Nella campagna vibonese una famiglia stermina un’altra. Dopo esserne stata una vita la vittima, di soprusi, prevaricazioni, percosse.
Le denunce regolari di questi soprusi non avevano mai avuto seguito. “Perché non era mai stato fatto il nome dei responsabili”, fanno scrivere i carabinieri e la Procura della Repubblica di Vibo Valentia. No, i responsabili nei paesi li conoscono tutti, quindi anche i giudici e i carabinieri. La colpa dei denuncianti è che non avevano mai “portato le prove” contro gli autori dei soprusi: testimonianze di terzi, per esempio, o la flagranza di reato.
“Siamo all’epoca barbarica”, dice il Procuratore Capo di Vibo Valentia Spagnuolo. Sì, ma chi sono i barbari? Una denuncia penale in Calabria avvia al più un processo “privato”: il denunciante deve provare da solo, in tribunale, i reati che lamenta. Cioè coinvolgere altre persone nei soprusi, le prevaricazioni e le percosse quali testimoni, per condanne che comunque saranno lievissime. Ancora più difficile è tenere i colpevoli con l’ascia in mano o con la tanica di benzina, in attesa che arrivino i carabinieri per redigere il verbale.
L’orrore del Procuratore Spagnuolo nasce da una storia personale, probabilmente - il nome dice che dev’essere nato e cresciuto nei palazzi di Giustizia (figlio di giudice, nipote di giudice?). E dalla Legge, certo. La Legge dice questo, perlomeno in Calabria: chi vuole accusare qualcuno porti le prove. In Calabria il garantismo è ferreo. E anche socialmente impegnato: per i criminali accertati è più ferreo che per gli altri, magari incensurati.
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