Nel 1930, a 24 anni, mentre studia filosofia all’École Normale Supérieure, compagno di corso di Sartre e Aron, l’italianista Beckett, che sa tutto da Dante fino a De Sanctis e D’Annunzio, dà una lettura maestra di Giotto e Giorgione (il “Concerto” e la “Tempesta”), e traduce in inglese Montale e Comisso, scrive su Proust il saggio forse più interessante, certo il più solido, ancora dopo ottant’anni. Specie sul tema della memoria: La “Ricerca” è “un monumento alla gloria della memoria involontaria”, la memoria involontaria ne è il leitmotiv. Ma in una celebrazione ambigua, giocata di fatto sull’ironia.
È una sorta di animismo che Proust pratica, di totemizzazione (Beckett lo dice un féticheur): “La sorgente, l’origine di questo “atto sacro”, gli ingredienti della comunione sono forniti dal mondo tangibile e grazie a un lampo di percezione immediata e fortuita. Il procedimento attiene quasi a un animismo intellettualizzato”. Dopodiché ritiene di poter fare “la lista dei feticci”, gli oggetti che scatenano la memoria: la madeleine naturalmente, le campane di Martinville, gli odori dei gabinetti agli Champs-Elysées, i tre alberi di Balbec, il cespuglio di biancospino presso Balbec, mentre si abbassa per sbottonare gli stivaletti, il pavé nel cortile dei Guermantes, il rumore di un cucchiaio contro il piatto, mentre si asciuga la bocca con una salvietta, il rumore di una tubazione d’acqua, “François le Champi” di George Sand. Una lista che, senza le rime, richiama Gozzano, lievemente al di qua dei baci Perugina: il potere evocativo ha un orizzonte crepuscolare. Come di chi guardasse a occhi bassi, benché immodesti, golosi.
Il tutto confluisce alle “intermittenze del cuore”, di cui in “Sodoma e Gomorra”, anch’esse molto crepuscolari. Col gusto cabalistico di scartare in continuazione, cioè a folle. Nel deserto dei sentimenti. Albertine, il personaggio più indagato, “non è un essere, è una nozione”. E questo è il tratto distintivo: non c’è l’amore in Proust. Anzi ne è escluso: “L’amore più esclusivo per una persona è sempre l’amore di un’altra cosa” (“All’ombra delle fanciulle in fiore”, II). Oppure (“La prigioniera”, II). “Non si ama che ciò che non si possiede tutto intero”. Che, cabalisticamente e non, non succede mai – che vuol dire “possedere tutto intiero”? E dunque siamo condannati all’amore…E ancora (“Albertine scomparsa”): “Si desidera essere compresi perché si desidera essere amati, e si desidera essere amati perché si ama. La comprensione degli altri è indifferente, e il loro amore importuno”.
Peggio ancora per l’amicizia. Che origina in Proust, secondo Beckett, nella vigliaccheria: “L’amicizia non è soltanto priva di virtù come la conversazione, essa è per di più funesta” (“All’ombra delle fanciulle in fiore”, II). Nei “Guermantes” l’amicizia è situata tra la fatica e la noia. Ma trova Proust in quello che sarà il nucleo di Sartre tredici anni dopo, “L’essere e il nulla”: “Sono condannato a vivere sempre al di là della mia esistenza, al di là dei moventi e dei motivi del mio atto”. Che però era già Bergson, certo.
Samuel Beckett, Proust
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