Una raccolta in buona parte inedita, non in volume. Di uno dei tanti scrittori banditi dall’editoria repubblicana. Zappone si ricorda più come personaggio, un autore orale: molti che lo hanno conosciuto, a Roma o al suo paese, a Palmi, ne hanno conservato viva la memoria. Santino Salerno lo ricorda imponente sul bastone inventare la “storia vera” del pescespada suicida, o del cane che a nuoto attraversa lo Stretto per tornare dal padrone. Antonio Delfino, che con Zappone ha condiviso l’esperienza di giornalismo occasionale, su fatti di cronaca, ricordava di averne appreso che la verità va “fatta” – a Delfino è peraltro toccato il primo premio Zappone di giornalismo, creato a Palmi in onore dello scrittore dallo stesso Salerno, allora assessore alla Cultura (e rimasto poi senza seguito).
Ma Zappone è anche l’enigma del suicidio. Senza spiegazioni nel suo caso, a 65 anni dopo una vita attivissima. Nella quale le disgrazie erano state sintomo di vitalità. Soprattutto l’incidente nella vita militare durante la guerra, che gli costò anni di ospedale, nove operazioni, il rischio dell’amputazione di una gamba (caldeggiata dal professor Valdoni), e la quasi morte per setticemia. Un rebus che la lettura dei racconti complica e non semplifica. “Assurdo” è la parola più ricorrente nei suoi scritti, nota Salerno nell’acuta presentazione. Ed è una della sue chiavi narrative, la “scoperta” del lato assurdo delle cose. Ma un’altra è la memoria compiaciuta, netta, consolatoria: dei giochi di ragazzi, scanditi dalle stagioni (una superba antologia), dei deserti che il terremoto provoca, di esseri viventi e anche di cose inanimate, della città nel suo formarsi, della salsiccia, della vendemmia, della campagna fradicia di fine autunno, delle violette di campo, degli usi propiziatori (il fuoco dell’ultimo sabato di luglio), e sempre la presenza amica del padre.
Domenico Zappone, Il cavallo Ungaretti, Rubbettino, pp.124, € 5,90
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