadership con la prigione fascista, “un invalicabile baratro” si aprì col Partito (di Togliatti). Canfora, si sa, ha fatto di più, celebrando Togliatti come difensore della libertà. Mentre, se i comunisti europei avessero fatto una colossale cistka dopo la loro scomparsa politica, la ripetizione a sinistra della Norimberga americana, Togliatti sarebbe stato uno dei più certi condannati - e questa analisi ne è un esempio: l'allegro cinismo degli intellighenti, mezzo secolo dopo la morte del Migliore.
Ma l’esordio è solo un anticipo: l’uomo di Mosca nel comunismo italiano era Gramsci, intollerante e di brutto carattere, un elitista e quindi uno staliniano. Perché Gramsci era uno staliniano. Perché convinto della bontà del socialismo in un solo paese. E perché “uno dei tratti della tradizione bolscevica che resta più saldo in Gramsci è proprio l’impronta elitista”. Tradizione? Nel pieno del mutamento? Comunque, “l’intreccio fortissimo tra elitismo e bolscevismo... è la chiave di accesso più congrua al problema della collocazione di Gramsci nel solco e nel dramma politico del comunismo europeo”.
Un libro importante del grande scrittore, dove la storia e l’arguzia si fanno serve del falso perdurante. È passato inosservato ma la colpa è proterva. Fanno collana ai tre scritti brevi su Gramsci due su Giulio Cesare, prodromi alla monografia di due anni dopo, e un esilarante, questo sì, pamphlet sul revisionismo “diffuso”, la mania decostruttiva. Salvo ridicolizzare chi fa di Gramsci un “liberista” e un socialdemocratico. Lui che lo fa uno stalinista.
Luciano Canfora, Su Gramsci, Datanews, Remainders, pp.79, € 6
giovedì 14 ottobre 2010
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