Un capolavoro del suo tempo (1964) e di oggi. Con scorci definitivi su liberalismo, borghesia, snobismo, élite, e sintesi lancinanti su Proust e H.James, il romanticismo reazionario, la scomparsa della “cavalleria dei grandi studiosi”, e la voglia di nulla che la ricchezza dei tempi moderni si porta dietro. Ripubblicato a coronamento degli anni 1980, quando il flusso democratizzante della nuova ricchezza stava per soccombere all’insidia della stagnazione (l’immobilità), ne è un grido profetico. Ma di un profetismo allora periodico: è che l’apice della borghesia non individualista, non avventurosa, a tendenza castale (il “giudice figlio di giudice, nipote di giudice) o notabilare, che il libriccino denuncia, appare indistruttibile.
Prima ricompattava il notabilato la minaccia egualitarista. Ora? Non c’è aria autocritica nel liberalismo, anzi non c’è aria. A meno che il liberalismo non sia morto da tempo o sorpassato, e siamo stabilmente in una società di caste, scandita (regolata) dagli status symbol. Normale che la cultura italiana non l’abbia letto, o l’abbia rimosso, al suo tempo e alla ripubblicazione: non c’è (c’era) liberalismo, come non c’è comunismo. Non c’è nemmeno sociologia.
Elena Croce, Lo snobismo liberale
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