La crisi pilotata - “non apro la crisi al buio” di Berlusconi - significa un reincarico a Berlusconi. Il presidente del consiglio non ha il potere di dimettere i ministri. Né Berlusconi si aspetta che i finiani si dimettano: lo vorrebbe la chiarezza ma non la ragione politica, seppure quella contorna di Fini. Ma non ha abbandonato la speranza di raccogliere la diecina di voti che gli manca alla Camera tra gli stessi finiani e altrove. Facendosi forte degli svantaggi di una legislatura dimezzata (previdenziali e d’investimento elettorale). E della possibilità di offrire posti al governo, tra i sottosegretariati e anche ai ministeri, invece dei finiani (quattro ministri e diciotto sottosegretari: il 50 per cento dei finiani sono al potere).
Un iter, va rilevato per inciso, che conferma la superiorità morale, oltre che politica, della Prima Repubblica su questa Seconda (proclamata dalle terze file dei vecchi partiti, da Scalfaro a Occhetto, con la forza d’attacco di magistrati della levatura di Di Pietro). Quando De Mita, segretario della Democrazia Cristiana, si oppose alla legalizzazione delle tv di Berlusconi fece dimettere i cinque ministri della sua corrente dal governo e non abbatté il governo. Che, presieduto da Andreotti, cooptò altri titolari dei dicasteri e andò avanti.
La crisi è certa. I finiani sono già al lavoro da lunedì in tutti i centri piccoli e grandi, specie al Sud, per creare sezioni e associazioni e preparare candidature. Ma il governo tremontiano di stabilità, dei conti pubblici e delle elezioni, cui la presidenza della Repubblica mostrava di volersi aggrappare, è ora una subordinata. La prima mano toccherà a Berlusconi. Che appare sempre indeciso ai suoi sull’opportunità di tornare al voto oppure di assicurare un governo. La prima ipotesi gli ritorna insistente dopo che a Perugia Fini ha mostrato una decisa caratura “radicale” alla Pannella, destinata quindi a lasciarlo senza voti. Ma è stato convinto a immolarsi sul piano della governabilità. Scaricando il suo maniacale ego sulle cose da fare: gli interventi per gli alluvionati, per l’università e la ricerca scientifica, il patrimonio culturale, la stabilità del debito, il controllo e il contrasto dell’immigrazione illegale. Nonché sulla riforma del costo del lavoro, che potrebbe essere un grimaldello presso molti dei fautori del Terzo polo.
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