Pasquale Tuscano, che ha firmato la riedizione di questo racconto a sfondo noir del 1966 dice Répaci “l’ultimo discendente del byronismo calabrese”. Che è molto efficace, il byronismo calabrese. Répaci avrebbe gradito, autore irruento e muscolare, benché tutto letteratura. Questo libro è poi specialmente byroniano, tutto pieno dell’autore. “Il caso Amari” è noto e viene riproposto come un pamphlet contro l’intellighentzia nella quale Répaci era vissuto e viveva. E in questa veste ne soffre, probabilmente: passati i vent’anni dalla morte dell’autore che Répaci stendhalianamente si dava perché i suoi libri fossero capiti e letti, ciò non è avvenuto, per questo e per gli altri suoi testi. Mentre, depurato dei malumori, “Il caso Amari” è un libro brillante e piacevole di autocoscienza: attraverso le 32 testimonianze, poi divenute 33 e infine, a sorpresa, 34, più una scia di lettere, sorta di appunti postumi in vita, Répaci si storicizza in Amari-Répaci.
Alla soglia dei settant’anni lo scrittore si ferma a guardarsi. Come personaggio e, di più, come persona. Senza cattiverie in realtà contro altri letterati. Ma inquieto e qualche volta cattivo con se stesso: si assolve dalla rigidità politiche, “carrista” nel 1956, stalinista per sempre, ma capisce di non capire le donne, attorno alle quali non sa che sfarfalleggiare. Il famoso catalogo delle debolezze dei migliori scrittori del secondo Novecento, qui a p. 75 (“Moravia un narratore lassativo….”), che lo stesso Tuscano mette in bocca a Répaci, è fatto dire al personaggio più screditato dei 34, l’autore, in questo caso una donna, che non ha talento e dice che tutti gli altri non ne hanno. L’invettiva è svolta come una bouffonnerie, lepida e ben calibrata.
È un autoritratto che Répaci mette in scena, pittore egli stesso non del tutto dilettante, in forma di diorama e quasi caleidoscopico, delineandosi con rapide pennellate, alcune lusinghiere, altre no. Anche se a fini assolutori: vede i suoi spigoli ma non li ammorbidisce. L’uomo al centro della vita letteraria, l’organizzatore culturale per eccellenza della Prima Repubblica, dal premio Viareggio al premio Firenze per l’ecologia, il fautore primo e più costante dell’insegnamento della Resistenza nelle scuole, si scopre in dissidio con tutto il suo mondo. E non si emenda: Amari-Répaci è uno il cui viso non si gira “per guardarsi alle spalle ma (è) piantato ben sul collo per guardare davanti a sé”. Uno che “non era comunista ma ragionava come un comunista da vent’anni. Il suo estremismo apparteneva a un’altra generazione”, quella del massimalismo socialista, nella prima guerra e subito dopo. Un sentimento politico molto meridionale, bisogna aggiungere, sempre al confine con l’utopia e quindi impolitico. Che Répaci condivide, per dire, con Concetto Marchesi, qui portato ad esempio d’intransigenza morale, altro stalinista a vita – senza però essere stato fascista, come il latinista.
Un libro atipico che è un piccolo colpo di genio. È anche un catalogo delle varie specie di letterati, e di lettori di libro, alcuni caratterizzati (la donna facile il cui orgasmo è non darla, l’editore, invadente e remoto, la donna che vorrebbe ma dice sempre no…). L’invenzione di 33 ottimi nomi, 34 col morto, è una performance unica.
Leonida Répaci, Il caso Amari, Rubbettino, pp.186, € 11
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