“Vita inumana si compie\ ai limiti rigorosi della vita”. Autore per i “felici pochi”, Calogero è poeta postumo, edito e apprezzato dopo la morte, forse suicida, a fine marzo 1961, poco più che cinquantenne, solo nella sua casa di Melicuccà, un paese di campagna ai piedi dell’Aspromonte. Questa antologia, l’unica opera di Calogero ancora in circolazione, che Luigi Tassoni inquadra nell’ermetismo degli anni 1930, benché la formazione di Calogero fosse molto ungarettiana, è una sorta di eco dalla caverna, a volta flebile, a volte urlata, dalla sua solitudine “fisica”. Sofferta a ogni istante, benché da uomo comune, figlio amato, fratello, compaesano, studente, medico praticante. Ne è specchio la scrittura densa, come lo sopraffacesse: il poeta vive in un deserto brulicante, che non riesce ad animare. Répaci dice la sua una poesia “da muro a muro” (“spremuta, intellettualizzata, terribile soliloquio, da muro a juro, dal muro della vita al muro della tomba”). Suoi interlocutori sono il cielo, il mare, il giorno, la notte, e l’amata che parla muta: un “paesaggio duro”, nel quale “la via si stende inerte”. O, "in luogo di un luogo amato,\ la faccia lungimirante\ cortese di Dio".
È un poeta "nato", con uso esperto (sapienziale) della parola, fino quasi al calembour, il gioco di parole intrepido, seppure sempre trasognato, di echi. Con la grazia cioè di una sorta di automatismo, di sonorità più che di associazioni di idee. Lo scrittore “verticale” che inebriò Ungaretti quando ne venne a conoscenza, credendo di vedrci una sua resurrezione. Ma resta sulla pagina un poeta che procede per “astrazioni del sentimento” (Tassoni). Con la nostalgia forte di una perdita, che è un’impossibilità.
“Tutto era calmo, solare\ come un giorno aperto” è memoria inutile, il segno di un fallimento. Che viene dall’esclusione. Montale debutta a trent’anni, ma incontra subito Gobetti, Cecchi e Contini, Pasolini a venti Contini, Calogero a 26 cerca Betocchi ma ne è respinto, per nessun’altra ragione che la differenza, e il rifiuto si ripeterà, costante, per venti anni – il primo riconoscimento arriverà da Sinisgalli nel 1955-56. Malinconico sempre: “Non vale gioia a così pura pena accesa\ o volontà di essere o di morire”. Ma industrioso più che retrattile, anzi ansioso di commercio umano. Fino a un certo punto. Gli ultimi anni, svaporato anche il fidanzamento, cederà all’isolamento, anche dai familiari. Dopo averlo detto: “Sfiorò la gloria la tua speranza\ e la tua ultima volontà di vivere”. Già al tempo del rimpianto, benché inedito, di quando "il cado emistichio, poi la parola\ venivano come angeli\, nella valle,\ dorata".
Calogero resta il poeta dell’assenza, che il verso era inteso a riempire. Esistenziale (caratteriale) ma anche fattuale, geografica: non si poteva – non si può – corrispondere col mondo da Melicuccà, perché si è prigionieri del proprio mondo. Da Casarsa sì, da Melicuccà no. Dove peraltro il rifiuto costringe il poeta a rifugiarsi vieppiù, esauriti man mano i tanti tentativi di essere come gli altri, le letture, gli studi, la corrispondenza, gli studi e poi l’esercizio della medicina (nel senese, il posto probabilmente più chiuso d’Italia - a Campiglia in val d’Orcia, allora deserta e povera e oggi ricchissima e sempre inavvicinabile, da cui dopo pochi mesi nel 1955 fu licenziato da medico condotto), le lettere, gli invii, le visite, le sempre più faticose ripartenze. Il mancato colloquio disintegra ogni resistenza, l’uomo ha bisogno di parlare, anche lo scrittore.
Lorenzo Calogero, Poesie, Rubbettino, pp. 182, € 5,90
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