L’università? L’unica speranza a questo punto, prima che le università chiudano, è che si faccia la legge. Una qualsiasi legge. E di questa legge si facciano i decreti attuativi prima che cada il governo. Non si pretendeva da Berlusconi che si occupasse dell’università. Che ha perciò confidato a due signore - e che non gli rompano le scatole, come suole dire in privato. Le due signore magari qualcosa avrebbero voluto farlo, per orgoglio, ma sono politicamente zero. Si addobbano quindi di progetti di riforma, il cui solo esito è di bloccare l’esistente, aggravando i problemi. Che per l’Università sono a questo punto di tre ordini, e insolubili: di risorse finanziarie, di didattica, e di ricerca. L’università di oggi sembra la media obbligatoria agli esordi, imbottita di supplenti: la sola differenza è che i supplenti venivano pagati come insegnanti, mentre i dottori in cattedra non sono pagati, e non accumulano punti per la carriera.
Letizia Moratti ha contingentato i ricercatori, pretendendo che non superassero i cinque anni di attività , ma ha fatto una legge che impedisce qualsiasi concorso. In questi dieci anni l’insegnamento universitario è stato svolto da cultori della materia, non necessariamente col dottorato. Un esito talmente assurdo che dirla incapacità è poco. Razionalizzando, bisognerebbe pensare le due ministre impegnate in realtà a scardinare l’università pubblica, e reintrodurre la selezione sociale attraverso le università private, dove si compra e si paga quello che si consuma. Può essere: è il loro mondo sociale è quello, la dignità è privata. La tecnocrate Moratti si è peraltro distinta nello scioglimento del più ricco e meglio governato centro di ricerca, l’Istituto Nazionale di fisica della Materia, gestito da troppo “comunisti”, dentro il vecchio Cnr della vecchia guardia Dc, compreso il presidente Maiani. Ma, poi, si vede Maria Stella Gelmini bloccare l’unico concorso che in dieci anni le università avevano approntato perché fulminata da un articolo di Giavazzi sul “Corriere della sera” che propone un nuovo modo di costituire le commissioni di esami. E non si può pensare che l’economista della Bocconi, distinto antiberlusconiano, o il “Corriere della sera” vogliano la morte dell’università. Ne vogliono, naturalmente, una migliore, “Milano” non è città illuminista?
Ma si parla dell’università come di ogni altro problema: la sanità, l’evasione fiscale, la criminalità, il lavoro, l’immigrazione. Due governi solidi di Berlusconi non hanno affrontato una sola riforma, sempre in attesa di una migliore. Prodi non si può rimproveralo alla stessa maniera, perché ha avuto maggioranze risicate e traditrici, ma anche dal suo fronte non c’è una sola riforma. Perché questi politicanti inetti, le terze file della Repubblica abbattuta da Milano, vogliono la perfezione. Le leggi infatti non si chiamano più leggi ma riforme. È il linguaggio fasullo della “rivoluzione italiana”. E le riforme non sono niente, nemmeno leggi. Se ne ricordano poche in questi quasi vent’anni di politica. Di leggi effettive, efficaci. Una di esse è la Bossi-Fini, così perniciosa per le famiglie, per gli immigrati, per le questure che non sanno gestirli (e come potrebbero? le questure si occupano dei delinquenti), per la povera Italia che induce a razzismo. Che poi era l’unico fine della legge. Magari non voluto, il che è ancora peggio. L’unica legge buona che Berlusconi può vantare è la Biagi, che regolamenta il nuovo mercato del lavoro. Legge che il suo governo si è trovato opportunisticamente ad avallare, lasciando però l’autore indifeso preda delle Br – avete mai letto di Berlusconi, o di un suo qualsiasi ministro, che promuova un convegno, intitoli una cattedra al suo nome, crei delle borse si studio Biagi?
La cultura del non fare
La “rivoluzione italiana”, o di Mani Pulite (mani pulite a Milano?), o lombarda, di Borrelli, Bossi, Berlusconi, Bazoli, Assolombarda, ha portato la politica alla non decisione in tutto, sotto pretesto della riforma. Che non si fa. Un tempo si sarebbe detto per privilegiare interessi costituiti, di questo di quel potentato, sotto le chicchiere. Può essere, ma soprattutto vige l’indifferenza. Che è incapacità. Si fanno le riforme federaliste solo per aggravare il fisco. Il ministro delle tasse Visco ha introdotto nel 1998 le addizionali Irpef, Regionali e Comunali, su tutti i redditi, con un incremento medio della tassazione dell’1,5 per cento. Un aumento analogo si propone il federalismo di Tremonti: un’addizionale dell’1,5 per cento per i redditi di 28 mila euro. Lordi. Equivalenti a un’entrata di 1.500 euro al mese. Il federalismo, alla fine di tante riforme, sarà stato un aggravio fiscale di tre punti, oltre al titolo di governatore per Formigoni e compagni.
La cultura del fare sarà ricordata per le ridicolaggini del Ponte sullo Stretto e della Tav con la Francia attraverso la valle di Susa. O del piano nucleare. Oltre alla tante Malpensa di cui Milano ha contagiato l’Italia. Il nuovo valico Firenze-Bologna, la Livorno-Civitavecchia, l’allargamento di dieci metri della Salerno-Reggio Calabria che ha già preso dodici anni e ne prenderà quindici, e forse venti. La colpa? È della mafia.
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