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Morte – Samuel Beckett, “Proust”, p. 36: “La morte guarirà molti uomini dal loro desiderio d’immortalità”. Non Beckett, però, né Proust, a cui Beckett addebita la conclusione. Non tutti quelli che hanno un amico o un parente. E nemmeno i solitari ignoti: ognuno lascia una traccia, sia pure un grano di polvere.
Platone – Sempre a caccia del sublime, costeggia quindi il ridicolo. Si potrebbe farne un arguto “Il comico in Platone”.
È l’antipolitico. È quindi anticreativo. Nel suo nome vanno bene le avanguardie, le élites, i numi, ma non la poesia né la grazia (le bellezza, che non si dice). Nemmeno l’aristocrazia dei modi, che nasce anch’essa dalla politica (conoscenza dei più, del popolo, del mondo), solo lo snobismo – non il dandysmo, che si radica in una sofferenza iniziale.
Possesso – Si radica nel “terribile diritto”? No, c’è un istinto di appropriazione ed esclusione, che il diritto semmai limita e indirizza. Ma con una contraddizione: tanto più si accresce e diffonde il benessere (il possesso). Meno l’istinto esclusivo e di proprietà vuole fare, e può fare, danni.
Razzismo – È l’isolamento che porta alla “purezza della razza”, questo si sa, è un fatto, ma non si vuole ammetterlo. Il razzismo tedesco è stato anzitutto il fallimento della loro orgogliosissima filosofia – è forse questo l’anello che mancava a Hannah Arendt, che si trovò davanti agli amati teutoni con in mano niente più che banalità.
La sua forza diabolica è che è a senso unico: Treviso può insultare la Panasonic-Reggio Calabria, Reggio non può insultare la Benetton-Treviso. Un africano non può fare la morale a un britannico.
Però gli ebrei, che si avviano a essere la sola razza pura, e anzi “una razza uno Stato”, potrebbero un giorno dire dei tedeschi che sono mezzisangue, come infatti lo sono.
Semiotica - È scienza realistica. Di un linguaggio che c’è, e anche tosto.
Sport – L’attrazione delle cronache di sport, di qualsiasi sport, anche quelli che non si sono mai praticati, e perfino quelli di cui non si conoscono le regole, in qualsiasi lingua, arabo compreso, o giapponese. Stimola il ritmo: invitante, promettente, costruttivo. È l’unico agonismo che ci è rimasto, a noi della civiltà urbana. Un antidepressivo. Lo sport è gara senza astio, non ultimativa, finita una se ne farà un’altra, e senza stanchezza, se non nel senso igienico dell’eliminazione delle tossine.
Si può riportare il gusto italiano (e ellenico, iberico, francese) per lo sport chiacchierato, come per tutte le chiacchiere, di sport e di politica, sociologia, storia, eccetera, alla tradizione urbana? La città è il luogo dell’Ersatz.
Il ruolo delle regole. Lo sport è agonismo disciplinato. Si sbatte contro l’avversario e anche, costantemente, contro le regole. Regole imposta ma anche accettate, anzi volute.
Storia – Soprattutto è inutile.
È un mattone messo sopra. Sotto il quale non germogliano erba o radici ma vermi, tortuosi, informi.
Non ha senso, non può averne. Mettendo nel conto la protostoria e la preistoria qualcosa forse dice. Ma la storia ha cinquemila anni, forse ottomila: un punto, senza un’evoluzione. E senza un mutamento, un raffronto, come può significare qualcosa? Storie sì, tante. Allora: la storia è fatta di storie. Interessa poco i destini umani. Il Novecento, che si pensa abbia rivoluzionato il mondo, è in realtà un cumulo di macerie, cioè non è niente.
Il mistero incombe perché la storia difetta. Sul mutamento prevale la conservazione. E che cosa conserva? La paura e il disgusto.
È il tempo, si sa. Non maestro di verità quindi, ma esposizione, fiera, teatro. Serve, se serve, a fare sognare. Ma non ce n’è nemmeno materia, né il tempo, non essendoci passato. La storia è un infinitesimo della molto più grande fiera dell’universo.
Il tempo è statico, il tempo umano – mentale e della specie. A meno di non ricorrere ai miti, ai genesi, ai big-bang, siamo sempre gli stessi: Dante, Origene, Platone e Pitagora, il Libro dei Morti, il Libro dei Veda, e qualcosa di analogo che ci sarà in Cina.
Umanità – Viene dal semplice, o dal complesso? Certamente cresce nei numeri. Ma si semplifica sempre più: nelle tradizioni, nelle cosmogonie(rappresentazioni, filosofie), nei somatismi, nei linguaggi. È sempre più omogenea, ripetitiva.
Se l’uomo viene dal complesso, è impossibile che abbia parentele con Adamo. Se per Adamo s’intende la prima creatura, o l’unica, di Dio. È nato da se stesso, da forme semrpe più complesse di vita, minerali, vegetali, animali.
Al più Dio, nella sua solitudine, ne avrà benedetto (e utilizzato anche, perché no, in questo gigantesco teatro che è la vita, la terra) la trasformazione. La vita, la vita umana, riflessiva, potrebbe essere per Dio un immenso (infinito per Dio stesso, dal punto di vista probabilistico, perché indeterminato) campo di esercitazione. Non necessariamente benevolo. In se stesso anzi malevolo: agnostico, e quindi cinico.
Wittgenstein – “Osservazioni”, “note”, “ricerche”: le sue elaborate opere si presentano sempre diinutive. Ciò risponde all’obiettivo del filosofo di “aprire” le forme della conoscenza. Ma da dove nasce tanto desiderio di auto cancellazione – fortissimo: aliena i propri beni, cancella la famiglia, vive e lavora all’estero, pur non apprezzando Cambridge, e neppure l’inglese? Accompagnato peraltro a un egotismo forsennato, persino violento. È la natura francescana – anche san Francesco sfuggì alla sua accorata fiducia in Dio. È il dilemma della santità francescana.
Certe cose si mostrano, ma non possono essere dette.
Il problema della logica nasce dal fatto che, da ancillare, è stata promossa a reale. Ma il reale distrugge a ogni passo questa sua realtà.
Un’altra causa del problema è la riduzione delle cose al linguaggio: niente esiste se non è detto. Che è vero in alcune realtà (letteratura, storia) ma non sempre. Chi scrive lo sa: un tramonto, un arcobaleno, una fisionomia, si possono dire in mille modi, che sono tutti costitutivi della realtà e di una logica, ma di logiche diverse. Anzi, il linguaggio è (è bello) per questo: perché è libero e creativo, anche di realtà-irrealtà.
Le idee, certo, “non sono immacolate concezioni” (Nietzsche). Ma la loro logica è interna. È la dipendenza (origine, evoluzione, significati – delle parole) che è esterna.
Wittgenstein soprattutto opera, come altri viennesi eccellenti del suo tempo (Hofmannstahl, Kafka, Kraus), di prima e dopo la guerra, contro l’insignificanza del linguaggio che si nega, vuole porre un argine. Non del linguaggio in sé, che al contrario può avere una vis fortissima, ma del suo impoverimento, attraverso la menzogna, l’ipocrisia, la viltà, l’ideologia, la scienza. Un’impotenza storica del linguaggio.
zeulig@antiit.eu
domenica 17 ottobre 2010
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