“Il potere è in quanto esiste”. È l’incipit a lungo celebrato, per allievi e non, di un breve denso saggio sul potere, otto cartelle dattiloscritte al “Cesare Alfieri” di Firenze, di un filosofo presto dimenticato, Pompeo Biondi. Vittima del confuso conformismo paracomunista che si stava per abbattere sulla cultura filosofica e storica dell’Italia negli anni 1960. Il potere è una negatività: “L’esistenza del potere è il suo essere, perché il concetto di potere è intimamente contraddittorio”. Analogamente contraddittoria è la “giustificazione” del potere, di una contraddizione duplice: “La posizione del potere «giusto», (cioè della giustificata negazione dell’«alter») implica l’accettazione dell’esistenza dell’«alter», e come processo della sua determinazione (e) come coscienza di sé”.
Non ci può essere potere giusto: “La nozione di potere «giusto» è contraddittoria ed il carattere di giusto non toglie la negatività essenziale al potere”. Il potere è un rapporto di costante negazione dell’“altro” da parte dell’ “ego”, e della sua ricostituzione: “Il potere può giungere, proprio nel suo esercizio legale, a deformare ed annullare la personalità, rendendo vane garanzie e limiti”. L’esistente del potere è la forza: “«Non v’è potere se non v’è forza» è la legge delle leggi del potere, che significa appunto: «il potere è la forza»”.
La riflessione sul potere è materia degli anni 1950, di dopo il fascismo, ingiustamente lasciata cadere, poiché è attorno al potere che ruota la democrazia, cioè la politica di questo e del secolo passato. E rispetto alle contemporanee, più fortunate, trattazione di Hannah Arendt, Russell, Bottomore, Adorno, e poi Foucault, quella di Biondi è la più approfondita e provata – durevole. È la più aperta anche, benché successiva a Popper e alla “Società aperta” - ma non alla sua divulgazione – e in linea con il costituzionalismo francese, di Constant e Tocqueville meglio che di Montesquieu.
La politica non è solo il Parlamento, è il modo d’essere della società, argomenta Biondi. E l’obbedienza non è l’esito delle dittature, è un fatto nuovo, connota le società complesse, e un’insidia sempre in agguato. “Soprattutto non giustificare mai il potere come strumento per la realizzazione di una società di giustizia e ragione”, avverte per esteso Zanfarino nella presentazione, che a Biondi fu vicino per molti anni: “Il potere giusto e razionale tenderà a diventare illimitato, e ciò vanifica ogni forma di equità e di ragionevolezza compatibile con i diritti dei cittadini. Le libere istituzioni non servono a creare una società giusta, ma solo a porre certe garanzie per lo sviluppo, sempre incompiuto e difettivo, di una società di giusti”. In una logica progressista: la libertà non è un bene da cui si viene (il paradiso terrestre) e che bisogna coltivare, ma una conquista da rinnovare e verso la quale progredire. In una concezione fondamentalmente anarchica: il potere, qualsiasi potere, è forza e esercizio della forza, che la libertà deve abbattere: “L’annullamento della forza è la realtà stessa dell’uomo, che è pensabile come tale solo se si nega il valore della forza (che appunto lo annulla)”. Una natura paciosa di uomo e studioso, politicamente un moderato, quale Giulio Cattaneo che lo frequentò in famiglia lo rappresenta nella postfazione, che la riflessione conduce un’anarchia radicale: “La libertà è la negazione infinita del potere”.
Pompeo Biondi, Studi sul potere, con pref. di Antonio Zanfarino, postfazione di Giulio Cattaneo, Rubbettino, pp. 197, € 8
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