astolfo
Antipolitica - Ha fatto il suo tempo, tutto lo indica, dopo vent’anni inconcludenti. Se era il segno di un’epoca, del consumismo, della disattenzione, del marketing, ha fallito – o allora l’epoca non è tale (ma lo è, il consumismo è ben vivo e durevole, è l’antipolitica italiana che non è niente). La vecchia politica si era anchilosata al morso stretto di giganteschi apparati di partito, nazionali e locali (i federali…). I segretari di partito contavano più dei capi di governo, e i segretari di federazione ben più dei parlamentari e dei ministri espressi localmente. L’ha sostituita la politica dei talk show. Un teatrino sorridente, ghignante, beato di sé, sempre dal lato giusto della faccia, ma ripetitivo, inconcludente, e anche insulso, di attori di terz’ordine. Agli ordini di piccoli mattatori di cui il prototipo e il principe è Santoro, che non è il mignolo di un Gassmann o di un Sordi. Tutti peraltro fatti con lo stampino, Fazio, Floris, Santoro, Lerner, o le vestali fuori orario Annunziata, Dandini, Berlinguer. Mentre Vespa è relegato verso la mezzanotte, e gli altri all’alba. Per non dire dei loro comici, stupefacenti: tutti da centralismo democratico, ma di tipo brezneviano, se la Rai li mandasse al mercato andrebbero a ruba, come il berretto verde con la stella rossa del presidente Mao. Il loro pubblico è lo stesso, che ogni sera trasmigra da un condottiero all’altro: quattro-cinque milioni di persone, quanto bastano al giochino auditel, ma sono il 10 per cento degli elettori e non spostano, cioè sono sempre gli stessi – buona parte dei quali sono peraltro di destra, stanno lì per “rosicare” e indignarsi.
I segni di stanchezza, se non di un rovesciamento, sono numerosi. La legge elettorale toscana, assunta da Berlusconi per il voto politico nazionale, ha tentato il rovesciamento di forza della tendenza, rimettendo al centro i partiti. Che però non sanno essere altro che centralismo democratico. Ora si ripropone la preferenza, per salvare qualcosa dell’uninominale, della scelta diretta del rappresentante parlamentare col voto. Ma più potrebbe pesare la rivolta generazionale. Mentre si “vede” sempre più il bluff dell’informazione, in questi anni al di sotto di ogni minima deontologia: si vede nel calo persistente delle vendite prima che della credibilità.
Capitalismo – Viene identificato con il mercato, ma c’è confusione: più spesso va contro il mercato.
Il problema delle sue origini è tipico dell’Ottocento, e riguarda la “giustificazione” della borghesia ormai dominante in Europa - con la riforma napoleonica die codici, la monarchia di luglio, le riforme costituzionali, le cancellazioni dei rotten boroughs – e del liberalismo politico. In questo senso evolve nei paesi latini (v. in Francia Groethuysen), con qualche eco in Germania, in senso anticattolico e pro-Riforma, o pro-ebraismo, nei quali le massonerie trovavano libero spazio sotto forma di libero pensiero. Ma l’accumulazione non è un fatto protestante, o ebraico. Anhe la lbertà politica, malgrado un secolo e mezzo di reazione al modernismo, e quindi di forte tradizionalismo, non è meno cattolica.
La polemica anticattolica nasce in ambiente libero pensatore soprattutto in senso antigesuitico, contro cioè le posizioni di potere che i gesuiti avevano prima della rivoluzione e tentarono di ricreare dopo, attraverso la formazione dei giovani e la guida spirituali dei principi, e delle principesse. È una polemica politica, che nulla ha a che fare con l’accumulazione.
È (però) vero che il tradizionalismo, quando non l’oscurantismo, della Chiesa nell’Ottocento la mettono fuori della modernità, e cioè del capitalismo. Recupererà a fine secolo con la mutualità, col decentramento amministrativo, e in campo creditizio e assisten ziale. La mutualità sociale sarà dei socialiusti, e i cattolici la copoano, non hnno difficoltà a farla propria. Quella bacnaria invece, e finanziaria, sarà un’innovazione cattolca, lungo l’asse Olanda-Belgio,Germania meridionale-Austria-Italia del Nord-Est.
È stato, è, una forma di rottura della tradizione. Che è l’equilibrio sociale e psicologico, di valori progressivamente messi a punto, o senso della misura. Ma a fini prevalentemente di profitto, e quindi conservatore. Anche quando patrocina e impone il cambiamento. L’età del capitalismo è l’età della solitudine, sotto forma di individualismo. Della nevrosi cioè e dell’alienazione. Della violenza anche senza freni, contro se stessi e ogni altro, nel mondo e in famiglia, anche in forme non dissennate, oppure quiete.
Il cattolicesimo, in un certo senso, l’ha interpretato meglio, se non domato, perché riesce a far convivere tradizione e capitalismo, perfino tradizione e mercato.
Si accomoda a tutto, al lusso e alla prodigalità come all’avarizia. Nessuna novità lo scoraggia. Solo il rifiuto della novità. Cioè, non il rifiuto, che è anch’esso un progetto (che affare la tradizione), ma l’abbandono, l’incuria. Si dice conservatore e lo è, nel senso che vuole conservata la proprietà, ma ha bisogno di novità, di cambiare costantemente. Vuole il laissez faire ma non sopporta il laissez aller: vuole iniziativa – in politica cioè leadership. È però, al suo interno, eversivo – come la mafia: costantemente morto e rinascente.
Democrazia Cristiana - È, è stata, cattolica ma non clericale. Nella sanità, nella scuola non ha mai protetto le clini che e le scuole religiose, salvo che nel primo centro-sinistra di Moro. Gli ordini religiosi e i vescovi rientrano nella sanità e nella scuola, e conquistano il nuovo importantissimo Terzo settore, della socialità, con D’Alema e Berlsuconi. È stata, è, il partito del democraticismo radicale. Anzi totale, poiché sommerge ogni altro soggetto o istanza. Dapprima con l’edilizia abitativa: il sacco di Roma coi nuovi quartieri negli anni 1950, la deturpazione di Firenze con le sopraelevazioni consentite negli anni 1950-1960, e con l’abusivismo successivamente dilagante al Sud, con le migliorate condizioni di reddito, non governato e anzi stimolato, in Campania, in Calabria, a Palermo, Agrigento, Messina. Poi con il “posto”: il diritto a una retribuzione anche in assenza di prestazione o competenze specifiche, un “salario dì ingresso” che poi diventa a vita. Ed è tuttora la norma, il posto senza lavorare, malgrado i tornelli e i controlli dei carabinieri, negli uffici giudiziari e delle stesse forze dell’ordine (allo sportello non c’è mai nessuno), e in quelli locali (regionali, provinciali, comunali: chiunque deve fare una pratica lo sa). Prodi ne ha fatto il capolavoro nel 1996 con i lavoratori socialmente utili, che hanno gravato le casse dei Comuni di frotte di senza mestiere nullafacenti, per di più insoddisfatti del “misero” trattamento.
Potere – Se ne può indebolire l’autorità, dice Tocqueville, in due modi: attaccandolo nel suo stesso principio (l’anarchia) o frazionandone l’esercizio. Ma c’è un terzo modo: misconoscerlo nei fatti, disobbedendo sotto la parvenza della legalità. È Mani Pulite.
Vienna – È la Terra di Mezzo della fantasy. E la dilettazione della nostalgia. La Vienna degli Asburgo non era quella che vuole la vulgata, da Magris a Arbasino e ai leghisti, dagli ebrei esuli a Schorske e Toulmin. Chi poteva scappava. Chi restava si sentiva in trappola: non c’era buongoverno, e non c’era lealtà. Il celebrato spirito viennese non è Johann Strauss
e il concerto di Capodanno, ma uno sofisticato, cosmopolita, multinazionale.
Specie per la minoranza ebraica, che vi costituì un focolare d’eccellenza,
nelle arti, la musica, nel pensiero, la poesia anche, il più vivace e
memorabile. Se non che l’antisemitismo era altrettanto forte, e durevole - ancora dopo la guerra, Ingeborg Bachmann può dirlo sentito e partecipato ("Tre sentieri per il lago"). Grande centro musicale, gratificato dell’orecchio perfetto, che però esercitava ed esercita un incongruo colonialismo in Europa. C’erano certo delle idee, ma ce n’erano dappertutto. Vienna è il luogo degli “Ultimi giorni dell’umanità” di Karl Kraus, “stazione meteorologica della fine del mondo”, in questo enorme (abnorme), come l’autore degli “Ultimi giorni” stessi. E il mondo non va peggio senza Vienna.
Si può dirla anche in breve. Wittgenstein che esce di sala, a un concerto, per non ascoltare la “Salome” di Strauss. Le riserve di Popper su tutto ciò che è viennese. La ferocia di Karl Kraus, che peraltro vi era isolato. La fuga di Roth. La capitale della nostalgia, della grande Austria Felix, si reggeva per un terzo della sue finanze sul Lombardo-Veneto, che aveva avuto cura di annettersi nel 1815 al concerto delle potenze, un territorio che era forse un ventesimo di tutto il glorioso impero, e una popolazione che non era più di un settimo-un sesto del totale: davvero provvida?
La Grande Vienna è una brillantissima operazione editoriale. In sé è non più di quanto ne dice Ingeborg Bachmann alla p. 1 de “Il caso Franza”: “Si può dimostrare che Vienna c’è, anche
se non si riesce a coglierla con una sola parola perché Vienna è qui sulla
carta e la città di Vienna è continuamente altrove e cioè a 48° 14’’ e 54’’ latitudine nord e a 16°
21’’ e 42’’ longitudine est”. Vienna, Magris potrebbe dire come di Trieste,
“multiculturale, crocevia e crogiolo di civiltà diverse, è insieme una realtà e
un mito ingannevole”. Ma c’è di più.
“Vienna” è la ricostituzione (l’invenzione della tradizione) di un’equidistanza tra Est e Ovest al tempo della “guerra civile” del Novecento, dal 1914 al 1989. Un desiderio di tirarsene fuori, fuori dallo scontro, fuori dalla miseria morale, fuori anche dalla violenza. Quanti coltelli (odi, revanscismi, vendette) nella Mitteleuropa vera. Come Claudio Magris testimonia a Praga, per esempio, in “Praga al quadrato” (ora nella raccolta “Alfabeti”), che la Mitteleuropa dice “grandezza vissuta nella fine e anzi quale fine”. Ma a Vienna, si direbbe, ben più che a Praga, città della Resistenza, molteplice: un Anschluss che fu un tripudio, con un referendum plebiscitario, e una moltitudine poi di willing executioners, carnefici volenterosi, di ebrei e assimilati, dopo l’antifascismo di Dollfuss, con i lager per tutti, chiunque avesse una idea politica.
L’idea però piace, l’ipostasi del Centro, dell’aureo medio, un piccolo paradiso della zona grigia. Anche nei valori vantati: sobrietà, Witz, piccoli amori, spassionati. Che non sono quelli della Vienna storica, arrogante, classista (razzista), anche intollerante. Di cui Joseph Roth diceva: “È la capitale delle illimitate impossibilità” – del Paese, è vero, “delle possibilità illimitate”. E non sono quelli degli scrittori, Ransmayr, Bernhard, soprattutto delle scrittrici, figlie di nazisti professi, Ingeborg Bachmann, le due Nobel Jelinek e Helga Mueller (emigrata questa in Germania, ma ex Cacania, provenendo dal Banato, in Romania al confine con l'Ungheria).
Il fascino è forte. Anche a Parigi, alla conferenza di pace dopo la seconda guerra: l’Austria hitleriana entusiasta fu onorata quale vittima del suo piccolo grande figlio. C’è una Radetzskystrasse in ogni città e paese della Mitteleuropa, che i trentini e i giuliani ancora rimpiangono, molti lombardi e qualche veneto. Ma per un motivo: “L’interesse per la cultura asburgica, che assume talora anche toni stucchevoli e ripetitivi, è dovuto anzitutto all’intensità con cui essa ha vissuto una caduta che è ancora la nostra”, spiega in sintesi Magris, in “Itaca e oltre”: “L’immagine che essa ha dato al mondo è anche il nostro ritratto; un ritratto elusivo, lievemente inautentico e perciò fedele all’inautenticità della quale siamo intessuti”. Un ritratto forse vero ma del falso cioè, e falsamente imposto nel nome inappellabile della crisi, mentre era molto locale: nazionalista, e più delle piccole patrie che imperiale, antisemita, provinciale. “La civiltà asburgica è di moda perché ha posto in evidenza l’irrealtà che ha investito il mondo”, ancora Magris. No, l’irrealtà di cui essa ha investito il mondo:l’irrealtà è solo occidentale, europea, centro-europea, frutto di quattro generazioni suicide, nella due guerre che ha dichiarato e nella guerra fredda lunga mezzo secolo, senza perdite ma ugualmente devastante.
L’esito forse non di malvagità ma d’incapacità, di una limitazione. Del pesante gusto fine secolo (in realtà secondo Ottocento) degli scaloni, del mobilio pesante e delle polche, che può essere bonario e domestico ma non è raffinato. Di una civiltà danubiana che in realtà è un mondo alpestre, allegramente contadino ma non liberamente fluviale – si confrontino i walzer e le marce di Johann Strauss con la leggerezza di Beethoven, che vi indulgeva quasi quotidianamente, come passatempo: l’acqua del Reno è un’altra, o le sue rive diversamente popolate. Un mondo, al meglio, pacioso e provinciale, di storie patrie, cioè locali, di notabilato, e di erudizione quale addizione alla distinzione, con l’ambizione non innocua al quieto vivere, ordinato, ripetitivo.
Heimito von Doderer fa stato, riferisce Magris, di una tradizione antidealistica del pensiero mitteleuropeo. Ma pur sempre di una tradizione, che invece non vi è né univoca né consolidata. E comunque la tradizione di un mondo funzionariale, è questo che è tipicamente asburgico, per dovere e propensione, che diventa più uggioso e sciocco quanto più si fa filosofia e escatologia. Mentre volentieri, nel culto della Mitteleuropa, viene definita “asburgica ed ebraica”, e allora tradizione non è, molti ebrei avrebbero difficoltà a dirla propria, se non per riflesso tribale. La “tradizione absurgica”, se ce n’è una, è di Joseph Roth e Schnitzler, puro Novecento, la nostalgia , la compassione. Musil è l’opposto, algido deposito di sensi di colpa. Più in sintonia con la verità – a parte il fatto che era uno isolato, isolatissimo. L’Austria era andata alla guerra con allegria, e l’ha combattuta con decisione – non si può imputare Caporetto solo ai generali italiani – e con capacità, malgrado l’incredibile voltafaccia italiano. E quando l’ha persa non ha perso del tutto, non prima della seconda grande guerra con relativa sconfitta, ogni idea di grandezza: non solo il Tirolo tutto, anche il Banato e i Sudeti la Repubblica Austriaca prometteva nel 1918 di portare alla madrepatria tedesca.
astolfo@antiit.eu
venerdì 19 novembre 2010
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