lunedì 22 novembre 2010

I germanesi che non sono di là, e non più di qua

Riletto dopo venticinque anni, dopo la caduta del Muro, è un libro allo specchio. I “germanesi” di questa inchiesta a suo tempo folgorante, scritta per un pubblico tedesco, di Carmine Abate e della sociologa Behrmann riflettono i modelli che dicono di combattere: per la figlia vogliono un futuro di avvocatessa, o di dottoressa. Questi germanesi sono infatti italiani. Il neologismo è popolare, registrato da Umberto Zanotti Bianco già nel 1928 in Calabria,  nel racconto “Tra la perduta gente” – nella raccolta dallo stesso titolo. Anche questi sono calabresi, arbëreshë, di Carfizzi, un piccolo paese del crotonese, che fu in prima fila nell’occupazione delle terre del 1919-1920 e del 1944-49, dopodiché è emigrato in massa – molti appunto in Germania. Carfizzi tuttora celebra il Primo Maggio con un radun
o dei sindacati nella località delle occupazioni, la Montagnella  ma per pochi, i più se ne sono andati. Sono detti germanesi al ritorno a Carfizzi, dove Abate e Behrmann li hanno incontrati e intervistati, sui motivi dell’emigrazione, sulla permanenza in Germania, sui motivi del ritorno.
La ricerca documenta, attraverso un’inchiesta sul campo (essenzialmente interviste) durata tre anni, dal 1979 a 1982, il morbo disintegratorio che è l’emigrazione per necessità: “Il comportamento tipico dei germanesi in entrambi gli ambiti di vita può essere soltanto l’adattamento forzato sia al modello di vita urbano-industriale che all’attuale modello di vita paesano”. Che applicandosi a persone in età è la constatazione di un fallimento. La copertina di questa edizione, “Un operaio calabrese a Roma”, un quadro di Guttuso al museo Puškin a Mosca, dice tutto.
Norbert Elias, nella presentazione al testo originale pubblicato nel 1986 (qui in postfazione), apprezza il metodo d’indagine, l’“autorappresentazione”. Tanto più significativa, aggiunge, in quanto dà la parola a non-soggetti, quali gli emigrati-immigrati finiscono per essere. Gli intervistati sono assertivi e convincono gli autori. Essendo il loro l’esito di una vita di stenti, di generazioni, di epoche, non c’è da scrutinare le testimonianze. Anche per il romance, la nostalgia della lotta di classe, che gli autori non nascondono. Ma l’esito è uno solo: il (piccolo) vantaggio personale, naturalmente in forma di sopravvivenza, e “a costo di sacrifici”. Senza utopie. La spia è il passaggio alla "incomprensione", urbana, mercantile, dello scambio, la cui funzione è di "pareggiare" le diverse disponibilità, mentre l'emigrato ne valuta in moneta i rispettivi pesi, con sussiego e perfino con ferocia, a scapito dell'amicizia, della parentela, della solidarietà.
Anche la prospettiva storica rischia di leggersi rovesciata. L’inquadramento storico è di una situazione di sfruttamento. Di sfruttamento povero, miserabile, che però non è feudale né signoriale, è solo sopravvivenza. E di un caso, il caso di Carfizzi, d’ipercapitalismo che è anch’esso l’opposto del feudalesimo (il feudatario ha degli obblighi che il capitalista non ha): un forestiero di scarsa fortuna, Pietro Fedele Rizzuto, che vi s’installa nel 1926, dieci anni dopo è podestà e padrone di tutte le terre del marchesato, oltre 1.500 ettari, e del palazzo dello stesso marchese, e venti anni dopo, o poco più, riesce a farsi espropriare dalla riforma agraria terreni boschivi incoltivabili, in grandi quantità, pagati. In una comunità strutturata, stabilizzata e quasi chiusa il punto di vista della lotta di classe è il meno produttivo alla lettura (e forse allo stesso miglioramento sociale): la costringe e la restringe, come qualsiasi altra lettura metodologica, questi universi si vogliono meglio narrati, che uniformati a "leggi", gabbie sociologiche, antropologiche.
Libro essenzialmente onesto. Tanto più per l’epoca, 1987, e l’ossidata cultura di riferimento, quella del Pci. Benché per questa, per il pregiudizio, non sfrutti a fondo il potenziale che schiera – non nel senso della verità, s’intende, e anche della presentazione-narrazione. La povertà non vi è miseria. Lo sfruttamento c’è, ma in dosi reali, rilevate, e non per principio. E le ragioni per partire sono molteplici: il bisogno non è solo economico. C’è chi non ama il mare, neppure in lontananza, e preferisce cieli grigi e orizzonti chiusi ma nel quieto regolato – pulito, rispettoso del vicino, e quindi ben governato. Lo stesso Abate, che lavora e vive nel Trentino, in un paesino, è un emigrato non di necessità, e anzi per scelta pervicace, malgrado scriva sempre e solo di Calabria.
Carmine Abate, Meike Behrmann, I germanesi, Rubbettino, pp. 237, € 5,90

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