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lunedì 29 novembre 2010

Wikileaks vuole dire: non si tocca Israele

Purtroppo è chiaro chi ha dato a Wikileaks i documenti, e per quale motivo: milioni di carte per appuntare l’attenzione sul Medio Oriente. Sbugiardando gli arabi come doppiogiochisti del mondo mussulmano. Riducendo il Pakistan alla corruzione. E l’Afghanistan, la cui stabilizzazione con i capi tribù Karzai è il punto nevralgico della presidenza Obama. Annichilendo i diplomatici che hanno qualche autonomia di giudizio nella questione israeliana. È questa l’idea che il ministero italiano degli Esteri si è fatto delle indiscrezioni travasate su Wikileaks. In accordo, si dice, con valutazioni interne al dipartimento di Stato Usa. In linea col costante sabotaggio che Wikileaks fa da una diecina di mesi dei piani americani di stabilizzazione del Medio Oriente. Che solo in superficie si può ricondurre, come pretende, a un'azione antimperialista e legalitaria. Luttwak lo spiega peraltro con chiarezza, nell’intervista odierna al “Corriere della sera”, con l’accortezza di dire nemici degli americani quei governi che Israele giudica non amichevoli.
Fuori dallo scacchiere mediorientale sono state fornite a Wikileaks solo carte ininteressanti: su Berlusconi, Putin, Sarkozy, Zapatero, la Cina, la Corea del Nord, l’Iran e lo stesso Ahmadinejad. Roba di poco conto, giusto per mettere in difficoltà chi quei rapporti ha redatto, o ha alimentato, se sono funzionari giudicati filoarabi, come l’ex incaricata d’affari Usa a Roma, Elizabeth Dibble, o il consigliere diplomatico di Sarkozy, Lévitte. Il fuoco è contro l’amministrazione americana, Hillary Clinton in primo luogo, e lo stesso Obama. Da parte di un fornitore che sicuramente ha la chiave di tutte le comunicazioni internet del dipartimento di Stato. Ed ha l’organizzazione per fare una cernita nella messe di comunicazioni quotidiane e orientare le indiscrezioni: il travaso a Wikileaks non è stato fatto alla rinfusa. Che il raid informatico sia l’opera di un ragazzo americano soldato in Iraq non convince, a fronte dei controlli di sicurezza messi in opera nelle comunicazioni Usa dopo l’11 settembre.
Non si tratta di un'intrusione da hacker, si dice, non inverosimilmente, ma di un piano di lenta e lunga elaborazione. I documenti diffusi, diversi per data, provenienza e tematiche, dicono che l’hackeraggio non è stato occasionale, come è proprio della vera e propria pirateria, ma costante. Fosse stato occasionale, avremmo avuto i documenti degli ultimi sei mesi, poniamo, o dell’ultimo anno, o della regione Medio Oriente, o della regione Europa ma in un dato operiodo. Invece abbiamo milioni di documenti di varie epoche, provenienze e tematiche, apparentemente alla rinfusaa, ma, appunto, solo apparentemente, poiché c’è stata una cernita. Tutti i sistemi informatici hanno inoltre degli apparati in grado di reagire a un’incursione. Per il Dipartimento di Stato invece l’incursione è stata costante e prolungata nel tempo: è quindi un affare di spionaggio.
L'apparato americano preso di mira è molto organizzato e ben protetto: il Dipartimento di Stato è ritenuto l'unico vero laboratorio superstite, con quello di Pechino, di una vera e propria politica estera: programmata, bilanciata, accorta. L'unica area off-limits alle strategie Usa sarebbe l'ex Palestina. Su cui Israele esercita una gelosa e insindacabile giurisdizione. Una privativa che pesa a Washington, se si pensa quanto una soluzione del conflitto fra Israele e i palestinesi è centrale per una serie di piani e bisogni Usa di stabilizzazione: petroliferi, antisovversione, di riequilibrio delle potenze in Asia.
Come già per il presidente Clinton, anche per Obama insomma scatterebbe un avviso sulla questione arabo-palestinese. Fu più grave per Clinton, che era al secondo mandato e avrebbe potuto effettivamente imporre una pace prima della colonizzazione. L’allora presidente fu mandato sotto processo. Più blando è l’avvertimento per Obama, che è al primo mandato e può “ravvedersi”. Obama e Hillary Clinton erano nel mirino da quando avevano osato insistere per una soluzione a Gerusalemme. Un primo segnale Obama l’ha già avuto col passaggio in blocco dei media con Sarah Palin, i circoli del tè e altre manifestazioni insulse dell’opinione pubblica americana.

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