È il noir dello shopping, “cerimonia collettiva di affermazione”. In luoghi suburbani dove “la più alta esigenza spirituale” è una stazione di servizio “su una strada a scorrimento veloce” e un garage di dieci piani, che tuttavia esprimono “un senso di comunità più profondo di quello di una chiesa di qualsivoglia confessione”. La cifra ballardiana dell’universo concentrazionario, e anzi carcerario, seppure qui di un carcere modello, confluisce nella follia quale ricetta, contro la noia, l’inazione, l’emarginazione.
La modernità si può dire in quattro battute. Il consumismo è equalizzatore e socializzante: è un’“ideologia di redenzione…, quando funziona estetizza la violenza”. “La democrazia è soltanto un servizio pubblico, come la luce e il gas”. “È il consumismo a darci la misura dei nostri valori. Il consumismo è sincero e ci insegna che ogni merce ha un codice a barre”. “Il grande sogno dell’Illuminismo, cioè che la ragione e l’egoismo razionale un giorno avrebbero trionfato, ha portato direttamente al consumismo dei nostri giorni”. Le cose e noi, i due mondi non sono separati.
Scandito così, è il digest del Millennio, benché d'impostazione campanelliana - certo accidentale: anche le cose ci comandano. Non più di dieci righe di questo romanzo di trecento pagine condensano la “civiltà” europea oggi, dopo essere state a lungo “americane”. Si può dire anche il romanzo del berlusconismo, ammesso che ce ne sia uno, del vuoto a perdere. Ma di più del dipietrismo, di chi protesta ma non sa per che. Della politica assente perché l’impolitica è improduttiva, al più un esercizio di snobistico rifiuto – lo snobismo dei sanculottes.
Ma l’Italia sarebbe un adattamento minore, al solito confuso. Questo “Regno a venire” si potrebbe invece studiare a Scienze Politiche, è un manuale attendibile di Storia delle idee o di Scienza della politica, oltre che una storia a sorpresa di violenze. È il manifesto reale dell’antipolitica, di una umanità sazia e indifferente, paranoica perciò, a partire dalla famiglia: i coniugi, i figli, i padri. Inquietante però: tanto modernismo invera la filosofia tradizionalista, di Guénon che lo disse una Grande Congiura, del Gabriel Marcel di “Essere e avere”. Gli oggetti si animano, le persone diventano gli oggetti che adorano, come in qualsiasi transfert religioso, ma quanto ristretto. Ballard ci mette del suo, che alla fine, del romanzo e della vita, lega la libertà al fascismo. Il “ritorno alla normalità” alla fine del romanzo è la tv che dà consigli per la casa e organizza gruppi di lettura: “Quando la gente comincia a infervorarsi parlando di romanzi ogni speranza di libertà è morta”, ghigna lo scrittore: “L’unica vera possibilità di una repubblica fascista era svanita insieme ai completi da uomo e le moquette e i tappeti a metà prezzo”.
J.C.Ballard, Regno a venire, Feltrinelli, pp. 293, € 9,50
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