Poteva essere un capolavoro involontario. Le prime trenta-quaranta pagine, col generale, uomo di potere, che dialoga con la moglie morta e con i figli dall’alto dell’aereo che lo porta verso la morte, mentre gioca d’astuzia col suo ministro e con gli altri generali, sono un racconto fortissimo. Poi, contro i suoi stessi propositi, il figlio sociologo passa da questo mondo, che conosce perché ci è cresciuto, alle sofisticherie palermitane, allora, 1982, immutate come oggi, e non fa più di un lunghissimo articolo genere “Panorama” o “Espresso”.
Conoscere per sapere, cioè riconoscere, nell’ambito dello stesso linguaggio, degli stessi comportamenti, è del tutto diverso dal conoscere per apprendere. Soprattutto quando, per apprendere, si assume l’abito etnologico. Che è sempre sbagliato, non solo quando è “sbagliato” (razzista), ma anche quando è “giusto” (aperto). Si sbanda in entrambi i casi, fuorviati dal fatto stesso di considerare gli altri diversi. La diversità, certo, è il sale della vita. Ma anche le forme della delinquenza sono diverse: dal furto con destrezza al pizzo odiosamente imposto. Mentre poi siamo tutti uguali, e anche nella Sicilia cattiva ci sono aspetti interessanti, o in quella buona ignominie terrificanti: la violenza è in agguato non perché gli altri sono diversi ma perché sono uguali.
Resta, oltre al racconto iniziale, una sensazione d’inermità. Per la cortina di pettegolezzi, dispetti, indifferenza che i carabinieri creano attorno a chi cerca giustizia, sia pure egli un carabiniere, anzi un generale dei carabinieri (il risentimento distingue anche le memorie del generale Bozzo, collaboratore del generale Dalla Chiesa). E per l’indifferenza e anzi l’ostilità con cui le vittime della mafia vengono trattate dalle forze dell’ordine e dalla magistratura.
Nando Dalla Chiesa, Delitto imperfetto
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