giovedì 30 dicembre 2010

La democrazia contro il suffragio universale

La democrazia è il suffragio universale. Il suffragio universale non decide niente. La democrazia non è niente. Canfora è qui sillogistico, e il sillogismo è inoppugnabile. Ma è come fare la scoperta dell’Africa, la quale era stata scoperta prima di Gesù Cristo. Ed è falso, ma di questo Canfora non si occupa – il parlamentarismo in effetti è noioso, tutte quelle procedure, i commi, i regolamenti. Il definitivo assunto lo sopraffà che la Colpa è della democrazia: “Si può essere tranquilli nell’affermare che proprio il «terzo soggetto» ha il non piccolo «merito» di avere innescato l’inferno del Novecento”. Il terzo soggetto “sarebbero le cosiddette «democrazie liberali»”, alle quali si devono quindi le guerre, l’Olocausto, l’atomica, le purghe e la pulizia etnica. Ogni tanto fa bene leggere i libri a distanza, ogni libro contiene una dose segreta di divertimento, che subito magari non si percepisce.
“La Democrazia. Storia di un’ideologia” è un libro d’autore. Canfora è un filologo tourné narratore. Che questa dote da qualche tempo vuole applicare alla politica. Come il suo alter ego Arthur Rosenberg degli anni della repubblica di Weimar, da lui celebrato nel “Comunista senza partito”, antichista, storico. Non fosse che la politica non si fa raccontare: troppo immediata, troppo sputtanata (sotto gli occhi di tutti), troppo complicata, se non dallo storico con pinze forti e nervi solidi. Molto è incontestabile: la democrazia della razza bianca, per esempio. Ma che altro, oltre la democrazia? Canfora non lo dice. Sì, la lotta di classe, ma lui la rievoca per riderne: i furiosi assalti dei parigini ai Parlamenti da loro appena eletti, o le forze armate in rivolta nel novembre 1918 in Germania che invocano il rispetto dei regolamenti. Molto invece è contestabile. Gorbačëv compare di striscio. Stalin ricorre molto, ma senza lo stalinismo. Con lunghe tediose tirate di “marxismo volgare”. Che si accettano perché sono state rimproverate (“linguaggio da Germania Democratica”) dai suoi referee tedeschi, ma che avrebbero fatto inorridire Marx - e lo stesso Canfora in altra esegetica, quando spiega “cos’ha voluto dire Tucidide”.
Eccepire non si può: scrittore irriverente, benché filologo acuto, Canfora ama il ruolo di chi dice il re nudo. Qui lo esercita specialmente nei confronti della famosa “democrazia ateniese”. Il prologo è del resto chiaro: è l’apologo di Garibaldi, buon dittatore “sprovvisto di senso politico”, Napoleone, Alessandro Magno, che Rousseau chiude con l’apologia del “potere dispotico”, e a varie riprese di Churchill, altro uomo di polso. Più che una rappresentazione, o una storia, Canfora fa una critica della democrazia, parola e concetto che nascono in greco come “sistema liberticida”, spiega, la forza violenta del popolo – demos è popolo, “kràtos indica appunto la forza nel suo violento esplicarsi”.
Canfora è un eretico che non condanna lo stalinismo. Anzi, da storico, benché improvvisato, lo apprezza e lo vuole rivalutato. Marginalizzato (a un breve scritto sull’istruzione) nel rifacimento della storia greca cui chiamava Arnaldo Momigliano, curata in sette grossi tomi per Einaudi da Salvatore Settis, Canfora la sta riscrivendo da alcuni anni da corsaro con devastanti incursioni sul concetto greco, appunto, di democrazia, connesso alla schiavitù, e alla violenza delle maggioranze. Nonché all’invenzione dei “barbari”. Da cui le equazioni: “Grecia = Europa = libertà\democrazia; Persia = Asia = schiavitù”. Mentre la democrazia è invenzione della corte persiana, e la schiavitù è essenziale alla polis, al cittadino politico. I lettori di Canfora ne sono da tempo edotti. Qui lo schema è riprodotto per dire che a lungo si è perpetuato, fino alla guerra fredda, l’Ovest contro l’Est, o le “due Europe”. Anche se “fino alla conquista araba (640-642 a.C.), dunque un secolo dopo Giustiniano, Grecia, Palestina, Egitto e Balcani sono l’Oriente, l’Europa «orientale»”. Mentre “dall’altro lato del Mediterraneo, all’epoca di Agostino, è l’Africa del Nord la parte più civilizzata dell’Occidente”. I confini tra Est e Ovest insomma sono stati mutevoli – gli arabi, per esempio, tagliando il Mediterraneo in due, hanno dato “corpo (al)l’«Europa di Carlo Magno»”, all’Europa del Nord cioè e a quella del Sud – ma durevoli.
Questo senso della durata o delle ricorrenze Canfora ha forte. Il patto Hitler-Stalin l’aveva già fatto lo zar Alessandro, il futuro padre della Santa Alleanza, con Napoleone: il patto di Tilsit per spartirsi l’Europa – senza, neanche allora, scongiurare l’invasione. Mentre De Gaulle è un altro Luigi Napoleone. Anzi, un Boulanger più fortunato. Robespierre è un repubblicano francese, uno dei tanti, ce ne sono sempre molti, fino a Mendès-France che lo teneva alla parete. E c’è “un riecheggiamento paolino” nella Costituzione sovietica del 1936, un’eco di san Paolo. Il libro si segnala perché all’uscita cinque anni fa suscitò scandalo, essendosi l’editore tedesco Beck rifiutato di pubblicarlo - ma non per queste ricorrenze, o le altre trovate sfiziose di Canfora. Il libro rientra in una collana, Fare l’Europa, diretta da Jacques Le Goff, che cinque editori importanti in Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna, pubblicano in contemporanea. L’editore tedesco lo rifiutò con una serie di contestazioni, che faranno poi l’oggetto della satira di Canfora in “L’occhio di Zeus”, ma sostanzialmente, benché progressista, per apologia dello stalinismo. Il maggiore degli storici tedeschi sentiti dall’editore Beck come referee, Hans-Ulrich Wehler, è arrivato a dire che “nella sua dogmatica stupidità Canfora eccede le produzioni della Germania Democratica negli anni sessanta e settanta”. E questo è vero.
Canfora, che non cita i gulag nemmeno per caso, non cita, è vero, nemmeno il Diamat, il materialismo dialettico di tanti misfatti, beniamino della Germania orientale. Ma non si nasconde. Procede citando Marx e Engels, come nei vecchi libri di storia degli anni 1960-1970. Bolla il suffragio universale “inoffensivo e addomesticabile” fin dal suo primo apparire, con l’Ottantanove. E la democrazia riduce alle “cricche” già al tempo della Belle Époque e del balletto Excelsior. In una delle prime pagine, la 23, dice tutto. Rivendica per l’Afghanistan “l’«illuminismo» autoritario-statale di epoca sovietica”, che “aveva portato i diritti civili alle donne e l’alfabetizzazione coatta, ma fu sconfitto dalla guerriglia di cultura «talebana» armata e pagata dalla Cia”. Irride al ritorno religioso, “perfino Gorbačëv ha riscoperto il culto di Maria”. Denuncia la guerra del Vaticano e degli Usa alla Federazione jugoslava, col ricorso ai “fondamentalisti islamici dall’Arabia Saudita al Sudan al Pakistan – accorsi come «volontari», con armi americane, a sostegno della Bosnia, e subito dopo dell’Uck kosovaro. Evoca il ritorno del “razzismo soft” degli antichi greci contro i barbari “sotto la sconcertante formula «(es)portare la democrazia»”. Sempre disinvolto, a suo garbo. Gli inglesi fa “subentrare ai nazisti nella lotta contro i partigiani greci”. E della Polonia solo ricorda con gusto che Stalin ne diceva: “Un paese non è necessariamente innocente solo perché è piccolo”. Commentando, senza più: “Le recenti rivelazioni sul furioso antisemitismo dei Polacchi durante l’occupazione nazista sembrano confermare l’amara diagnosi”. Qui ricorre Glemp, il cardinale, per chiedere perdono, e basta: niente Giovanni Paolo II, Solidarnosc’, Jaruzelski. Pierre Mendès-France si segnala per essere “ebreo e «giacobino» sentimentalmente”. Mentre Maurice Duverger, il costituzionalista francese, è insolentito per molte pagine, senza motivo – Duverger è stato eletto al Parlamento europeo nel 1989 dal Pci, mentre Canfora dieci anni più tardi, candidato del Pdci, non è stato eletto, ma questa differenza di esiti non è ragione sufficiente. Che dirne: oltre che della celebrata leggerezza, un elogio dovrebbe essere possibile della superficialità, perché no.
A ragione sarcastico sulla retorica che ci governa, Canfora è per ciò stesso cinico. O allora da Grande Fratello, all’insolenza che ci governa dalla tv opponendo altrettante cazzate. Il contrario quindi dello staliniano, anche se forse gli dispiacerebbe. Il suo è un sberleffo pure a Marx – a Engels meno che a Marx. Involontario? Canfora, sempre appassionato di Togliatti, è stuzzicato anche dalle mediocrità di Gramsci, logiche e filologiche. Né nasconde il metodo, che anzi celebra rifacendosi a Marx, “Le lotte di classe in Francia” e “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”: “Come ogni grande storico che tratti di materia contemporanea, bruciante, Marx è profondamente coinvolto e non lesina l’arma del sarcasmo: tutto è fuorché un olimpico narratore e al tempo stesso dimostra una conoscenza minuziosa dei fatti, delle polemiche, della pubblicistica e degli contri parlamentari”. Tutto peraltro vero, se non che Marx obietterebbe, per quanto immodesto, alla qualifica di “grande storico”.
Cosa resta? È un libro di storia delle idee, anche se non appassionante come altri di Canfora, e un libro d’autore, umorale, passabilmente informato ma “tagliato”, del tutto fuori del cerchiobottismo del millennio. Il peggio – il meglio? – del libro è che uno scrittore irriverente come Canfora sia approdato al sovietismo, uno che ha demolito tanti orpelli della classicità, compresa la democrazia in Atene, che rispolvera la lotta di classe contro il suffragio universale. Un libro dunque benemerito, ma non un trattato. E un caso, anche appariscente, come i vecchi Libretti Rossi d’antiquariato a Pechino, di editoria bolscevica: falsa cioè, bugiarda, violenta. Tanto più in quanto si pretende antisovietica. Opportunista più che colpevole, poiché evidentemente ha un mercato. Non di autore opportunista, non Canfora né Le Goff, ma di un certo modo di fare cultura, il mercato della cultura (ma è l’opinione: l’opinione pubblica), col linguaggio della Terza Internazionale, che Canfora critica ma di cui adotta gli strumenti, del Cominform già Comintern. Offrendo un caso ormai raro di prosa anni Sessanta, tra Breznev e la contestazione, o dell’intelligenza radicale a uso del sovietismo: lo smascheramento münzenberghiano. Di cui ripete gli stilemi come da manuale: le contraddizioni, la democrazia avanzata, le società capitalistiche, le democrazie capitalistiche, i condizionali, i “cosiddetti”, le virgolette allusive – Rosenberg non le avrebbe usate: una cosa è, oppure non è. L'Europa ne esce come nel primo terzomondismo, anni 1950-1960, malata di etnocentrismo, malata - l'Europa e non altri.
È dunque un libro sorprendente. Ma senza il richiamo della nostalgia, anzi duramente conservatore, nel senso della realpolitik, contro il liberalismo in tutte le sue forme e il suffragio universale. Forse, effettivamente, Canfora non sa di essere modello Comintern, attardato. Willi Münzenberg, il capo della propaganda del Comintern, è del resto il vero leader del Novecento europeo, che da solo vale più di Madison Avenue e tutta l’industria della persuasione occulta: inventore di un linguaggio e costruttore di una forma mentis come si vede intramontabili, inossidabili, indistruttibili, più forti pure del geniaccio di Canfora. Willi che fece una filosofia e un’arte della doppiezza leninista, della faziosità cioè, del mascheramento, unicamente interessato al potere, duro, esclusivo, alla sua dottrina e prassi, invece che alla giustizia e all’interesse comune.
L'Opera dei pupi al “Corriere della sera”
La polemica invece è sgraziata, anzi sguaiata, “L’Occhio di Zeus” è un pamphlet cattivo e un cattivo pamphlet. In Francia e in Gran Bretagna il libro non ha fatto storia – l’editore inglese Blackwell ha semplificato la questione col semplice cambio del titolo, in “Democracy in Europe: a history”. La Germania non è rimasta molto scossa dal rifiuto di Beck, editore progressista, di pubblicare “La democrazia” di Canfora. Qualcuno ha ricordato che a un altro libro della stesa collana, quello della storica tedesca Gisela Bock sulla storia delle donne, era stata rifiutata la pubblicazione in Francia da Seuil, editore altrettanto progressista che Beck a Monaco. Gli editori tedeschi subentrati a Beck hanno glissato sulle polemiche, forti peraltro del successo immediato di pubblico. Oskar Lafontaine, il leader della Nuova Sinistra, nella postfazione alla quarta edizione non sembra entusiasta. Si limita a ripetere, con Canfora, Tucidide e Pericle, che la democrazia non c’era ad Atene perché c’era la schiavitù. Criticando per il resto chi, in Germania, nel 2007, voleva portare l’età della pensione a 67 anni, e non si occupava di ridurre la disoccupazione di massa – mentre si trattava di scelte politiche, nel quadro della democrazia, che per di più già dopo due anni si dimostrano azzeccate. E tuttavia, così vanno le cose, se il libro ha dovuto attendere due anni per essere pubblicato da altro editore, benché la traduzione fosse già pronta, “L’Occhio di Zeus” è stato tradotto e pubblicato quasi all’impronta. È che il pamphlet coronava un Historikerstreit all’italiana, pieno di querimonie e contumelie, senza reali “questioni storiografiche” – insomma sapido, o ciò che ci si attende “dall’Italia”, direbbe lo stesso Canfora.
A metà novembre 2005, all’annuncio del rifiuto di Beck di pubblicare “La democrazia”, il “Corriere della sera” di Paolo Mieli aveva sollevato con continuità, e con molti interlocutori, il caso. Canfora aveva ribattuto a ogni puntata, bollando variamente i suoi critici, sempre nel più puro stile Terza Internazionale – che non sia una dimensione dello spirito, forse Willi Münzenberg non ha inventato nulla? Al caporedattore di Beck, Detlef Felken, che il 18 novembre lo accusa di avere minimizzato i crimini di Stalin, Canfora oppone: “Ma Adenauer fu revanscista”. Al mite Viktor Zaslavsky, storico di Katyn, nonché di varie turpitudini di Stalin, oppone il 23 novembre “Der geplante Tod” di Bacque - gliela oppone in tedesco, “La morte pianificata”, e non nell’originale, “Altre perdite”, o nella traduzione italiana, “Gli altri lager”: pianificato sarebbe stato, scrive Canfora, “l’annientamento da parte Usa di centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi” a guerra finita.
A conclusione del dibattito, il 26 novembre, Canfora accusa chi lo critica di avere “i nervi scoperti”, cioè di essere in qualche modo un fascista. Con Mieli, si suppone, che tenta di rimediare con la grafica, Adenauer rappresentando con Kennedy nel 1963, e Molotov e le truppe sovietiche nel 1939 con i nazisti. Una sorta di Opera dei pupi, benché si sia svolta sul serioso e maggiore quotidiano italiano. A Palermo il signor Cuticchio fa recitare l'Opera dei pupi a un gruppo di sodali marionette, che ormai sanno tutto l'uno dell'altra dopo generazioni di vita insieme, ma quando sono in scena se ne dicono e se ne fanno di tutti i colori, per poi tornarsene tranquille in deposito. Se non che, nel caso, si tratta di opera di storia. Anche Canfora, ora che non c'è più il Muro, fa fgura di giapponese perduto nella giungla, non antipatico, non facesse opera di storico.
A poche settimane dalle bastonature reciproche fra i collaboratori di Mieli, a marzo del 2006, Canfora pubblica un gustoso pamphlet, “L’occhio di Zeus”, in sui si diverte a demolire Detlef Felken, il capo redattore di Beck. Che non gli contesta, è vero, l’impostazione del saggio, ma una ventina d’imprecisioni o errori. E qui crolla lo Historikerstreit, nella volgarità cioè. Canfora addebita metà delle contestazioni alla traduzione tedesca – alla quale pure ha collaborato. E per metà all’invidia del redattore capo, “autore di un solo libro”, e al suo consulente principale, Hans-Ulrich Wehler, che pure è storico stimato della Scuola di Bielefeld, che ha avviato con Reinhart Koselleck, della storia centrata sugli eventi socio-culturali più che su quelli politici, oltre che socialista. Quali fonti autorevoli sulla “Pace di Yalta”, che i cinque gli contestano (“Non c’è una pace di Yalta”), Canfora può addurre un programma di “History Channel”, per abbonati di Murdoch, e Vittorio Zucconi, il giornalista di “Repubblica” che ha lasciato il Msi per l’ex Pci.
A uno dei suo critici sul “Corriere della sera” Canfora si era rivolto, nella replica finale, senza nominarlo secondo la vecchia prassi delle cellule di partito, come a “un giovane studioso che collabora ogni tanto a questo giornale”. È Luzzatto. “Uno scrutinio sistematico non solo dei libri di Canfora, ma dei testi e dei discorsi di tanta parte del’intellighenzia ex, post o neocomunista, rivelerebbe qualcosa come un negazionismo all’italiana: il desolante spettacolo di una sinistra culturale che continua a minimizzare i crimini del comunismo”, aveva scritto il 24 novembre Sergio Luzzatto – che dopo qualche mese dovrà lasciare la collaborazione al “Corriere della sera”. Ma è subito dopo la replica di Canfora che il giornale già corregge il tiro: se ne incarica il liberale Pierluigi Battista. Che il 28 novembre elenca tutti i casi in cui l’Occidente dà ragione a Canfora: la condanna di Matvejevic in Croazia, l’arresto di Pahmuk in Turchia, il negazionismo di Irving. Introducendo l’argomento con l’autorità di Cioran: “Aveva ragione Cioran a sostenere che la tolleranza liberale ha un che di irrimediabilmente sangue”. Irrimediabilmente forse no, ma sì in questa cultura, post, ex e neobrezneviana. Robert Conquest, lo storico inglese autore nel 1968 dell’opera definitiva (non contestata) sulle purghe staliniane, “Il grande terrore”, lamenterà il 5 dicembre sul “Wall Street Journal”: “Alcune voci in Italia si sono sentite in difesa di questo libro, un triste paradosso quando si ricordi che la sinistra italiana, e perfino i comunisti italiani, furono tra i primi denuncianti dello stalinismo negli anni 1960”.
La ”morte pianificata” di Canfora nasce da un errore di James Bacque, il romanziere canadese che ne è l’autore. Partito dalla dizione “altre perdite” delle relazioni militari Usa all’indomani della guerra, Bacque si accorse una trentina d’anni fa che essa si applicava ai prigionieri di guerra. E che questi prigionieri erano stati declassati a Disarmed Enemy Forces, sul presupposto che si erano arresi dopo l’armistizio, ma nell’intento di privarli del trattamento di miglior favore che le convenzioni di Ginevra prevedono per i prigionieri, e quindi di nutrirli e curarli non come le forze armate americane ma come i civili dei paesi dove erano confinati, la Germania, l’Austria. Dopodiché desunse che “altre perdite” significava prigionieri deceduti per malattia o per fame. E calcolò queste perdite, sulla base di uno specifico rapporto di un campo, in un terzo dei prigionieri o Def. Un terzo del totale dei prigionieri o Def ammontava, calcolò, a 800.000-1.000.000 di “altre perdite”. Ma non è vero, ormai è accertato che gli americani non lasciarono morire fra 800 mila e un milione di soldati prigionieri.
Germania e Austria furono alla fame, per un anno dopo la fine della guerra, e nella confusione, anche perché pieni di profughi dall’Est, tra essi molti prigionieri-Def, che preferivano arrendersi all’Ovest, soprattutto i collaborazionisti dei paesi occupati. Eisenhower si trovò, già a metà 1945, a dover nutrire 17 milioni di profughi, tra i quali incluse i prigionieri-Def, e autorizzò per tutti la razione ridotta di 1.550 calorie al giorno. Molti quindi non ressero, specie all’inverno. Bacque arriva al milione di “altre perdite” attraverso un errore di valutazione e uno di fatto. Questo è un errore di battitura, un 3 per cento diventato 30 per cento. L’errore di valutazione è nella testimonianza di un colonnello ultranovantenne, che non si ricordava bene cosa volesse dire “altre perdite”. Erano le “perdite” che i comandanti registravano principalmente per trasferimenti ad altri campi, i prigionieri erano contesi per il lavoro forzato, oppure liberati senza incriminazione, tra essi tutta la Milizia Popolare, 664 mila vecchi e adolescenti, due terzi del “milione mancante” di Bacque. Un autogoal? A Canfora non interessa sapere se gli americani hanno lasciato morire un milione di tedeschi, oppure diecimila. Il fascismo, giustamente, è uno.
Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia
L’occhio di Zeus

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