Si ascolta e si guarda Palamara, il segretario del sindacato dei giudici, e si piomba in un’assemblea del tardo Sessantotto, anzi del Sessantanove, quando la burocrazia prese il sopravvento sul movimento. In quelle interminabili, faticose elucubrazioni di “cioè”, “criteri”, “metodi”, con gli “evidenziando ed esplicitando” dei culi di pietra sindacali, alla Fiat come tra le toghe. Che organizzavano la rivoluzione: chi entra nel corteo, chi esce, chi sfila prima, chi dopo, chi canta che e a quale ora, e dieci, cento, mille rivendicazioni in una – più rivendicazioni, più rivoluzione (nel 1970 si arrivò a ventuno, non si sapeva per cosa si scioperava). Gli mancano i baffetti, la sicumera e la noia ci sono tutte, con l’embonpoint da figlio di mamma. E la cecità: non vedere, non sapere cosa accade (nel 1970 l’inflazione era al 25 per cento, l’anno), i processi di quindici e venti anni, a costi da mutui sub prime, da terza, quarta e quinta ipoteca, da indebitamento fino alla quarta generazione, e danni emergenti irrimediabili. Ma ha in più il Partito.
Questo effettivamente è straordinario. Quarant’anni fa i Palamara sarebbero rimasti confinati alla cellula, alla sezione, alla rsu, oggi sono gli Uomini da cui il Partito Pende, Longo o Berlinguer o Natta non l’avrebbero tollerato. E non si sa se è un bene o un male. Forse non è male che i partiti alla Palamara stiano fuori dal governo. Ma in alternativa, certo, c’è Berlusconi.
sabato 30 gennaio 2010
Il mondo com'è - 31
astolfo
Aiuti – S’intendono allo sviluppo, e non ne hanno mai prodotto una briciola. Residuo del terzomondismo, che da scienza dell’imperialismo e della dipendenza, si è trasformato, all’Onu, nelle cancellerie e nei Parlamenti, in propositi di buona volontà, inerti. Il terzomondismo è da tempo un residuo, ma non abbastanza, un fatto di buoni sentimenti sviati, che non hanno apportato alcuno sviluppo ai poveri del mondo, a parte le critiche: ha effetti che si prolungano, anzi, devastanti, in quanto si surrogano alle soluzioni produttive poi sperimentate. In Africa per prima, il continente del,a vergogna del mondo. Forse perché “Africa semper aliquid novi apportat”, uno degli “adagia” di Erasmo, i proverbi, ripreso da Rabelais, dal “Gargantua”: la scoperta dell’Africa è un fatto dei posteri, è recente, ed è molto approssimativa. All’incirca è il posto delle vacanze dei volontari di ogni cooperazione. Ancora fino a qualche tempo fa era diffuso il mal d’Africa, tra quelli che avevano due e tre mogli, e tra i froci a Nord, ma ora anche gli africani hanno scoperto i loro diritti, a Sud e a Nord del Sahara, e il mal d’Africa non conviene più, il continente è rimasta terra di preda degli aiuti allo sviluppo, e questo la sta stremando: c’è chi vuole riempirla di preghiere, chi di vaccini, anche non scaduti, e chi di macchine dismesse, ma nessuno che le compri qualcosa o le dia lavoro. L’immigrato africano, nero o anche bianco, è anzi il tipico animale da lavoro libero, da utilizzare a piacimento. E l’Africa non è tutto.
Sono vent’anni che c’è la globalizzazione, da Tienanmen, ma il terzomondismo non è morto per le buone coscienze. La cooperazione, gli aiuti. Che sono la proiezione della nostra buona volontà, dei problemi della nostra buona volontà, ma sono anche un handicap. Il problema centrale del Terzo mondo è non più contestabile, è la marginalità nella rete produttiva mondiale. Si può anche dire l’arretratezza. Che dopo cinquant’anni di indipendenza, centocinquanta per l’America Latina, ognuno avendo la responsabilità di se stesso, è colpa propria, dei propri governi, dell’incapacità, l’avidità, la violenza. Per la persistenza, in Africa, in molte zone dell’Asia, in alcune dell’America Latina, dello stato di natura hobbesiano, con un senso del sociale poco sviluppato, distorto nell’interesse familiare o tribale. Ma per noi il Terzo mondo è il problema del che fare, dell’aiuto che ad esso possiamo dare. Che non è l’“aiuto”: la colonia, la scuola ridipinta, le magliette del foot-ball, il posto di medicazione.
Perché tanto impegno, e anche tanti capitali, sono stati inefficaci, e talvolta controproducenti? La Somalia indipendente ha fagocitato molti più capitali italiani, prestati a titolo gratuito, di quanti non ne avesse spese il colonialismo della stessa Italia, per piombare in una barbarie senza fine, senza aver mai nemmeno eretto un sasso. Un programma d’azione è un fatto quasi tecnico: date certe condizioni ottenerne la migliore combinazione. Ma il nostro che fare nasce da un'esigenza morale e ha una finalità morale. Nasce da un bisogno di riparazione ai secoli della conquista, dello schiavismo, del colonialismo, e vuole salvare il Terzo mondo insieme con noi stessi. Il Terzo mondo è diventato il terreno della catarsi: tutti coloro che hanno una rivoluzione incompiuta, politica (comunista), etica, sociale, culturale, individuale, e talvolta tutt’e cinque insieme, si sono rovesciati sul Terzo mondo. Hanno cominciato le sinistre francesi, accasciando l’Algeria sotto l'accusa di non aver realizzato quel socialismo di cui la Francia non voleva sentir parlare, e si arriva ai volontari che si rodono il fegato perché gli africani musulmani si mangiano l’agnello grasso per la fine del Ramadan, invece di destinarlo alla riproduzione e al miglioramento delle greggi, o perché i costosi medicinali vengono buttati tra i rifiuti, oppure si insabbiano al contrario nell’inerte elogio della medicina etnica.
Il Terzo mondo è il cassonetto dei nostri buoni sentimenti frustrati, del rimorso, dell’autocritica. Del rifiuto di se stessi. Ne erano avamposto i missionari, anche nelle nefaste conseguenze: che presentavano la croce passando da un eccesso all’opposto, dall’imposizione della rinuncia ai beni terreni all’imposizione del padrone, cristiano, raziocinante, costruttore. Così i cooperanti, vedono con terrore l’africano ambire alla casa in muratura, a due paia di scarpe, e perfino al posto e all’automobile, mentre la via della salvezza passa a loro avviso per l’austerità, l’uguaglianza, l’autenticità.
I buoni sentimenti non sono colpevoli in se stessi, ma portano a un vicolo cieco. L’aiuto non corrisponde alle aspettative del Terzo mondo, per cui si viene a creare quell’impasse tragicomico che vede i cooperanti trasformarsi in fustigatori dell’avidità e della violenza dei poveri. C’è un che di ridicolo nella tragedia somala, quando alla fine non si può non dire che se la gente muore e s’ammazza non è perché l’Italia non abbia aiutato il paese, perché al contrario lo ha aiutato, e continua ad aiutarlo nella carneficina tra le tribù, ma perché non c’è verso di fare dei predoni dei buoni cittadini. Ma sopratutto l’aiuto è inutile ai fini dello sviluppo, e impedisce anzi che questo s’instradi sul cammino giusto. Lo sviluppo ha bisogno di possibilità di lavoro. E il lavoro ha bisogno di sbocchi.
Germania – Ha l’esercito più pacifista del mondo. La carriera militare è stata sempre invisa nel dopoguerra. Di più ovviamente negli anni della contestazione, e poi del terrorismo. Le forze armate, a corto di quadri, dovettero aprirsi a chiunque avesse bisogno di un salario, a prescindere dagli studi o dalla specializzazione. Avvenne così che negli anni Ottanta assorbissero le migliaia di laureati in Lettere (Philologie) dei decenni precedenti, compresi i dottori, indipendentemente dall’età, che non trovavano alcun’altra occupazione, per ferme di 4-6 anni, in più casi raffermati.
Pensare tedesco è pensarle tutte. Che lo spirito è femmina (Schlegel), che lo spirito critico è l’irrazionale e Socrate è Empedocle (da Hölderlin a Nietzsche e a Heidegger), che lo spirito è il popolo (Hölderlin), tutte meno quelle sensate. L’ordinario tedesco vuole fuochi pirotecnici. La serie è infinita: lo spirito è lo Stato (Hegel), l’atto è tutto (Kant), per vincere bisogna perdere, per amare odiare, fare il male per fare il bene (Nietzsche e la cultura della crisi). Sbracare col Witz nelle cose serie, e stare serissimi nella trivialità quotidiana.
Prima si rideva in Germania. La Guerra dei Trent’anni, consolidando la Riforma, ne ha levato la voglia.
Il libretto del “Don Giovanni” è venduto come libretto di Mozart.
Guerra – Non si sa se può essere giusta. Ma non può essere umanitaria. Come non poteva essere popolare. E sempre è il fallimento della politica (Clausewitz).
Bobbio ha riparlato di guerra “giusta” nel senso della scolastica, della casuistica, di Bodin, della filosofia tedesca. Mentre la questione non è metafisica ma politica. E non di opinione pubblica ma di leadership: il popolo è portato a credere, anche a Scalfaro e D’Alema nella incredibile guerra alla Serbia. Cioè: la guerra “giusta” dev’essere regolata, è quella regolata.
Metafisicamente la guerra è bestiale: è la morte. L’unico rimedio è stata la regolazione: uniformi, campi di battaglia, codici d’onore e convenzionali, armamenti controllati. Anche, seppure in misura minore, nelle degenerazioni attuali: guerra totale e terrorismo. Giusto e ingiusto vengono per conseguenza: questione di regole (per esempio, non ammazzare tutti per la colpa di uno solo) e di diritto internazionale (trattati, convenzioni). Giusta può essere la guerra sulla base alle regole, altrimenti è l’odio.
Una volta, finita la guerra, ci si ritrovava vainqueur sans vanité, vaincu sans rancune (Rémy de Gourmont, “Le joujou patriotisme”, p. 60), senza superbia e senza odio. Lo Stato nazione e il patriottismo – lo Stato della borghesia – hanno introdotto l’odio perenne. La razionalità borghese vorrebbe giustificare la guerra, razionalmente ingiustificabile, con un ideale. Cioè metafisicamente. E ha rilanciato su grande scala le patrie greche, degli ideali di autorealizzazione e di primato, e delle guerre permanenti.
Il fatto è che il primo istinto della borghesia è battagliero. Fatta la rivoluzione nel 1789 non ha pensato che alla guerra. È per questo che il popolo nelle democrazie andrebbe tenuto fuori dalle deliberazioni sulla guerra. Con il consumismo (nelle borghesie mature) questa stessa società ha maturato l’assetto psicologico opposto, quello del lasciarsi vivere. Non è meglio, la qualità della leadership diventa decisiva.
astolfo@antiit.eu
Aiuti – S’intendono allo sviluppo, e non ne hanno mai prodotto una briciola. Residuo del terzomondismo, che da scienza dell’imperialismo e della dipendenza, si è trasformato, all’Onu, nelle cancellerie e nei Parlamenti, in propositi di buona volontà, inerti. Il terzomondismo è da tempo un residuo, ma non abbastanza, un fatto di buoni sentimenti sviati, che non hanno apportato alcuno sviluppo ai poveri del mondo, a parte le critiche: ha effetti che si prolungano, anzi, devastanti, in quanto si surrogano alle soluzioni produttive poi sperimentate. In Africa per prima, il continente del,a vergogna del mondo. Forse perché “Africa semper aliquid novi apportat”, uno degli “adagia” di Erasmo, i proverbi, ripreso da Rabelais, dal “Gargantua”: la scoperta dell’Africa è un fatto dei posteri, è recente, ed è molto approssimativa. All’incirca è il posto delle vacanze dei volontari di ogni cooperazione. Ancora fino a qualche tempo fa era diffuso il mal d’Africa, tra quelli che avevano due e tre mogli, e tra i froci a Nord, ma ora anche gli africani hanno scoperto i loro diritti, a Sud e a Nord del Sahara, e il mal d’Africa non conviene più, il continente è rimasta terra di preda degli aiuti allo sviluppo, e questo la sta stremando: c’è chi vuole riempirla di preghiere, chi di vaccini, anche non scaduti, e chi di macchine dismesse, ma nessuno che le compri qualcosa o le dia lavoro. L’immigrato africano, nero o anche bianco, è anzi il tipico animale da lavoro libero, da utilizzare a piacimento. E l’Africa non è tutto.
Sono vent’anni che c’è la globalizzazione, da Tienanmen, ma il terzomondismo non è morto per le buone coscienze. La cooperazione, gli aiuti. Che sono la proiezione della nostra buona volontà, dei problemi della nostra buona volontà, ma sono anche un handicap. Il problema centrale del Terzo mondo è non più contestabile, è la marginalità nella rete produttiva mondiale. Si può anche dire l’arretratezza. Che dopo cinquant’anni di indipendenza, centocinquanta per l’America Latina, ognuno avendo la responsabilità di se stesso, è colpa propria, dei propri governi, dell’incapacità, l’avidità, la violenza. Per la persistenza, in Africa, in molte zone dell’Asia, in alcune dell’America Latina, dello stato di natura hobbesiano, con un senso del sociale poco sviluppato, distorto nell’interesse familiare o tribale. Ma per noi il Terzo mondo è il problema del che fare, dell’aiuto che ad esso possiamo dare. Che non è l’“aiuto”: la colonia, la scuola ridipinta, le magliette del foot-ball, il posto di medicazione.
Perché tanto impegno, e anche tanti capitali, sono stati inefficaci, e talvolta controproducenti? La Somalia indipendente ha fagocitato molti più capitali italiani, prestati a titolo gratuito, di quanti non ne avesse spese il colonialismo della stessa Italia, per piombare in una barbarie senza fine, senza aver mai nemmeno eretto un sasso. Un programma d’azione è un fatto quasi tecnico: date certe condizioni ottenerne la migliore combinazione. Ma il nostro che fare nasce da un'esigenza morale e ha una finalità morale. Nasce da un bisogno di riparazione ai secoli della conquista, dello schiavismo, del colonialismo, e vuole salvare il Terzo mondo insieme con noi stessi. Il Terzo mondo è diventato il terreno della catarsi: tutti coloro che hanno una rivoluzione incompiuta, politica (comunista), etica, sociale, culturale, individuale, e talvolta tutt’e cinque insieme, si sono rovesciati sul Terzo mondo. Hanno cominciato le sinistre francesi, accasciando l’Algeria sotto l'accusa di non aver realizzato quel socialismo di cui la Francia non voleva sentir parlare, e si arriva ai volontari che si rodono il fegato perché gli africani musulmani si mangiano l’agnello grasso per la fine del Ramadan, invece di destinarlo alla riproduzione e al miglioramento delle greggi, o perché i costosi medicinali vengono buttati tra i rifiuti, oppure si insabbiano al contrario nell’inerte elogio della medicina etnica.
Il Terzo mondo è il cassonetto dei nostri buoni sentimenti frustrati, del rimorso, dell’autocritica. Del rifiuto di se stessi. Ne erano avamposto i missionari, anche nelle nefaste conseguenze: che presentavano la croce passando da un eccesso all’opposto, dall’imposizione della rinuncia ai beni terreni all’imposizione del padrone, cristiano, raziocinante, costruttore. Così i cooperanti, vedono con terrore l’africano ambire alla casa in muratura, a due paia di scarpe, e perfino al posto e all’automobile, mentre la via della salvezza passa a loro avviso per l’austerità, l’uguaglianza, l’autenticità.
I buoni sentimenti non sono colpevoli in se stessi, ma portano a un vicolo cieco. L’aiuto non corrisponde alle aspettative del Terzo mondo, per cui si viene a creare quell’impasse tragicomico che vede i cooperanti trasformarsi in fustigatori dell’avidità e della violenza dei poveri. C’è un che di ridicolo nella tragedia somala, quando alla fine non si può non dire che se la gente muore e s’ammazza non è perché l’Italia non abbia aiutato il paese, perché al contrario lo ha aiutato, e continua ad aiutarlo nella carneficina tra le tribù, ma perché non c’è verso di fare dei predoni dei buoni cittadini. Ma sopratutto l’aiuto è inutile ai fini dello sviluppo, e impedisce anzi che questo s’instradi sul cammino giusto. Lo sviluppo ha bisogno di possibilità di lavoro. E il lavoro ha bisogno di sbocchi.
Germania – Ha l’esercito più pacifista del mondo. La carriera militare è stata sempre invisa nel dopoguerra. Di più ovviamente negli anni della contestazione, e poi del terrorismo. Le forze armate, a corto di quadri, dovettero aprirsi a chiunque avesse bisogno di un salario, a prescindere dagli studi o dalla specializzazione. Avvenne così che negli anni Ottanta assorbissero le migliaia di laureati in Lettere (Philologie) dei decenni precedenti, compresi i dottori, indipendentemente dall’età, che non trovavano alcun’altra occupazione, per ferme di 4-6 anni, in più casi raffermati.
Pensare tedesco è pensarle tutte. Che lo spirito è femmina (Schlegel), che lo spirito critico è l’irrazionale e Socrate è Empedocle (da Hölderlin a Nietzsche e a Heidegger), che lo spirito è il popolo (Hölderlin), tutte meno quelle sensate. L’ordinario tedesco vuole fuochi pirotecnici. La serie è infinita: lo spirito è lo Stato (Hegel), l’atto è tutto (Kant), per vincere bisogna perdere, per amare odiare, fare il male per fare il bene (Nietzsche e la cultura della crisi). Sbracare col Witz nelle cose serie, e stare serissimi nella trivialità quotidiana.
Prima si rideva in Germania. La Guerra dei Trent’anni, consolidando la Riforma, ne ha levato la voglia.
Il libretto del “Don Giovanni” è venduto come libretto di Mozart.
Guerra – Non si sa se può essere giusta. Ma non può essere umanitaria. Come non poteva essere popolare. E sempre è il fallimento della politica (Clausewitz).
Bobbio ha riparlato di guerra “giusta” nel senso della scolastica, della casuistica, di Bodin, della filosofia tedesca. Mentre la questione non è metafisica ma politica. E non di opinione pubblica ma di leadership: il popolo è portato a credere, anche a Scalfaro e D’Alema nella incredibile guerra alla Serbia. Cioè: la guerra “giusta” dev’essere regolata, è quella regolata.
Metafisicamente la guerra è bestiale: è la morte. L’unico rimedio è stata la regolazione: uniformi, campi di battaglia, codici d’onore e convenzionali, armamenti controllati. Anche, seppure in misura minore, nelle degenerazioni attuali: guerra totale e terrorismo. Giusto e ingiusto vengono per conseguenza: questione di regole (per esempio, non ammazzare tutti per la colpa di uno solo) e di diritto internazionale (trattati, convenzioni). Giusta può essere la guerra sulla base alle regole, altrimenti è l’odio.
Una volta, finita la guerra, ci si ritrovava vainqueur sans vanité, vaincu sans rancune (Rémy de Gourmont, “Le joujou patriotisme”, p. 60), senza superbia e senza odio. Lo Stato nazione e il patriottismo – lo Stato della borghesia – hanno introdotto l’odio perenne. La razionalità borghese vorrebbe giustificare la guerra, razionalmente ingiustificabile, con un ideale. Cioè metafisicamente. E ha rilanciato su grande scala le patrie greche, degli ideali di autorealizzazione e di primato, e delle guerre permanenti.
Il fatto è che il primo istinto della borghesia è battagliero. Fatta la rivoluzione nel 1789 non ha pensato che alla guerra. È per questo che il popolo nelle democrazie andrebbe tenuto fuori dalle deliberazioni sulla guerra. Con il consumismo (nelle borghesie mature) questa stessa società ha maturato l’assetto psicologico opposto, quello del lasciarsi vivere. Non è meglio, la qualità della leadership diventa decisiva.
astolfo@antiit.eu
Che noia l'arte, di Savinio
Un Savinio avulso: didattico, programmatico, ripetitivo. Con due saggi di analogo tenore dei curatori. È il Savinio teorico degli anni 1919-’21, qui sono i suoi testi per la rivista “Valori Plastici”, senza storia a parte la difesa del fratello De Chirico, la loro unica ragione d’essere. Dei suoi trent’anni quindi: lo scrittore del “non sarò mai vecchio” non fu dunque neppure giovane.
Non manca il Savinio vero: Il “Credo dell’antisocialismo” (“fra gli uomini corrono disuguaglianze”), l’unica tradizione pittorica francese, Poussin, Ingres, Cézanne, Renoir, è italiana, l’Italia “terra di rivoluzioni”, per la Natura che obbliga sempre a ricominciare daccapo, i terremoti, ma l'italiano geneticamente "negato allo spirito romantico, il "romanticismo eterno" di Croce negato proprio agli italiani. Ma è un libro di poetica che non è la sua poetica, e non è anzi una poetica, malgrado gli sforzi dei curatori, che prendono metà del libro – Savinio aveva già scritto e pubblicato “Hermaphrodito”. L'effetto è talora comico: "Siamo e resteremo fermi nel nostro giudizio che l'arte più alta, più profonda e più assoluta, è quella di uno spirito nutrito e come sollevato dalla filosofia, Platone o Goethe, Wagner o Boecklin, piuttosto che l'arte sottile e superficiale di un Anacreonte, di un Ariosto, di un Giorgione o di un Rossini", cioè di Savinio.
Alberto Savinio, La nascita di Venere, Adelphi a cura di Giuseppe Montesano e Vincenzo Trione, pp. 164, € 12
Non manca il Savinio vero: Il “Credo dell’antisocialismo” (“fra gli uomini corrono disuguaglianze”), l’unica tradizione pittorica francese, Poussin, Ingres, Cézanne, Renoir, è italiana, l’Italia “terra di rivoluzioni”, per la Natura che obbliga sempre a ricominciare daccapo, i terremoti, ma l'italiano geneticamente "negato allo spirito romantico, il "romanticismo eterno" di Croce negato proprio agli italiani. Ma è un libro di poetica che non è la sua poetica, e non è anzi una poetica, malgrado gli sforzi dei curatori, che prendono metà del libro – Savinio aveva già scritto e pubblicato “Hermaphrodito”. L'effetto è talora comico: "Siamo e resteremo fermi nel nostro giudizio che l'arte più alta, più profonda e più assoluta, è quella di uno spirito nutrito e come sollevato dalla filosofia, Platone o Goethe, Wagner o Boecklin, piuttosto che l'arte sottile e superficiale di un Anacreonte, di un Ariosto, di un Giorgione o di un Rossini", cioè di Savinio.
Alberto Savinio, La nascita di Venere, Adelphi a cura di Giuseppe Montesano e Vincenzo Trione, pp. 164, € 12
venerdì 29 gennaio 2010
Il "Corriere" ha pagato D'Addario, anzi no
La vera notizia “Panorama” poi l’ha cestinata: che il “Corriere della sera” abbia pagato D’Addario per le sue rivelazioni sulla notte a letto con Berlusconi. Rivelazioni giunte tardive, ma tempestive: all’indomani della sconfitta del sindaco Emiliano di Bari al primo turno delle comunali, quando il giudice Scelsi, collega e amico del sindaco, fu d’urgenza richiamato dalle ferie. Una notizia cestinata non perché fosse falsa. Non più delle tante altre “notizie” che il settimanale dà, su input dell’ex amante della D’Addario. Ma per non disturbare. Il "Corriere", dopo tanto scandalo, si limita oggi a cucire le notizie di agenzia, mentre gli altri giornali ci mettono sopra uno e anche due inviati: aspetta di sapere come l'"inchiesta" del settimanale butta.
Era stato un altro "Corriere" il 9 giugno, quando c'era da valutare l'attendibilità di una prostituta. La pimpante intervista di Fiorenza Sarzanini, la cronista giudiziaria di punta del quotidiano, inviata a Bari a intervistare la donna è in effetti ancora più soprendente, a rileggerla, di quando fu fatta, come questo sito aveva segnalato:
http://www.corriere.it/politica/09_giugno_17/sarzanini_patrizia_daddario_220cce4c-5b03-11de-8305-00144f02aabc.shtml
Si sa che altri poi l’hanno pagata, “El Paìs”, il “Times”, Santoro, per uscite che D’Addario chiama “serate”, lei si pensa un’attrice. E che D’Addario ha sicuramente un servizio stampa professionale a disposizione. E' anche impensabile che D'Addario e i suoi procuratori non abbiano offerto la loro merce a "Repubblica", che ha una linea politica apertamente antiberlusconiana. E infatti è così: è in seconda istanza
che il "Corriere" è stato contattato, la cui direazione ci ha pensato su e poi, sentita la proprietà, ha accettato l'offerta.
Che ci sia a Bari un commercio di notizie “riservate”, cioè di scandali, lo sostiene il Procuratore Capo della stessa città, Antonio Laudati. Che sulle “fughe di notizie” a danno di Berlusconi ha aperto due inchieste, anche se non le ha neanche chiuse. Una terza ha aperto sulle fughe a danno di Vendola, e già si sa che non la chiuderà. E questa è l’altra parte del non detto di Bari. Si sa infatti da dove le indiscrezioni vengono, dai giudici – non dalla guardia di Finanza né dai carabinieri: il sindaco Emiliano è un giudice. Ed è anche il protetto di D’Alema, neo presidente del Copasir, la commissione di controllo dei servizi segreti.
Era stato un altro "Corriere" il 9 giugno, quando c'era da valutare l'attendibilità di una prostituta. La pimpante intervista di Fiorenza Sarzanini, la cronista giudiziaria di punta del quotidiano, inviata a Bari a intervistare la donna è in effetti ancora più soprendente, a rileggerla, di quando fu fatta, come questo sito aveva segnalato:
http://www.corriere.it/politica/09_giugno_17/sarzanini_patrizia_daddario_220cce4c-5b03-11de-8305-00144f02aabc.shtml
Si sa che altri poi l’hanno pagata, “El Paìs”, il “Times”, Santoro, per uscite che D’Addario chiama “serate”, lei si pensa un’attrice. E che D’Addario ha sicuramente un servizio stampa professionale a disposizione. E' anche impensabile che D'Addario e i suoi procuratori non abbiano offerto la loro merce a "Repubblica", che ha una linea politica apertamente antiberlusconiana. E infatti è così: è in seconda istanza
che il "Corriere" è stato contattato, la cui direazione ci ha pensato su e poi, sentita la proprietà, ha accettato l'offerta.
Che ci sia a Bari un commercio di notizie “riservate”, cioè di scandali, lo sostiene il Procuratore Capo della stessa città, Antonio Laudati. Che sulle “fughe di notizie” a danno di Berlusconi ha aperto due inchieste, anche se non le ha neanche chiuse. Una terza ha aperto sulle fughe a danno di Vendola, e già si sa che non la chiuderà. E questa è l’altra parte del non detto di Bari. Si sa infatti da dove le indiscrezioni vengono, dai giudici – non dalla guardia di Finanza né dai carabinieri: il sindaco Emiliano è un giudice. Ed è anche il protetto di D’Alema, neo presidente del Copasir, la commissione di controllo dei servizi segreti.
Nessuno candida Draghi, forse come vice
Draghi al posto di Papademos, il vice-presidente della Banca centrale europea in scadenza a luglio. È questa l’unica candidatura che l’Italia, e il governo Berlusconi, possono portare avanti con qualche probabilità di riuscita. E ancora, con qualche difficoltà interna: c’è già un italiano tra i governatori della Bce, Lorenzo Bini Smaghi, che quindi dovrebbe lasciare, sommuovendo l’intero consiglio. Ma la cosa è possibile, tanto più che Bini Smaghi prenderebbe il posto di Draghi al vertice della Banca d’Italia. Nulla da fare invece per un candidato italiano alla presidenza della Bce. Tanto meno per Draghi, che è presidente del Financial Stability Forum, l’antagonista cioè istituzionale della Bce, rappresentando l’“industria” del credito, cioè le banche. Ed è un presidente che potrebbe presto diventare capro espiatorio, se l'industria delle banche che lui rappresenta decidesse di attaccare l'Italia, il dbeito italiano, dopo la Grecia - la speculazione sa solo essere feroce, non ha debiti di lealtà
Per Berlusconi, ma a questo punto anche per Draghi, l’uscita verso la Bce rappresenterebbe una conveniente via d’uscita. Berlusconi non ha alcuna intenzione di confermare Draghi, che pure ha voluto alla Banca d’Italia quattro anni anni, alla scadenza fra un anno. Dopo l’opera costante di picconamento del suo governo operata dalla Banca d’Italia. Anche per le non celate ambizioni di Draghi di succedergli a palazzo Chigi, a capo di un governo tecnico, o di un governo di unità nazionale, le ubbie del “partito della crisi” l’estate scorsa.
Il rinnovo a scadenze diverse del vertice della Bce, la vicepresidenza a luglio, la presidenza a febbraio 2011, ha aperto il toto nomine e le candidature. L’Italia ha buone chance di avere un proprio rappresentante al vertice, dopo la condotta eccezionalmente buona tenuta dalla politica monetaria negli ultimi due anni, gli anni della crisi. Il cui merito è del ministro dell’Economia Tremonti e non della Banca d’Italia. Ma Tremonti è ormai un politico a tutto tondo e non ambisce spostarsi a Bruxelles, come è nelle ambizioni del cosiddetti grandi esperti. E d’altra parte l’Italia, seppure abbia maturato una sorta di “diritto di nomina” ai rinnovi, non può pretendere alla presidenza. Che per un patto non detto dovrà andare, dopo il “latino” Trichet, succeduto a sua volta all’olandese Wim Duisenberg, a uno del Nord. Che questa volta, difettando la Svezia e il Belgio di candidati credibili, dovrebbe essere il presidente della Bundesbank Weber.
Per Berlusconi, ma a questo punto anche per Draghi, l’uscita verso la Bce rappresenterebbe una conveniente via d’uscita. Berlusconi non ha alcuna intenzione di confermare Draghi, che pure ha voluto alla Banca d’Italia quattro anni anni, alla scadenza fra un anno. Dopo l’opera costante di picconamento del suo governo operata dalla Banca d’Italia. Anche per le non celate ambizioni di Draghi di succedergli a palazzo Chigi, a capo di un governo tecnico, o di un governo di unità nazionale, le ubbie del “partito della crisi” l’estate scorsa.
Il rinnovo a scadenze diverse del vertice della Bce, la vicepresidenza a luglio, la presidenza a febbraio 2011, ha aperto il toto nomine e le candidature. L’Italia ha buone chance di avere un proprio rappresentante al vertice, dopo la condotta eccezionalmente buona tenuta dalla politica monetaria negli ultimi due anni, gli anni della crisi. Il cui merito è del ministro dell’Economia Tremonti e non della Banca d’Italia. Ma Tremonti è ormai un politico a tutto tondo e non ambisce spostarsi a Bruxelles, come è nelle ambizioni del cosiddetti grandi esperti. E d’altra parte l’Italia, seppure abbia maturato una sorta di “diritto di nomina” ai rinnovi, non può pretendere alla presidenza. Che per un patto non detto dovrà andare, dopo il “latino” Trichet, succeduto a sua volta all’olandese Wim Duisenberg, a uno del Nord. Che questa volta, difettando la Svezia e il Belgio di candidati credibili, dovrebbe essere il presidente della Bundesbank Weber.
giovedì 28 gennaio 2010
Pesce d'aprile, il Pd non c'è più
Le Regionali annunciano un pesce d’aprile amaro, ma vero, ai Democratici: la dissoluzione del partito. Col voto non si può mai dire, ma il Pd ragiona e si muove come se. C’è chi se ne va, chi annuncia che se ne va, chi già dice che lui non c’era, in Puglia e in Campania, chi tace, a Bologna e in tutta la Regione, e il segretario Bersani è palesemente scoraggiato: la dissoluzione è già la realtà, seppure non dichiarata. L'uomo ha molto spirito critico, che disse. "Se non ci fosse il suffragio universale vinceremmo noi". Ma i difetti del partito Democratico non si emendano perché evidentemente non si può - sono “strutturali” si sarebbe detto quando si poteva.
Il partito Democratico non morde, lo sanno anche i sassi, perché è la riedizione del compromesso storico. Limitato e minoritario, fra i reduci sempre più assottigliati della gloriosa armata di guerra, che ha perso tutte le sinistre, comuniste, socialiste, verdi, laiche, non sa parlare alle destre, e non cerca peraltro il voto dove c’è, al centro, ma anzi lo antagonizza, in proprio e attraverso i Di Pietro, che d’Alema magnifica, e non si sa perché. Ma un partito sempre esclusivo e settario, pieno di prosopopea: un partito del potere. A partire dal centralismo democratico di quello che pure sembrava il meno berlingueriano dei continuatori, Veltroni. Durissimo e perfino fazioso nella gestione del collateralismo, Rai, giornali, giustizia, Cgil, la Banca d’Italia dell’ineffabile Draghi.
Si sono fatte rivoluzioni per questo compromesso. Non proletarie, anzi non propriamente rivoluzionarie, ma cruente. Mezza Dc è stata eliminata, e tutto il Psi, tutto il Pri e tutto il Pli, le forze non allineate. A opera del vero erede di Berlinguer, seppure in incognito, Walter Veltroni. Che da giovane costituì alla Fgci le coorti di giudici e giornalisti che liquidarono mezza politica, tutti quelli che si opponevano al compromesso storico. Costoro hanno perso, se Dio vuole, ma stanno sempre lì a dettare la linea, e a spiare, accusare, condannare. C’erano in Russia i Vecchi Credenti, e nella Germania di Weimar i Vecchi Socialisti, abbiamo in questa Repubblica weimariana e sovietica i vecchi Pci e i vecchi Dc, gente che inossidabile controlla ogni centro di potere anche piccolo, la Procura di Belluno per dire. Un partito di notabili residuali, scimmiottatori di Togliatti, di cui non sanno peraltro niente, si vede, non un partito politico, d'iniziativa, di movimebto, di tendenza: maschere.
L’auspicio era che Bersani si lasciasse dietro nel 2009, seppure dopo una strascicata elezione, gli oltre trent’anni di compromesso storico, che hanno portato sotto il trenta per cento una sinistra che è sempre stata in Italia maggioritaria. Ma ci sono dei vincoli in questo Pd evidentemente, anche se non si conoscono, o i suoi uomini, Bersani compreso, sono mediocri. È possibile, sono terze file del Pci di Berlinguer, e il berlinguerismo è una dottrina del potere e non del governo, della politica, del riformismo. Ha insegnato come e con chi comandare e mai cosa fare, come governare. Il chi limitando alla Dc, a mezza Dc, anzi a un quarto, i vecchi Indipendenti di sinistra, con l’esclusione feroce dei socialisti, dei repubblicani, dei radicali e degli ecologisti liberi, le forze cioè riformiste. Con l’obiettivo anzi dichiarato, dal fido Tatò per conto del capo Berlinguer nelle spregiudicate memorie, di mettere in crisi il vero riformismo, che ancora si esercitava a quei tempi tra socialisti e laici insieme e la Dc, delle convergenze nel rispetto delle diverse identità ideali e politiche. Questi tempi sono passati da vent’anni ma non devono essere morti. Cosa ha cambiato Bersani in tutto questo? Niente.
Bersani è stato eletto con entusiasmo limitato (http://www.antiit.com/2009/11/bersani-e-il-pdi-di-berlinguer-1975.html). Ma poteva e non ha saputo gestire le candidature alle Regionali. Non ha saputo in modo fragoroso. È perfino patetica la sua gestione della sua Bologna: invece di precipitarsi e cacciare Delbono, Moruzzi, Divani e ogni altro ladro del pubblico denaro e mercante d’influenze, come potrebbe e dovrebbe, se ne sta muto, le residue forze impegnando a far scivolare il voto sul nuovo sindaco di un paio di mesi. Quindi, il bolognese Bersani non comanda nel suo partito a Bologna. O, peggio, non può esporsi? Può darsi che il voto alla fine lo salvi, soprattutto nei ballottaggi, ma ora come ora perderebbe quattro Regioni o cinque invece di due: col Lazio e la Campania, anche la Calabria, la Puglia e la Basilicata. Tutto il Sud. Se ne può fare già il “De Profundis”.
Camuffarsi da preti?
Il compromesso ha liquidato ogni cultura politica, che non sia quella sotto l’ombrello berlusconiano. Si usa dire che la destra non esiste culturalmente, ma si fa confusione con l’opinione pubblica. La quale, in Italia ma non solo, ha perso ogni funzione euristica, ed è solo parte del potere, un piccolo pezzo, una cinghia di trasmissione – tra l’altro pagata sempre meno bene. Resterà pure a sinistra il “pensiero dominante”, ma per chi è avvezzo a leggerne i giornali è misera cosa. Tolto Berlusconi, è anche senza odio. Non ha i denti, ma nemmeno la lingua, è come se non avesse passioni. Sbava di volta in volta dietro Moretti e i girotondi, Grillo, Di Pietro, Fini, Casini, quando non è Sabina Guzzanti, ed è tutto dire.
Si vuole il Partito democratico “l’unione di tutti i riformismi”, ma è solo l’unione dei Ds con la Margherita. Con ciò che resta della Margherita, dopo l’abbandono di Rutelli e altri personaggi.
Un partito cui non si possono apparentare gli altri riformisti: socialisti, verdi, e gli stessi radicali. Che ha avuto e ha suoi distinti presidenti della Repubblica, Ciampi, Napolitano, ma non ne ha mai utilizzato o sostenuto la grande capacità di governo, in nessun campo. L’unico apparentamento è con Di Pietro, che non è riformista. Capace solo di proporre politiche che nulla hanno a che fare con le riforme, esose, vessatorie, sbirresche (che vergogna le intercettazioni!): basta leggerne i giornali, quelli dei maggiori editori, ascoltare la Rai, seguire le attività (e non attività) giudiziarie. Le cronache locali sono schiavizzate, contro ogni evidenza. Contro le vergogne anche, la spazzatura, la cocaina, i bancomat in libero uso. I magistrati pure. Con la vergognosa ideologia e la prassi del Csm, dolorosamente coperte dai presidenti della Repubblica.
Con la stessa doppia morale del Pci. I circoli sociali sono buoni quando contestano il G 8 e Ferrara, cattivi quando contestano Chiamparino e la Bresso. La chiesa fa bene se critica Letizia Moratti, sindaco di Milano, male se critica la sindachessa di Napoli. La consigliera provinciale di Berlusconi sotto inchiesta a Milano prende pagine intiere, l’ex ministro Pd sotto inchiesta a Potenza un articolo breve. Discriminazione doppia, del ministro rispetto al consigliere provinciale, e dei giudici del Sud – che sono napoletani come quelli di Milano. L’ineffabile Veltroni ha perfino fatto giuramento di antisocialismo, dopo aver negato di essere mai stato comunista, non si capisce a quale fine se non la follia. E tutti esibiscono il ripudio di ogni socialismo e un liberalismo d’accatto, molto simile a quello dell’oligarchia cinese, dell’arricchitevi e lasciatemi comandare, che naturalmente non inganna nessuno, i padroni non sono stupidi. Quando ha governato lo ha fatto con le tasse e i giudici, con la salda gestione della sua specialissima questione morale, che è la forza della giustizia, anche contro la Costituzione – perfino delle tasse ha fatto una questione di polizia.
Quando non sono gli sbirri, si parla come i preti. Come don Dossetti, naturalmente: il mercato sociale, la politica sociale, la società sociale (la società sociale?). E non si sa quanto si dicono e sono sociali i fascisti, quelli veri, da Lyndon LaRuche a Forza Nuova. Mentre i preti veri non si sciacquano la bocca, quando non si scrollano infastiditi le mani addosso dei tanti anticlericali mascherati con la tonaca. La socialità non c’entra, non in Italia, non in Europa, perfino Berlusconi ha dato una tessera ai poveri, la questione è politica: cosa vuole il partito Democratico? E se lo sa perché non riesce a spiegarlo convincendo gli elettori? È evidente a questo punto che la pochezza dei suoi dirigenti è la pochezza del progetto. L’unico verbo di questo partito è stato l’antiberlusconismo. L’opposizione non al governo ma alla persona, con i pedinamenti nelle sue (innocenti) avventure galanti, le intercettazioni, i giudici protervi. Niente, a parte lo squallore.
Senza dire che questa è poi la politica dei ricconi di Milano. Che, più ricchi di una generazione di Berlusconi, i Moratti, i Montezemoli, i Tronchetti Provera, e per questo non avendo mai “lavorato”, si ritengono a lui superiori. Un piccolo snobismo, se si vuole, che da solo non condanna il Pd, ma è orribile che un partito Democratico si faccia bandiera dei peggiori speculatori, quelli che hanno defraudato qualche milione di persone in Borsa, De Benedetti e Soru, e dei grandi tagliatori di teste e di rendite, gli inossidabili banchieri Bazoli o Profumo. Ma questa Milano è Berlusconi, anche quando non lo vota, quei pochi che non lo fanno.
Il partito Democratico non morde, lo sanno anche i sassi, perché è la riedizione del compromesso storico. Limitato e minoritario, fra i reduci sempre più assottigliati della gloriosa armata di guerra, che ha perso tutte le sinistre, comuniste, socialiste, verdi, laiche, non sa parlare alle destre, e non cerca peraltro il voto dove c’è, al centro, ma anzi lo antagonizza, in proprio e attraverso i Di Pietro, che d’Alema magnifica, e non si sa perché. Ma un partito sempre esclusivo e settario, pieno di prosopopea: un partito del potere. A partire dal centralismo democratico di quello che pure sembrava il meno berlingueriano dei continuatori, Veltroni. Durissimo e perfino fazioso nella gestione del collateralismo, Rai, giornali, giustizia, Cgil, la Banca d’Italia dell’ineffabile Draghi.
Si sono fatte rivoluzioni per questo compromesso. Non proletarie, anzi non propriamente rivoluzionarie, ma cruente. Mezza Dc è stata eliminata, e tutto il Psi, tutto il Pri e tutto il Pli, le forze non allineate. A opera del vero erede di Berlinguer, seppure in incognito, Walter Veltroni. Che da giovane costituì alla Fgci le coorti di giudici e giornalisti che liquidarono mezza politica, tutti quelli che si opponevano al compromesso storico. Costoro hanno perso, se Dio vuole, ma stanno sempre lì a dettare la linea, e a spiare, accusare, condannare. C’erano in Russia i Vecchi Credenti, e nella Germania di Weimar i Vecchi Socialisti, abbiamo in questa Repubblica weimariana e sovietica i vecchi Pci e i vecchi Dc, gente che inossidabile controlla ogni centro di potere anche piccolo, la Procura di Belluno per dire. Un partito di notabili residuali, scimmiottatori di Togliatti, di cui non sanno peraltro niente, si vede, non un partito politico, d'iniziativa, di movimebto, di tendenza: maschere.
L’auspicio era che Bersani si lasciasse dietro nel 2009, seppure dopo una strascicata elezione, gli oltre trent’anni di compromesso storico, che hanno portato sotto il trenta per cento una sinistra che è sempre stata in Italia maggioritaria. Ma ci sono dei vincoli in questo Pd evidentemente, anche se non si conoscono, o i suoi uomini, Bersani compreso, sono mediocri. È possibile, sono terze file del Pci di Berlinguer, e il berlinguerismo è una dottrina del potere e non del governo, della politica, del riformismo. Ha insegnato come e con chi comandare e mai cosa fare, come governare. Il chi limitando alla Dc, a mezza Dc, anzi a un quarto, i vecchi Indipendenti di sinistra, con l’esclusione feroce dei socialisti, dei repubblicani, dei radicali e degli ecologisti liberi, le forze cioè riformiste. Con l’obiettivo anzi dichiarato, dal fido Tatò per conto del capo Berlinguer nelle spregiudicate memorie, di mettere in crisi il vero riformismo, che ancora si esercitava a quei tempi tra socialisti e laici insieme e la Dc, delle convergenze nel rispetto delle diverse identità ideali e politiche. Questi tempi sono passati da vent’anni ma non devono essere morti. Cosa ha cambiato Bersani in tutto questo? Niente.
Bersani è stato eletto con entusiasmo limitato (http://www.antiit.com/2009/11/bersani-e-il-pdi-di-berlinguer-1975.html). Ma poteva e non ha saputo gestire le candidature alle Regionali. Non ha saputo in modo fragoroso. È perfino patetica la sua gestione della sua Bologna: invece di precipitarsi e cacciare Delbono, Moruzzi, Divani e ogni altro ladro del pubblico denaro e mercante d’influenze, come potrebbe e dovrebbe, se ne sta muto, le residue forze impegnando a far scivolare il voto sul nuovo sindaco di un paio di mesi. Quindi, il bolognese Bersani non comanda nel suo partito a Bologna. O, peggio, non può esporsi? Può darsi che il voto alla fine lo salvi, soprattutto nei ballottaggi, ma ora come ora perderebbe quattro Regioni o cinque invece di due: col Lazio e la Campania, anche la Calabria, la Puglia e la Basilicata. Tutto il Sud. Se ne può fare già il “De Profundis”.
Camuffarsi da preti?
Il compromesso ha liquidato ogni cultura politica, che non sia quella sotto l’ombrello berlusconiano. Si usa dire che la destra non esiste culturalmente, ma si fa confusione con l’opinione pubblica. La quale, in Italia ma non solo, ha perso ogni funzione euristica, ed è solo parte del potere, un piccolo pezzo, una cinghia di trasmissione – tra l’altro pagata sempre meno bene. Resterà pure a sinistra il “pensiero dominante”, ma per chi è avvezzo a leggerne i giornali è misera cosa. Tolto Berlusconi, è anche senza odio. Non ha i denti, ma nemmeno la lingua, è come se non avesse passioni. Sbava di volta in volta dietro Moretti e i girotondi, Grillo, Di Pietro, Fini, Casini, quando non è Sabina Guzzanti, ed è tutto dire.
Si vuole il Partito democratico “l’unione di tutti i riformismi”, ma è solo l’unione dei Ds con la Margherita. Con ciò che resta della Margherita, dopo l’abbandono di Rutelli e altri personaggi.
Un partito cui non si possono apparentare gli altri riformisti: socialisti, verdi, e gli stessi radicali. Che ha avuto e ha suoi distinti presidenti della Repubblica, Ciampi, Napolitano, ma non ne ha mai utilizzato o sostenuto la grande capacità di governo, in nessun campo. L’unico apparentamento è con Di Pietro, che non è riformista. Capace solo di proporre politiche che nulla hanno a che fare con le riforme, esose, vessatorie, sbirresche (che vergogna le intercettazioni!): basta leggerne i giornali, quelli dei maggiori editori, ascoltare la Rai, seguire le attività (e non attività) giudiziarie. Le cronache locali sono schiavizzate, contro ogni evidenza. Contro le vergogne anche, la spazzatura, la cocaina, i bancomat in libero uso. I magistrati pure. Con la vergognosa ideologia e la prassi del Csm, dolorosamente coperte dai presidenti della Repubblica.
Con la stessa doppia morale del Pci. I circoli sociali sono buoni quando contestano il G 8 e Ferrara, cattivi quando contestano Chiamparino e la Bresso. La chiesa fa bene se critica Letizia Moratti, sindaco di Milano, male se critica la sindachessa di Napoli. La consigliera provinciale di Berlusconi sotto inchiesta a Milano prende pagine intiere, l’ex ministro Pd sotto inchiesta a Potenza un articolo breve. Discriminazione doppia, del ministro rispetto al consigliere provinciale, e dei giudici del Sud – che sono napoletani come quelli di Milano. L’ineffabile Veltroni ha perfino fatto giuramento di antisocialismo, dopo aver negato di essere mai stato comunista, non si capisce a quale fine se non la follia. E tutti esibiscono il ripudio di ogni socialismo e un liberalismo d’accatto, molto simile a quello dell’oligarchia cinese, dell’arricchitevi e lasciatemi comandare, che naturalmente non inganna nessuno, i padroni non sono stupidi. Quando ha governato lo ha fatto con le tasse e i giudici, con la salda gestione della sua specialissima questione morale, che è la forza della giustizia, anche contro la Costituzione – perfino delle tasse ha fatto una questione di polizia.
Quando non sono gli sbirri, si parla come i preti. Come don Dossetti, naturalmente: il mercato sociale, la politica sociale, la società sociale (la società sociale?). E non si sa quanto si dicono e sono sociali i fascisti, quelli veri, da Lyndon LaRuche a Forza Nuova. Mentre i preti veri non si sciacquano la bocca, quando non si scrollano infastiditi le mani addosso dei tanti anticlericali mascherati con la tonaca. La socialità non c’entra, non in Italia, non in Europa, perfino Berlusconi ha dato una tessera ai poveri, la questione è politica: cosa vuole il partito Democratico? E se lo sa perché non riesce a spiegarlo convincendo gli elettori? È evidente a questo punto che la pochezza dei suoi dirigenti è la pochezza del progetto. L’unico verbo di questo partito è stato l’antiberlusconismo. L’opposizione non al governo ma alla persona, con i pedinamenti nelle sue (innocenti) avventure galanti, le intercettazioni, i giudici protervi. Niente, a parte lo squallore.
Senza dire che questa è poi la politica dei ricconi di Milano. Che, più ricchi di una generazione di Berlusconi, i Moratti, i Montezemoli, i Tronchetti Provera, e per questo non avendo mai “lavorato”, si ritengono a lui superiori. Un piccolo snobismo, se si vuole, che da solo non condanna il Pd, ma è orribile che un partito Democratico si faccia bandiera dei peggiori speculatori, quelli che hanno defraudato qualche milione di persone in Borsa, De Benedetti e Soru, e dei grandi tagliatori di teste e di rendite, gli inossidabili banchieri Bazoli o Profumo. Ma questa Milano è Berlusconi, anche quando non lo vota, quei pochi che non lo fanno.
Perché (non) comprare il giornale
Si discute di salvare i giornali facendone pagare la lettura in rete. Lo dice Carlo De Benedetti e bisogna credergli: noi non vediamo come, ma lui certamente sa. Uno però compra “la Repubblica”, il giornale di De Benedetti, grato che si faccia pagare ancora un euro, e che giovedì regali il prezioso “Trovaroma”, e non ci trova niente. Niente che valga di essere letto. A parte l’orrida cifra della tiratura, che arrembava verso il milione di copie, e ora scivola va verso il mezzo milione.
È patetico il silenzio su Chiamparino. O il poco spazio a Cinzia e Delbono, che si regalavano i soldi nostri e non sembra che lo ritengano un peccato - come del resto i Procuratori della Repubblica di Bologna: a Bologna tutti si regalano i soldi nostri? È allarmante il ritorno in pagina costante di Genchi, l’uomo di tutte le intercettazioni, nella vesta di moralizzatore. In difesa di Lapo, che i servizi segreti spiano, dice la superspia, e non gli è venuto in mente che Lapo ha un bisogno matto e disperato di uscire sui giornali – e quali servizi (non) spiavano Berlusconi al compleanno di Noemi? È incredibile il professor Guolo, che vuole difendere, non si sa perché, i mariti mussulmani che velano le loro donne, e non vuole dircelo. “In un contesto, come quello europeo, in cui la globalizzazione cancella confini e accentua le deterritorializzazione degli attori societari, ormai anche transnazionali”. Chissà che vorrà dirci Guolo (non avrà un’amante col burqa?). L’islam ha ben altro che il burqa da offrirci, quando non vuole semplicemente rompere i coglioni. Perché di questo si tratta: quanto alle donne, i padri ammazzano le figlie liberamente, anche senza il burqa.
Insomma, non si sa dove girarsi. Sarebbe rabelaisiano il professor Cordero, che dice Berlusconi un gangster. Ma poi non lo dice, dopo averlo promesso: strologa da giudice costituzionale su e già per lo statuto albertino (lo statuto albertino?) e la quasi settantenne Costituzione, ma senza averne l’autorevolezza, da leguleio. “«Confugio»”, gli scappa detto a un certo punto, “era il nome corrente nel foro napoletano quando chiese e conventi ospitavano gli immuni”, il che significa che il giudice è contro il diritto d’asilo, vorrebbe essere Sade oltre che Rabelais, e va bene. Ma non sarà che il “professore emerito autore prolifico” dell’autobiografia in rete è di formazione pagliettistica?
È patetico il silenzio su Chiamparino. O il poco spazio a Cinzia e Delbono, che si regalavano i soldi nostri e non sembra che lo ritengano un peccato - come del resto i Procuratori della Repubblica di Bologna: a Bologna tutti si regalano i soldi nostri? È allarmante il ritorno in pagina costante di Genchi, l’uomo di tutte le intercettazioni, nella vesta di moralizzatore. In difesa di Lapo, che i servizi segreti spiano, dice la superspia, e non gli è venuto in mente che Lapo ha un bisogno matto e disperato di uscire sui giornali – e quali servizi (non) spiavano Berlusconi al compleanno di Noemi? È incredibile il professor Guolo, che vuole difendere, non si sa perché, i mariti mussulmani che velano le loro donne, e non vuole dircelo. “In un contesto, come quello europeo, in cui la globalizzazione cancella confini e accentua le deterritorializzazione degli attori societari, ormai anche transnazionali”. Chissà che vorrà dirci Guolo (non avrà un’amante col burqa?). L’islam ha ben altro che il burqa da offrirci, quando non vuole semplicemente rompere i coglioni. Perché di questo si tratta: quanto alle donne, i padri ammazzano le figlie liberamente, anche senza il burqa.
Insomma, non si sa dove girarsi. Sarebbe rabelaisiano il professor Cordero, che dice Berlusconi un gangster. Ma poi non lo dice, dopo averlo promesso: strologa da giudice costituzionale su e già per lo statuto albertino (lo statuto albertino?) e la quasi settantenne Costituzione, ma senza averne l’autorevolezza, da leguleio. “«Confugio»”, gli scappa detto a un certo punto, “era il nome corrente nel foro napoletano quando chiese e conventi ospitavano gli immuni”, il che significa che il giudice è contro il diritto d’asilo, vorrebbe essere Sade oltre che Rabelais, e va bene. Ma non sarà che il “professore emerito autore prolifico” dell’autobiografia in rete è di formazione pagliettistica?
mercoledì 27 gennaio 2010
Quando i banchieri si fecero padroni
C’è stato un tempo, non remoto, in cui la storia e la società non si esaurivano nella moneta, e questa ricerca lo fa rivivere, sebbene risalga a fine Ottocento. È l’opera peraltro di un esperto consulente di banche, che gli ultimi Nobel dell’economia monetaria hanno rivalutato, James Tobin, Lawrence Klein, Robert Mundell. Anche se Del Mar resta interdetto, per opinioni non conformi sull’usura e l’ebraismo, benché egli stesso fosse di origini ebraiche sefardite. Pesa su di lui pure l’ammirazione di Pound, feroce antiusuraio, che aveva mediato le critiche di Del Mar alle ambigue vicende del bimetallismo e del metallismo dal padre Homer, dal 1889 alla Zecca federale Usa a Filadelfia, e lo riesumò nel secondo dopoguerra nella Square Dollar Series, di volumetti a un dollaro per l’educazione delle masse, che dirigeva dal manicomio. Ma è storico di prim’ordine.
Nato a New York da Jacques e Belle Del Mar, ebrei spagnoli malgrado il nome, Alexander studiò a Londra e a Madrid, e fece l’ingegnere in California. Dopo la guerra civile fu dal 1866 nel direttivo dell’Us Bureau of Statistics, che ammodernò. Nello stesso anno fu a Torino, delegato americano al Congresso monetario internazionale. Tre anni dopo dovette lasciare l’ufficio centrale di statistica, per i contrasti col presidente David Ames sulla moneta, se essa doveva rimanere legata al metallo (specie money), come una commodity, oppure in libera creazione, benché controllata centralmente (fiat money), come egli propugnava, la moderna moneta come funzione legale. Aveva per questo fatto campagna elettorale nel 1868, in favore di Horatio Seymour, il candidato Democratico, e aveva perso. Aveva perso contro gli interessi manifesti e le manovre dei banchieri europei, specie del barone James Rothschild, che operava a Parigi, e dei loro rappresentanti a New York, che erano anche i rappresentanti del partito Democratico nel maggiore Stato dell'Unione, e lo sdegno, ancora dopo trent'anni, è all'origine di questa storia.
Originariamente intitolata “Barbara Villiers, or A History of monetary crimes”, questa raccolta di testi storici e critici documenta la manomissione della Compagnia delle Indie sul conio e la circolazione monetaria in Gran Bretagna a partire dalla fine del Commonwhealt cromwelliano, dalla Restaurazione. Grazie agli intrighi di Barbara Villiers, una bellezza poco più che ventenne, ma già sposa e vedova a sedici anni di Sir Edward Villiers, risposata, e amante in carica del re Carlo II. Era il 1662: "(Carlo II) con motivazioni immorali istituì stabilmente la Compagnia di avidi cambiavalute, prepotenti approfittatori e filibustieri. In quell’anno iniziò in Inghilterra un nuovo ordine tra gli uomini. Prima i poteri erano costituiti dalla Corona, la Chiesa, i Lord e i Comuni”.
Prima non era una festa: “L’intera circolazione monetaria in Europa ai tempi della scoperta dell’America non superava i 2 $ pro capite”. Dopo fu un saccheggio. Del Mar documenta due secoli di furti legalizzati a danno dei debitori, una forma di usura legalizzata da leggi compiacenti. Centrale in realtà non è Barbara Villiers ma il cap. “Il crimine del 1868”, che Del Mar visse in prima persona, quale dirigente a Washington del partito Democratico: la corsa elettorale vincente di Seymour fu sabotata a due settimane dal voto dal partito Democratico di New York, con voci malevole di ritiro della candidatura e articoli di severa censura. Del Mar, che negoziò per conto dei Democratici di Washington a New York il rilancio della candidatura, maturò la convinzione netta che il ripensamento fosse dovuto ai soldi dei banchieri europei. I quali puntavano al rimborso alla pari del prestito di guerra americano sottoscritto nel 1862 a metà prezzo, e lo ottennero dal candidato Radicale-Repubblicano Grant. Fu il primo atto di Grant presidente. Con un beneficio, per i banchieri europei, di almeno 5 miliardi di dollari, a carico dei contribuenti americani.
La manovra fu ripetuta cinque anni dopo, presidente sempre Grant, sempre a carico del tesoro Usa, e questa volta anche dei debitori privati, cioè degli operatori economici, demonetizzando l’argento. La questione dominerà cinquant’anni della vita politica americana (la combattuta creazione di una Banca centrale, il movimento del Libero Argento, quello della cartamoneta), fino all'elezione di Wilson e allo scoppio della prima guerra mondiale, con toni anche più vivaci dell'attuale questione della sanità pubblica, e fu il tema principale di almeno tre elezioni presidenziali. Nell’immediato, e per un una ventina d’anni, fu la rovina del settore commerciale e degli agricoltori. L’abbandono dell'argento si fece senza una legge, per un’ambigua lettura del regolamento della Zecca, e anche questa volta Del Mar ritiene di documentare che ciò avvenne nell'interesse dei creditori europei, i banchieri. L’effetto fu di “aumentare il valore dell'oro e raddoppiare così il debito del popolo americano”, mentre all'interno tutti gli operatori indebitati non trovarono più come onorare il debito, se non a costi enormemente accresciuti.
Singolare è la tenuta del libro. Del Mar è storico monetario quali non ce ne sono stati più, forse ultimamente l’avventuroso Carlo Cipolla. Storico dilettante ma di grande acume e presa sull’opinione, una specie diffusa tra fine Ottocento e inizio Novecento in America, come Henry Charles Lea, James Ford Rhodes e altri. Alcune considerazioni sono peraltro attuali: non mancò allora tra gli speculatori sul debito americano chi si atteggiava a ideologo e perfino a moralizzatore.
Alexander Del Mar, Storia dei crimini monetari, Excelsior 1881, a cura di Luca Gallesi e con prefazione di Francesco Merlo, pp. 261, € 15,50
Nato a New York da Jacques e Belle Del Mar, ebrei spagnoli malgrado il nome, Alexander studiò a Londra e a Madrid, e fece l’ingegnere in California. Dopo la guerra civile fu dal 1866 nel direttivo dell’Us Bureau of Statistics, che ammodernò. Nello stesso anno fu a Torino, delegato americano al Congresso monetario internazionale. Tre anni dopo dovette lasciare l’ufficio centrale di statistica, per i contrasti col presidente David Ames sulla moneta, se essa doveva rimanere legata al metallo (specie money), come una commodity, oppure in libera creazione, benché controllata centralmente (fiat money), come egli propugnava, la moderna moneta come funzione legale. Aveva per questo fatto campagna elettorale nel 1868, in favore di Horatio Seymour, il candidato Democratico, e aveva perso. Aveva perso contro gli interessi manifesti e le manovre dei banchieri europei, specie del barone James Rothschild, che operava a Parigi, e dei loro rappresentanti a New York, che erano anche i rappresentanti del partito Democratico nel maggiore Stato dell'Unione, e lo sdegno, ancora dopo trent'anni, è all'origine di questa storia.
Originariamente intitolata “Barbara Villiers, or A History of monetary crimes”, questa raccolta di testi storici e critici documenta la manomissione della Compagnia delle Indie sul conio e la circolazione monetaria in Gran Bretagna a partire dalla fine del Commonwhealt cromwelliano, dalla Restaurazione. Grazie agli intrighi di Barbara Villiers, una bellezza poco più che ventenne, ma già sposa e vedova a sedici anni di Sir Edward Villiers, risposata, e amante in carica del re Carlo II. Era il 1662: "(Carlo II) con motivazioni immorali istituì stabilmente la Compagnia di avidi cambiavalute, prepotenti approfittatori e filibustieri. In quell’anno iniziò in Inghilterra un nuovo ordine tra gli uomini. Prima i poteri erano costituiti dalla Corona, la Chiesa, i Lord e i Comuni”.
Prima non era una festa: “L’intera circolazione monetaria in Europa ai tempi della scoperta dell’America non superava i 2 $ pro capite”. Dopo fu un saccheggio. Del Mar documenta due secoli di furti legalizzati a danno dei debitori, una forma di usura legalizzata da leggi compiacenti. Centrale in realtà non è Barbara Villiers ma il cap. “Il crimine del 1868”, che Del Mar visse in prima persona, quale dirigente a Washington del partito Democratico: la corsa elettorale vincente di Seymour fu sabotata a due settimane dal voto dal partito Democratico di New York, con voci malevole di ritiro della candidatura e articoli di severa censura. Del Mar, che negoziò per conto dei Democratici di Washington a New York il rilancio della candidatura, maturò la convinzione netta che il ripensamento fosse dovuto ai soldi dei banchieri europei. I quali puntavano al rimborso alla pari del prestito di guerra americano sottoscritto nel 1862 a metà prezzo, e lo ottennero dal candidato Radicale-Repubblicano Grant. Fu il primo atto di Grant presidente. Con un beneficio, per i banchieri europei, di almeno 5 miliardi di dollari, a carico dei contribuenti americani.
La manovra fu ripetuta cinque anni dopo, presidente sempre Grant, sempre a carico del tesoro Usa, e questa volta anche dei debitori privati, cioè degli operatori economici, demonetizzando l’argento. La questione dominerà cinquant’anni della vita politica americana (la combattuta creazione di una Banca centrale, il movimento del Libero Argento, quello della cartamoneta), fino all'elezione di Wilson e allo scoppio della prima guerra mondiale, con toni anche più vivaci dell'attuale questione della sanità pubblica, e fu il tema principale di almeno tre elezioni presidenziali. Nell’immediato, e per un una ventina d’anni, fu la rovina del settore commerciale e degli agricoltori. L’abbandono dell'argento si fece senza una legge, per un’ambigua lettura del regolamento della Zecca, e anche questa volta Del Mar ritiene di documentare che ciò avvenne nell'interesse dei creditori europei, i banchieri. L’effetto fu di “aumentare il valore dell'oro e raddoppiare così il debito del popolo americano”, mentre all'interno tutti gli operatori indebitati non trovarono più come onorare il debito, se non a costi enormemente accresciuti.
Singolare è la tenuta del libro. Del Mar è storico monetario quali non ce ne sono stati più, forse ultimamente l’avventuroso Carlo Cipolla. Storico dilettante ma di grande acume e presa sull’opinione, una specie diffusa tra fine Ottocento e inizio Novecento in America, come Henry Charles Lea, James Ford Rhodes e altri. Alcune considerazioni sono peraltro attuali: non mancò allora tra gli speculatori sul debito americano chi si atteggiava a ideologo e perfino a moralizzatore.
Alexander Del Mar, Storia dei crimini monetari, Excelsior 1881, a cura di Luca Gallesi e con prefazione di Francesco Merlo, pp. 261, € 15,50
Ombre - 40
“Futuro in ricerca”, il primo piano annuale di finanziamenti del ministero dell’Istruzione per giovani fino ai 32 anni ha avuto secondo Google diciassette milioni di contatti. Un record. Per una professione che non promette niente, solo incertezza e gastriti. Ma non se ne parla quando si dice cosa vogliono i giovani – si sa che non hanno altra ambizione che andare a “Amici”.
Milano è in guerra con la California e con la Cina. Niente di meno, è un segno del suo peso mondiale, Milano non è solo Berlusconi, la Lega e l’Inter di Rossi e Borrelli.
Ma specificamente è in guerra con i tribunali di Los Angeles e di Hong Kong. Per alcune azioni spericolate dei suoi procuratori della Repubblica, con perquisizioni cinematografiche e sequestri a gogò di carte, anche delle fotografie di casa. Che in America e in Cina non si possono fare. E questo pone un problema: dobbiamo fare la guerra per la giustizia di Milano? Si sa che la resistenza è indivisibile, ma contro l’America e la Cina?
Il “Corriere della sera” non pubblica una lettera-pettegolezzo del fotoricattatore Corona perché lo stesso non vuole che sia affiancata da due intervistine con personaggi che lui espone. Il maggior giornale italiano che chiede il permesso per due intervistine di pettegolezzo è già una notizia. Ma non è la sola.
“Oggi”, cioè lo stesso “Corriere”, pubblica oggi le foto di Lapo che in primavera aveva comprato, da Corona, per toglierle dalla circolazione.
Non è così, ma i comportamenti sono da ditta unica, Rizzoli Corriere della sera e Corona “uniti nella lotta”. Alla copia? Al ricatto?
Il calciatore Ledesma non interessa a Moratti e la Lega Calcio lo lascia alla Lazio. Lo stesso collegio arbitrale della Lega che invece aveva decretato il passaggio gratuito di Pandev all’Inter. Perché Pandev serviva all’Inter per fare finalmente i gol. Dopo che il club milanese aveva trattato con Pandev e Ledesma illegalmente, quando la caccia calcistica è proibita. Senza che la Lega e la Federazione abbiano avuto e abbiano da obiettare: l'illegalità va sempre bene a Milano.
I grandi giornali di Milano pretendono invece che il Milan, che ha nominato tutte le dirigenze del calcio, compresi i giudicanti, è sul piede di guerra con l’Inter. Alla quale invece sta chiedendo, a titolo gratuito, il calciatore brasiliano Mancini. Bisogna occupare tutti gli spazi.
“La Francia non farà la fine dell’Italia”, dichiara il presidente francese secondo il “Corriere della sera”, che alla dichiarazione dedica anche un fondo. Precisamente Sarkozy ha detto: “Non lascerò la Francia disarmata di fronte al fenomeno di sbarchi clandestini come quelli che ha conosciuto l’Italia. Ci sono degli schiavisti, degli assassini…”. Il che è solo giusto: l’Italia è in colpa non per gli arrivi dei clandestini ma perché, dopo vent’anni, e dopo accertate “correnti d’immigrazione clandestina”, via via su Brindisi, su Crotone, su Lampedusa, esse non sono state collegate a soggetti e interessi italiani come si sarebbe dovuto fare. Ma di questo non si parla.
Sarkozy è nel giusto perché è il presidente francese, all’estero è meglio. Che forse è il provincialismo di Milano, ma forse non lo è, Milano ne sa di più del resto d’Italia.
Delbono e Cinzia, i due ex innamorati bolognesi, erano entrambi sposati e lei la segretaria di lui al tempo della relazione. Per la quale figurano però fidanzati e non amanti. È il nuovo politicamente corretto? Ma allora perché non si dice lo stesso di Marrazzo e Natalie, che invece si fa passare per prostituta anche se Marrazzo le\gli passava molto meno soldi che Delbono a Cinzia, e non dello Stato, senza contare la coca che Natalie gli dava in cambio. È il politicamente corretto tra compagni: rubare per la fidanzata è meno grave che rubare per l’amante?
La vicenda dei regali fatti da Delbono alla fidanzata a spese dello Stato era emersa durante la campagna elettorale, per iniziativa della fidanzata delusa. Delbono si querelò incauto contro il candidato concorrente che ne aveva parlato. Ma la Procura di Bologna archiviò la vicenda dopo una non inchiesta rapida. Se non che si opposero il gip, e la stessa Cinzia, la fidanzata.
La copertura della Procura, accoppiata alla “certezza” di Delbono di non aver fatto nulla di male, fa sorgere la domanda: quanto è normale a Bologna e dintorni la pratica di farsi pagare amori e vacanze dallo Stato?
Lo sanno tutti che nel Lazio non ci sarà partita, tra Polverini e Bonino. Renato Mannheimer sul “Corriere della sera” dice invece che “gli italiani preferiscono la Polverini, ma di poco”. Forse la differenza la fanno le italiane?
Il ministro Gelmini si sposa incinta al suo paese, con una modesta cerimonia. Ne aveva fatto ludibrio Sabina Guzzanti due anni fa a piazza Navona, a una manifestazione della sinistra, mimandola a fellare Berlusconi. Satira? Sinistra? Follia? Stupidità?
Il giudice D’Avossa, che giudica Berlusconi nell’appello del processo Mills, inverte la procedura: prima l’interrogatorio degli imputati e poi i testimoni dell’accusa, al contrario di come vuole il codice. Lo fa in una battaglia proceduralista con marpioni del genere, come Ghedini: può darsi sia la solita battaglia tra grandi giuristi all'italiana. Ma il dottr D'Avossa dà netta l’impressione che a lui interessa solo far comparire in aula Berlusconi, legarlo con le immagini all’atto delittuoso che si sta giudicando. Dà netta questa impressione nelle cronache dei giornalisti legati al palazzo di Giustizia.
Il dottor D'Avossa non è solo, i giudici Guadagnino e Lupo, che con lui costituiscono il collegio giudicante, concordano. Tutti in età, e senza speciali caratterizzazioni politiche. Tutti in riga col pm De Pasquale, che pure non gode buona fama a Milano, e nella stessa Procura milanese.
Milano è in guerra con la California e con la Cina. Niente di meno, è un segno del suo peso mondiale, Milano non è solo Berlusconi, la Lega e l’Inter di Rossi e Borrelli.
Ma specificamente è in guerra con i tribunali di Los Angeles e di Hong Kong. Per alcune azioni spericolate dei suoi procuratori della Repubblica, con perquisizioni cinematografiche e sequestri a gogò di carte, anche delle fotografie di casa. Che in America e in Cina non si possono fare. E questo pone un problema: dobbiamo fare la guerra per la giustizia di Milano? Si sa che la resistenza è indivisibile, ma contro l’America e la Cina?
Il “Corriere della sera” non pubblica una lettera-pettegolezzo del fotoricattatore Corona perché lo stesso non vuole che sia affiancata da due intervistine con personaggi che lui espone. Il maggior giornale italiano che chiede il permesso per due intervistine di pettegolezzo è già una notizia. Ma non è la sola.
“Oggi”, cioè lo stesso “Corriere”, pubblica oggi le foto di Lapo che in primavera aveva comprato, da Corona, per toglierle dalla circolazione.
Non è così, ma i comportamenti sono da ditta unica, Rizzoli Corriere della sera e Corona “uniti nella lotta”. Alla copia? Al ricatto?
Il calciatore Ledesma non interessa a Moratti e la Lega Calcio lo lascia alla Lazio. Lo stesso collegio arbitrale della Lega che invece aveva decretato il passaggio gratuito di Pandev all’Inter. Perché Pandev serviva all’Inter per fare finalmente i gol. Dopo che il club milanese aveva trattato con Pandev e Ledesma illegalmente, quando la caccia calcistica è proibita. Senza che la Lega e la Federazione abbiano avuto e abbiano da obiettare: l'illegalità va sempre bene a Milano.
I grandi giornali di Milano pretendono invece che il Milan, che ha nominato tutte le dirigenze del calcio, compresi i giudicanti, è sul piede di guerra con l’Inter. Alla quale invece sta chiedendo, a titolo gratuito, il calciatore brasiliano Mancini. Bisogna occupare tutti gli spazi.
“La Francia non farà la fine dell’Italia”, dichiara il presidente francese secondo il “Corriere della sera”, che alla dichiarazione dedica anche un fondo. Precisamente Sarkozy ha detto: “Non lascerò la Francia disarmata di fronte al fenomeno di sbarchi clandestini come quelli che ha conosciuto l’Italia. Ci sono degli schiavisti, degli assassini…”. Il che è solo giusto: l’Italia è in colpa non per gli arrivi dei clandestini ma perché, dopo vent’anni, e dopo accertate “correnti d’immigrazione clandestina”, via via su Brindisi, su Crotone, su Lampedusa, esse non sono state collegate a soggetti e interessi italiani come si sarebbe dovuto fare. Ma di questo non si parla.
Sarkozy è nel giusto perché è il presidente francese, all’estero è meglio. Che forse è il provincialismo di Milano, ma forse non lo è, Milano ne sa di più del resto d’Italia.
Delbono e Cinzia, i due ex innamorati bolognesi, erano entrambi sposati e lei la segretaria di lui al tempo della relazione. Per la quale figurano però fidanzati e non amanti. È il nuovo politicamente corretto? Ma allora perché non si dice lo stesso di Marrazzo e Natalie, che invece si fa passare per prostituta anche se Marrazzo le\gli passava molto meno soldi che Delbono a Cinzia, e non dello Stato, senza contare la coca che Natalie gli dava in cambio. È il politicamente corretto tra compagni: rubare per la fidanzata è meno grave che rubare per l’amante?
La vicenda dei regali fatti da Delbono alla fidanzata a spese dello Stato era emersa durante la campagna elettorale, per iniziativa della fidanzata delusa. Delbono si querelò incauto contro il candidato concorrente che ne aveva parlato. Ma la Procura di Bologna archiviò la vicenda dopo una non inchiesta rapida. Se non che si opposero il gip, e la stessa Cinzia, la fidanzata.
La copertura della Procura, accoppiata alla “certezza” di Delbono di non aver fatto nulla di male, fa sorgere la domanda: quanto è normale a Bologna e dintorni la pratica di farsi pagare amori e vacanze dallo Stato?
Lo sanno tutti che nel Lazio non ci sarà partita, tra Polverini e Bonino. Renato Mannheimer sul “Corriere della sera” dice invece che “gli italiani preferiscono la Polverini, ma di poco”. Forse la differenza la fanno le italiane?
Il ministro Gelmini si sposa incinta al suo paese, con una modesta cerimonia. Ne aveva fatto ludibrio Sabina Guzzanti due anni fa a piazza Navona, a una manifestazione della sinistra, mimandola a fellare Berlusconi. Satira? Sinistra? Follia? Stupidità?
Il giudice D’Avossa, che giudica Berlusconi nell’appello del processo Mills, inverte la procedura: prima l’interrogatorio degli imputati e poi i testimoni dell’accusa, al contrario di come vuole il codice. Lo fa in una battaglia proceduralista con marpioni del genere, come Ghedini: può darsi sia la solita battaglia tra grandi giuristi all'italiana. Ma il dottr D'Avossa dà netta l’impressione che a lui interessa solo far comparire in aula Berlusconi, legarlo con le immagini all’atto delittuoso che si sta giudicando. Dà netta questa impressione nelle cronache dei giornalisti legati al palazzo di Giustizia.
Il dottor D'Avossa non è solo, i giudici Guadagnino e Lupo, che con lui costituiscono il collegio giudicante, concordano. Tutti in età, e senza speciali caratterizzazioni politiche. Tutti in riga col pm De Pasquale, che pure non gode buona fama a Milano, e nella stessa Procura milanese.
martedì 26 gennaio 2010
Voglia d'inflazione controllata alla Roosevelt
L’Europa ha schivato, eccetto la Gran Bretagna, la peste americana dei mutui di terza serie, ma esce dalla crisi più debole e vacillante dell’America. Le previsioni, del Fmi, dell’Ocse, della stessa Bce concordano: c’è un biennio di forte ripresa nel mondo, eccetto che in Europa, che vivacchierà sull’1 per cento massimo di crescita annua. A un ritmo, cioè, che farà perdere all’Europa un decennio per uscire dalla sacca prodotta dalla crisi, nell’occupazione e nel reddito - nel solo 2009 la produzione e le esportazioni sono crollate del venti per cento. E questo per una ragione semplice: l’economia è intrappolata nel monetarismo rigido, un ideologismo scientista da continente chiuso in se stesso, da molti decenni ormai in ritardo sul passo del mondo. Questa è la sola ricetta che Bruxelles riesce a produrre, e nessun governo in Europa mostra di volere o sapere contrastare. Mentre gli inventori e i pilastri della globalizzazione, Usa e Cina, ne ridisegnano i piani e le volte come agili carpentieri.
Di stabilità si può morire, l’Europa non può fermarsi ai conti in ordine. E di inerzia, che niente ptrà camuffare per impegno internazionale di stabilità C’è bisogno di un piano speciale di sviluppo, qualcosa che accresca di pari passo la produzione, con le condizioni della produzione, e i consumi. Una reinvenzione dell’“inflazione programmata”, o controlata, con cui F.D.Roosevelt tirò l’America fuori dalla Depressione – è un tema di LyndonLaRuche, l’agitatore americano che periodicamente la Camera dei deputati ospita, amico si suppone di Fini, ma non importa. Un allentamento in qualche modo dei vincoli posti dal debito – in Italia e non solo. L’invenzione di politiche settoriali di sviluppo, infrastrutturali e non. Il ritorno a una dinamica dei prezzi remunerativa e moltiplicativa, invece che recessiva. D’altronde, non si dice ma si sa che l’Europa ha convissuto i primi tre anni dell’euro con un’inflazione proibitiva, all’interno del monetarismo rigido, benché non registrata da un servizio statistico addomesticato.
Non è d’altra parte nemmeno vero che nessun governo in Europa si muova. In Germania il nuovo governo Merkel ha debuttato con una cospicua riduzione fiscale. La Germania, che ha imposto all’Italia e all’Europa la camicia di forza dei piani di stabilità, li ha allegramente dimenticati nella fase prima della crisi, i salvataggi, e ora nella fase del rilancio. Sarkozy sta studiando come allinearsi senza copiare apertamente la cancelliera. Paradossalmente, solo l’Italia rimane a guardia del bidone, con la faccia feroce del gentile Tremonti.
Di stabilità si può morire, l’Europa non può fermarsi ai conti in ordine. E di inerzia, che niente ptrà camuffare per impegno internazionale di stabilità C’è bisogno di un piano speciale di sviluppo, qualcosa che accresca di pari passo la produzione, con le condizioni della produzione, e i consumi. Una reinvenzione dell’“inflazione programmata”, o controlata, con cui F.D.Roosevelt tirò l’America fuori dalla Depressione – è un tema di LyndonLaRuche, l’agitatore americano che periodicamente la Camera dei deputati ospita, amico si suppone di Fini, ma non importa. Un allentamento in qualche modo dei vincoli posti dal debito – in Italia e non solo. L’invenzione di politiche settoriali di sviluppo, infrastrutturali e non. Il ritorno a una dinamica dei prezzi remunerativa e moltiplicativa, invece che recessiva. D’altronde, non si dice ma si sa che l’Europa ha convissuto i primi tre anni dell’euro con un’inflazione proibitiva, all’interno del monetarismo rigido, benché non registrata da un servizio statistico addomesticato.
Non è d’altra parte nemmeno vero che nessun governo in Europa si muova. In Germania il nuovo governo Merkel ha debuttato con una cospicua riduzione fiscale. La Germania, che ha imposto all’Italia e all’Europa la camicia di forza dei piani di stabilità, li ha allegramente dimenticati nella fase prima della crisi, i salvataggi, e ora nella fase del rilancio. Sarkozy sta studiando come allinearsi senza copiare apertamente la cancelliera. Paradossalmente, solo l’Italia rimane a guardia del bidone, con la faccia feroce del gentile Tremonti.
Il giudice Vendicatore a Hollywood
Il Procuratore De Pasquale s’è arrabbiato e mette sotto accusa il governo degli Stati Uniti. Che l’ha aiutato a trovare le prove contro Berlusconi, mobilitando per lui addirittura cinquanta agenti Fbi per le perquisizioni, un esercito da film blockbuster, una superproduzione, ma non gliele ha trovate. E ora De Pasquale le vuole. Ha depositato 45 mila pagine di supplemento istruttorio, che solo di fotocopie sono 450 mila euro, un miliardo di lire, e il dottor D’Avossa con tutta la sua buona volontà mai potrà dire d’avere letto, ma lui stesso, lui De Pasquale, non pensa di avere le prove. Colpa, dice, dell’America boia. Contro cui il giudice, simile al Vendicatore della Marvel Comics, ha lanciato i suoi fulmini.
L’uso di mezza compagnia Fbi per la perquisizione ha creato un caso, benché Los Angeles sia abituata con Hollywood alle grandi scene. Il perquisito allibito ha ottenuto le scuse della Procura di Los Angeles, la quale ha ammesso “errori significativi” nell’azione, e ha restituito al malcapitato la documentazione che gli era stata sottratta. La “irritualità” vanno bene a Milano, ma non sono ammesse purtroppo in America. “Di qui”, scrive sul “Corriere della sera” il fido Ferrarella, “la sferzante conclusione di De Pasquale”. Che vi risparmiamo ma vuole dire: “È colpa vostra”.
Il dottor De Pasquale sa che Berlusconi è colpevole, tutti lo sappiamo, ma lui non trova le prove. Le cerca ma non le trova, deve avere tutta la nostra comprensione, pagargli lo stipendio non basta. Le prove è andato a cercarle fino in Cina, anche se modestamente non lo fa valere, nello sterminato impero celeste che ora vorrebbe vendicarsi e lo calunnia, anche se il "Corriere" caritatevole non lo dice. E si appresta a cercarle a Montecarlo, un’altra destinazione molto piacevole, come la Hong Kong e la Hollywod Anche perché ora le prove va a cercarle a Montecarlo, un’altra destinazione molto piacevole, come la Los Angeles del suo personale action movie. Ma bisogna dargliene atto, è uno che non si gode la vacanze pagate, così già nel 1993, al tempo dei suicidi degli indagati non interrogati, insiste per darci qualcosa in cambio.
L’uso di mezza compagnia Fbi per la perquisizione ha creato un caso, benché Los Angeles sia abituata con Hollywood alle grandi scene. Il perquisito allibito ha ottenuto le scuse della Procura di Los Angeles, la quale ha ammesso “errori significativi” nell’azione, e ha restituito al malcapitato la documentazione che gli era stata sottratta. La “irritualità” vanno bene a Milano, ma non sono ammesse purtroppo in America. “Di qui”, scrive sul “Corriere della sera” il fido Ferrarella, “la sferzante conclusione di De Pasquale”. Che vi risparmiamo ma vuole dire: “È colpa vostra”.
Il dottor De Pasquale sa che Berlusconi è colpevole, tutti lo sappiamo, ma lui non trova le prove. Le cerca ma non le trova, deve avere tutta la nostra comprensione, pagargli lo stipendio non basta. Le prove è andato a cercarle fino in Cina, anche se modestamente non lo fa valere, nello sterminato impero celeste che ora vorrebbe vendicarsi e lo calunnia, anche se il "Corriere" caritatevole non lo dice. E si appresta a cercarle a Montecarlo, un’altra destinazione molto piacevole, come la Hong Kong e la Hollywod Anche perché ora le prove va a cercarle a Montecarlo, un’altra destinazione molto piacevole, come la Los Angeles del suo personale action movie. Ma bisogna dargliene atto, è uno che non si gode la vacanze pagate, così già nel 1993, al tempo dei suicidi degli indagati non interrogati, insiste per darci qualcosa in cambio.
Le tangenti sui film Rcs non erano reato - 3
Dei 1.300 miliardi spariti dalle casse della Rizzoli Corriere della sera nel 1991-1994 la parte più cospicua, dopo quella andata agli Agnelli-Ifi per il “pacco” della Fabbri Editore, furono i diritti cinematografici, almeno 250 miliardi. Cinque volte (o dieci) la cifra contestata dai giudici di Milano a Mediatrade e Berlusconi, ma che allora non fu ritenuta degna d’indagine, neppure dell’acquisizione di un qualche documento contabile. Le cifre si trovavano esposte in ordine nel libro “Mediobanca Editore” del 1997, due anni prima dell’archiviazione disposta dai giudici di Milano Nocerino e Barazzetta:
“L'avventura parte a maggio del 1991. Luca Cordero di Montezemolo, da pochi mesi amministratore delegato Rcs per il settore audiovisivo, porta a Hollywood un assegno di 15 milioni di dollari per il 3,6 per cento della Carolco Pictures, più 5 milioni di dollari per alcuni diritti del film “Basic Instincts”, che della Carolco è il grande successo - poi convertiti anch'essi in quote azionarie, fino a raggiungere il 5,7 per cento. Nello stesso anno viene rafforzata la partecipazione in Tf1, dal 2,8 al 4 per cento, avvalorando l'ipotesi che non si tratti di un piazzamento finanziario ma di un ingresso nell'industria dell'etere. Viene acquistato il 5 per cento della Carlton Television, che opererà in Gran Bretagna a partire dal 1993, la prima di una serie di acquisizioni nel settore tv e video che a fine 1993 venivano esibite in un organigramma enorme di partecipazioni piccole e grandi sotto questi marchi: Carolco e Carlton, i marchi video Panarecord, Vivivideo, Classic Collection, Mach 3 Video, le innumerevoli Hadrian's Wall, e poi Cinema Praha, East Los Angeles Productions, Euphon e Complete Film Services, Majestic, Spiderman Productions, Hot Zone Productions, Hannibal e Portman Hannibal Productions, Trm Pictures, Rcs Video Antilles, e Live Entertainment, quotata questa al Nasdaq, la Borsa delle piccole-medie imprese di Wall Street.
…………
“Si compra allegramente, come si è venduto (la Rizzoli della famiglia Rizzoli vantava il miglior catalogo di film italiani, compresi Fellini e Antonioni, di cui l’ultimo gioiello, gli studi Saffa Palatino al centro di Roma, erano ceduti per niente a Berlusconi nei primi anni 1980, nell transizione alla nuova proprietà Mediobanca-Agnelli, n.d.r.). L'aneddotica è inesauribile. Per la Majestic la Rcs ha pagato circa 40 miliardi (28 milioni di dollari), una cifra giustificata unicamente dal catalogo dei film - film in gran parte di pubblico dominio. L'accordo del 1992 per quattro miniserie di un'ora con la Nbc consentì da solo all’emittente americana, schiacciata dai debiti, una vitale boccata d’ossigeno. Il mercato si faceva allora sulla base di 3 milioni di dollari ogni ora di programma per i diritti televisivi nazionali su base triennale. La Nbc ebbe invece dalla Rizzoli 7 milioni di dollari per i diritti di emittenti locali. Con sua sorpresa, Kevin Kostner vendette alla Rcs per 2,5 milioni di dollari i diritti per l’Italia dei materiali documentari sugli Indiani che gli erano serviti per “Balla coi lupi”.
“Il capolavoro dell’allegra gestione resta la Carolco. L’investimento fu consigliato da Bankers’ Trust, primaria banca d'affari americana, che però era creditrice della Carolco, con la consulenza, per la parte fiscale, della solita Coopers & Lybrand. Bankers' Trust si limitò a fornire la data room, la situazione come figurava sulla carta, e a suggerire alcune cautele. Toccava a Gemina e Rcs esercitare la due diligence, l’analisi dei conti, direttamente o a mezzo di altri consulenti. Pochi mesi dopo la consegna del primo vistoso assegno la partecipazione nella Carolco fu svalutata per 16,6 miliardi, quasi per intiero cioè, per le ingenti perdite emerse. Ma nemmeno questo dissuase la Rcs, che nel 1992 investì altri 30 milioni di dollari. E altri ancora l'anno successivo, per una perdita globale di 78 milioni di dollari - in lire 80,6 miliardi di lire d’investimento, più 43,8 miliardi per “oneri connessi”. Una società di cinema con un capitale versato di 80 miliardi è un'eccezione. Una società di cinema con un capitale di 2 mila miliardi o poco meno, come lascia ipotizzare l’investimento di 80 miliardi per il 5 per cento, è una mostruosità - al di fuori di ogni possibilità di errore.
“A fine 1992 il “Corriere della sera” mette Rcs al tredicesimo posto fra i grandi dell'etere, dopo Berlusconi (sesto) e Ted Turner della Cnn (settimo), ma prima del gigante francese Tf 1 e di Rede Globo, l’impero della famiglia brasiliana Marinho. Ma è durata poco. Nel 1993, mentre il settore veniva riorganizzato da Paolo Glisenti, successore di Luca di Montezemolo, in una società autonoma, la Rcs Film & Tv, emergevano perdite per 48 miliardi. Ai quali vanno aggiunti i 60 miliardi di perdite della Rcs International Communication, derivanti in gran parte dal settore video. Tre anni dopo il viaggio di Montezemolo a Hollywood l'avventura era finita in un disastro”.
Il salasso venne contabilizzato nei bilanci 1994 e 1995 in 200 miliardi, ma nei fatti fu di almeno 250 miliardi.
3. fine
“L'avventura parte a maggio del 1991. Luca Cordero di Montezemolo, da pochi mesi amministratore delegato Rcs per il settore audiovisivo, porta a Hollywood un assegno di 15 milioni di dollari per il 3,6 per cento della Carolco Pictures, più 5 milioni di dollari per alcuni diritti del film “Basic Instincts”, che della Carolco è il grande successo - poi convertiti anch'essi in quote azionarie, fino a raggiungere il 5,7 per cento. Nello stesso anno viene rafforzata la partecipazione in Tf1, dal 2,8 al 4 per cento, avvalorando l'ipotesi che non si tratti di un piazzamento finanziario ma di un ingresso nell'industria dell'etere. Viene acquistato il 5 per cento della Carlton Television, che opererà in Gran Bretagna a partire dal 1993, la prima di una serie di acquisizioni nel settore tv e video che a fine 1993 venivano esibite in un organigramma enorme di partecipazioni piccole e grandi sotto questi marchi: Carolco e Carlton, i marchi video Panarecord, Vivivideo, Classic Collection, Mach 3 Video, le innumerevoli Hadrian's Wall, e poi Cinema Praha, East Los Angeles Productions, Euphon e Complete Film Services, Majestic, Spiderman Productions, Hot Zone Productions, Hannibal e Portman Hannibal Productions, Trm Pictures, Rcs Video Antilles, e Live Entertainment, quotata questa al Nasdaq, la Borsa delle piccole-medie imprese di Wall Street.
…………
“Si compra allegramente, come si è venduto (la Rizzoli della famiglia Rizzoli vantava il miglior catalogo di film italiani, compresi Fellini e Antonioni, di cui l’ultimo gioiello, gli studi Saffa Palatino al centro di Roma, erano ceduti per niente a Berlusconi nei primi anni 1980, nell transizione alla nuova proprietà Mediobanca-Agnelli, n.d.r.). L'aneddotica è inesauribile. Per la Majestic la Rcs ha pagato circa 40 miliardi (28 milioni di dollari), una cifra giustificata unicamente dal catalogo dei film - film in gran parte di pubblico dominio. L'accordo del 1992 per quattro miniserie di un'ora con la Nbc consentì da solo all’emittente americana, schiacciata dai debiti, una vitale boccata d’ossigeno. Il mercato si faceva allora sulla base di 3 milioni di dollari ogni ora di programma per i diritti televisivi nazionali su base triennale. La Nbc ebbe invece dalla Rizzoli 7 milioni di dollari per i diritti di emittenti locali. Con sua sorpresa, Kevin Kostner vendette alla Rcs per 2,5 milioni di dollari i diritti per l’Italia dei materiali documentari sugli Indiani che gli erano serviti per “Balla coi lupi”.
“Il capolavoro dell’allegra gestione resta la Carolco. L’investimento fu consigliato da Bankers’ Trust, primaria banca d'affari americana, che però era creditrice della Carolco, con la consulenza, per la parte fiscale, della solita Coopers & Lybrand. Bankers' Trust si limitò a fornire la data room, la situazione come figurava sulla carta, e a suggerire alcune cautele. Toccava a Gemina e Rcs esercitare la due diligence, l’analisi dei conti, direttamente o a mezzo di altri consulenti. Pochi mesi dopo la consegna del primo vistoso assegno la partecipazione nella Carolco fu svalutata per 16,6 miliardi, quasi per intiero cioè, per le ingenti perdite emerse. Ma nemmeno questo dissuase la Rcs, che nel 1992 investì altri 30 milioni di dollari. E altri ancora l'anno successivo, per una perdita globale di 78 milioni di dollari - in lire 80,6 miliardi di lire d’investimento, più 43,8 miliardi per “oneri connessi”. Una società di cinema con un capitale versato di 80 miliardi è un'eccezione. Una società di cinema con un capitale di 2 mila miliardi o poco meno, come lascia ipotizzare l’investimento di 80 miliardi per il 5 per cento, è una mostruosità - al di fuori di ogni possibilità di errore.
“A fine 1992 il “Corriere della sera” mette Rcs al tredicesimo posto fra i grandi dell'etere, dopo Berlusconi (sesto) e Ted Turner della Cnn (settimo), ma prima del gigante francese Tf 1 e di Rede Globo, l’impero della famiglia brasiliana Marinho. Ma è durata poco. Nel 1993, mentre il settore veniva riorganizzato da Paolo Glisenti, successore di Luca di Montezemolo, in una società autonoma, la Rcs Film & Tv, emergevano perdite per 48 miliardi. Ai quali vanno aggiunti i 60 miliardi di perdite della Rcs International Communication, derivanti in gran parte dal settore video. Tre anni dopo il viaggio di Montezemolo a Hollywood l'avventura era finita in un disastro”.
Il salasso venne contabilizzato nei bilanci 1994 e 1995 in 200 miliardi, ma nei fatti fu di almeno 250 miliardi.
3. fine
lunedì 25 gennaio 2010
Le tangenti sui film Rcs non erano reato - 2
C’era una sorta di Rcs Parallela – l’azienda “parallela” l’avevano immaginata per la Fiat Fruttero e Lucentini all’epoca del terrorismo nel romanzo “A che punto è la notte”? L’ipotesi, da collegare all’ammanco di 1.300 miliardi di lire dalla Rizzoli Corriere della sera negli anni 1991-1994, è più che suffragata dalla scoperta, involontaria, di una contabilità riservata di Gemina, la finanziaria cui Rcs faceva capo. Molti segnali in questa direzione si ricavano dal libro “Mediobanca Editore”, di Giuseppe Leuzzi, Edizioni SEAM, un libro del 1997 ancora reperibile:
“Un’ultima pista è la contabilità riservata, e riguarda Gemina. La traccia emerge a fine giugno 1996, quando si viene a sapere che Gemina teneva dei documenti in un nascondiglio che la Guardia di finanza ha scoperto, un vano ricavato sotto il pavimento. Subito l’amministratore delegato Sabatini precisa, all’assemblea del 29 giugno, che non c’è un nascondiglio e non c’è una contabilità occulta: “Nel 1993, durante lavori di manutenzione, alcuni operai reperirono in un’intercapedine due gruppi di fascicoli che vennero consegnati al dirigente di allora, il quale, a sua volta, li fece esaminare da un funzionario. All’esame fatto all’epoca non si ritenne trattarsi di materiale di particolare rilievo”. La Guardia di finanza si sarebbe limitata a sequestrare quei fascicoli.
“Ma la spiegazione di Sabatini non convince. Né convince l'ipotesi subordinata fatta circolare dalla stessa Gemina, che qualche dirigente sleale avesse tentato un ricatto alla società col sistema delle “carte Moro” (le carte del “processo” delle Brigate Rosse a Aldo Moro, che furono trovate in tempi e luoghi diversi, in redazioni diverse), come un avvertimento del tipo: “Questi documenti sono inoffensivi ma ti fanno capire che ho in mano ben altro”. Se il ritrovamento è stato effettuato per caso e in epoca relativamente remota, il 1993, l’eventuale ricatto sembra inoffensivo.
"La teoria del ricatto ha nuovo impulso con gli arresti dei cinque ex manager di Gemina, il direttore generale Vitali e i quattro responsabili del settore finanziario, Scheneeberg, Latini, Riccardi e Alberto Ronzoni, direttore generale della Ratealfactor, poi presidente di Gemina Capital Markets, ordinati il 9 ottobre 1996 dal giudice per le indagini preliminari di Milano Aurelio Barazzetta. A pagina 88 dell’ordinanza si parla di “potere ricattatorio” dei catturandi. Il giudice Barazzetta recepisce il punto di vista della Procura della Repubblica, che i cinque, in libertà, riuscissero a condizionare le attività della finanziaria anche dopo il licenziamento, esercitando un potere di ricatto. Anzi, condizionavano non soltanto Gemina ma anche i padroni di Gemina, Fiat e Mediobanca. Questa però è un'altra storia.
“Ci si chiede invece, senza risposta, come mai Gemina avesse l'esigenza di tenere delle carte nascoste. Nascoste non per incidente ma con applicazione. I nascondigli infatti erano almeno due. Uno nell'ufficio di Carolina Corradi, dirigente di tesoreria, al terzo piano, in un’intercapedine sotto il pavimento. L’altro, al quarto piano, era nella sala operativa di Gemina, sempre in un’intercapedine nel pavimento, fatta realizzare e utilizzata da Latini e Schneeberg, e non nascondeva “pochi fascicoli”, ma raccoglitori ordinati.
“La storia viene collegata alla pratica di distruggere materialmente le disposizioni per la creazione di fondi neri attraverso finte speculazioni, attestata nel rapporto Kpmg Fides da un personaggio poi individuato nella stessa Corradi. “L'ordine era di distruggere tali disposizioni”, dirà Carolina Corradi ai magistrati inquirenti, “e anche le varie annotazioni e\o appunti. Pertanto si provvedeva alla immediata triturazione di questi documenti”. La pratica è consueta in ogni azienda, ed è perfino normale per molti documenti, ma non lo è più se si tratta di documenti contabili: come minimo lascia supporre che si tratti di contabilità parallela.
Una testimonianza parla di 70 mila operazioni “riservate” messe in essere da Gemina, repertoriate in otto dischetti di memoria. Questo sembra troppo: è come dire che tutta l’attività di Gemina era “parallela”, poiché circa 70 mila erano le operazioni all’estero di Gemina su cui Kpmg Fides doveva confrontarsi prima di restringere l'obiettivo su 22 di esse. Ma le operazioni “anomale”, se non sono la normalità, sono di più di quelle contestate. E come Gemina ha sicuramente operato la Rcs, sostiene il “Corriere della sera”: “Dai documenti sequestrati a un dirigente del gruppo fermato dalla Guardia di finanza al valico di Chiasso”, scrive il quotidiano a fine novembre 1995, “i magistrati ritengono di poter ricostruire uno spaccato dei sistemi paralleli adottati nella Rizzoli Libri & Grandi Opere”. Sistemi paralleli di contabilità, cioè fondi neri”.
Ciononostante gli stessi magistrati procederanno a una rapida archiviazione, senza alcun atto istruttorio: né questo né altri elementi probanti sono stati sufficienti alla Procura di Milano per indagare sulla casa editrice. Se non, come dice il giudice Barazzetta, per proteggerla da manager vendicativi. E non è tutto. Sempre da “Mediobanca Editore” estraiamo un altro fatto-che-non-costituisce-prova per i giudici di Milano:
“Qualche curiosità c’è stata attorno alla Rcs Finance, la controllata lussemburghese della Rcs Editori, il cui oggetto sociale dice tutto e niente. Anche la finanziaria viene scaricata nel 1995. A giugno se ne abbatte il capitale, facendo rientrare alla casa madre il fondo sovrapprezzo azioni e utili non distribuiti per 280 miliardi. Ad agosto, “venuti meno gran parte dei presupposti strategici che ne orientavano la gestione”, scrivono Ronchey e Calabi nella semestrale 1995, Rcs Finance è messa in liquidazione. Che ci faceva una finanziaria lussemburghese così lautamente capitalizzata? Non ha rilievo fiscale, per un minor costo della gestione di tesoreria, perché in questo caso il rapporto dovrebbe essere rovesciato: la Rcs Finance avere funzione di holding e non di controllata. È dunque una “cassa armonica”. Ma non una piccola cosa, poiché gestisce mezzi pari al 10 per cento del fatturato annuo del gruppo, due-tre volte il suo cash-flow.
"Anche sulla Rcs Finance indaga la magistratura. L’ipotesi di reato è che la funzione di cassa armonica consistesse nel drenare la liquidità Rcs attraverso aumenti di capitale con sovrapprezzo azioni, e che solo parte degli interessi maturati con il fondo sovrapprezzo azioni venisse destinata a utile - peraltro non distribuito e quindi generatore di altri interessi. Se così fosse si sarebbe realizzato una sorta di moto perpetuo di Nerolandia. Le tracce si perdono, del resto, nei bilanci, dei 280 miliardi di liquidità di Rcs Finance al momento della liquidazione. Forse finiscono alla Gemina Europe Bank, sempre del Lussemburgo, che nella trattativa per la vendita, trascinatasi inutilmente per tutto il 1996, è risultata detenere depositi e titoli di Rcs e Gemina per 350 milioni di Ecu, 700 miliardi di lire".
L’enorme liquidità accumulata extra bilancio tra Rcs Finance e Gemina Capital Markets avrebbe sicuramente costituito un fertile campo d’indagine. Ma le indagini non furono fatte, nessuna rogatoria esperita, nessun controllo della Guardia di Finanza. Anzi la Procura chiese l’archiviazione sollecitamente, appena tre anni dopo.
2. continua
“Un’ultima pista è la contabilità riservata, e riguarda Gemina. La traccia emerge a fine giugno 1996, quando si viene a sapere che Gemina teneva dei documenti in un nascondiglio che la Guardia di finanza ha scoperto, un vano ricavato sotto il pavimento. Subito l’amministratore delegato Sabatini precisa, all’assemblea del 29 giugno, che non c’è un nascondiglio e non c’è una contabilità occulta: “Nel 1993, durante lavori di manutenzione, alcuni operai reperirono in un’intercapedine due gruppi di fascicoli che vennero consegnati al dirigente di allora, il quale, a sua volta, li fece esaminare da un funzionario. All’esame fatto all’epoca non si ritenne trattarsi di materiale di particolare rilievo”. La Guardia di finanza si sarebbe limitata a sequestrare quei fascicoli.
“Ma la spiegazione di Sabatini non convince. Né convince l'ipotesi subordinata fatta circolare dalla stessa Gemina, che qualche dirigente sleale avesse tentato un ricatto alla società col sistema delle “carte Moro” (le carte del “processo” delle Brigate Rosse a Aldo Moro, che furono trovate in tempi e luoghi diversi, in redazioni diverse), come un avvertimento del tipo: “Questi documenti sono inoffensivi ma ti fanno capire che ho in mano ben altro”. Se il ritrovamento è stato effettuato per caso e in epoca relativamente remota, il 1993, l’eventuale ricatto sembra inoffensivo.
"La teoria del ricatto ha nuovo impulso con gli arresti dei cinque ex manager di Gemina, il direttore generale Vitali e i quattro responsabili del settore finanziario, Scheneeberg, Latini, Riccardi e Alberto Ronzoni, direttore generale della Ratealfactor, poi presidente di Gemina Capital Markets, ordinati il 9 ottobre 1996 dal giudice per le indagini preliminari di Milano Aurelio Barazzetta. A pagina 88 dell’ordinanza si parla di “potere ricattatorio” dei catturandi. Il giudice Barazzetta recepisce il punto di vista della Procura della Repubblica, che i cinque, in libertà, riuscissero a condizionare le attività della finanziaria anche dopo il licenziamento, esercitando un potere di ricatto. Anzi, condizionavano non soltanto Gemina ma anche i padroni di Gemina, Fiat e Mediobanca. Questa però è un'altra storia.
“Ci si chiede invece, senza risposta, come mai Gemina avesse l'esigenza di tenere delle carte nascoste. Nascoste non per incidente ma con applicazione. I nascondigli infatti erano almeno due. Uno nell'ufficio di Carolina Corradi, dirigente di tesoreria, al terzo piano, in un’intercapedine sotto il pavimento. L’altro, al quarto piano, era nella sala operativa di Gemina, sempre in un’intercapedine nel pavimento, fatta realizzare e utilizzata da Latini e Schneeberg, e non nascondeva “pochi fascicoli”, ma raccoglitori ordinati.
“La storia viene collegata alla pratica di distruggere materialmente le disposizioni per la creazione di fondi neri attraverso finte speculazioni, attestata nel rapporto Kpmg Fides da un personaggio poi individuato nella stessa Corradi. “L'ordine era di distruggere tali disposizioni”, dirà Carolina Corradi ai magistrati inquirenti, “e anche le varie annotazioni e\o appunti. Pertanto si provvedeva alla immediata triturazione di questi documenti”. La pratica è consueta in ogni azienda, ed è perfino normale per molti documenti, ma non lo è più se si tratta di documenti contabili: come minimo lascia supporre che si tratti di contabilità parallela.
Una testimonianza parla di 70 mila operazioni “riservate” messe in essere da Gemina, repertoriate in otto dischetti di memoria. Questo sembra troppo: è come dire che tutta l’attività di Gemina era “parallela”, poiché circa 70 mila erano le operazioni all’estero di Gemina su cui Kpmg Fides doveva confrontarsi prima di restringere l'obiettivo su 22 di esse. Ma le operazioni “anomale”, se non sono la normalità, sono di più di quelle contestate. E come Gemina ha sicuramente operato la Rcs, sostiene il “Corriere della sera”: “Dai documenti sequestrati a un dirigente del gruppo fermato dalla Guardia di finanza al valico di Chiasso”, scrive il quotidiano a fine novembre 1995, “i magistrati ritengono di poter ricostruire uno spaccato dei sistemi paralleli adottati nella Rizzoli Libri & Grandi Opere”. Sistemi paralleli di contabilità, cioè fondi neri”.
Ciononostante gli stessi magistrati procederanno a una rapida archiviazione, senza alcun atto istruttorio: né questo né altri elementi probanti sono stati sufficienti alla Procura di Milano per indagare sulla casa editrice. Se non, come dice il giudice Barazzetta, per proteggerla da manager vendicativi. E non è tutto. Sempre da “Mediobanca Editore” estraiamo un altro fatto-che-non-costituisce-prova per i giudici di Milano:
“Qualche curiosità c’è stata attorno alla Rcs Finance, la controllata lussemburghese della Rcs Editori, il cui oggetto sociale dice tutto e niente. Anche la finanziaria viene scaricata nel 1995. A giugno se ne abbatte il capitale, facendo rientrare alla casa madre il fondo sovrapprezzo azioni e utili non distribuiti per 280 miliardi. Ad agosto, “venuti meno gran parte dei presupposti strategici che ne orientavano la gestione”, scrivono Ronchey e Calabi nella semestrale 1995, Rcs Finance è messa in liquidazione. Che ci faceva una finanziaria lussemburghese così lautamente capitalizzata? Non ha rilievo fiscale, per un minor costo della gestione di tesoreria, perché in questo caso il rapporto dovrebbe essere rovesciato: la Rcs Finance avere funzione di holding e non di controllata. È dunque una “cassa armonica”. Ma non una piccola cosa, poiché gestisce mezzi pari al 10 per cento del fatturato annuo del gruppo, due-tre volte il suo cash-flow.
"Anche sulla Rcs Finance indaga la magistratura. L’ipotesi di reato è che la funzione di cassa armonica consistesse nel drenare la liquidità Rcs attraverso aumenti di capitale con sovrapprezzo azioni, e che solo parte degli interessi maturati con il fondo sovrapprezzo azioni venisse destinata a utile - peraltro non distribuito e quindi generatore di altri interessi. Se così fosse si sarebbe realizzato una sorta di moto perpetuo di Nerolandia. Le tracce si perdono, del resto, nei bilanci, dei 280 miliardi di liquidità di Rcs Finance al momento della liquidazione. Forse finiscono alla Gemina Europe Bank, sempre del Lussemburgo, che nella trattativa per la vendita, trascinatasi inutilmente per tutto il 1996, è risultata detenere depositi e titoli di Rcs e Gemina per 350 milioni di Ecu, 700 miliardi di lire".
L’enorme liquidità accumulata extra bilancio tra Rcs Finance e Gemina Capital Markets avrebbe sicuramente costituito un fertile campo d’indagine. Ma le indagini non furono fatte, nessuna rogatoria esperita, nessun controllo della Guardia di Finanza. Anzi la Procura chiese l’archiviazione sollecitamente, appena tre anni dopo.
2. continua
Le filosofe dissolvono la Nazione
Tradotto in francese “L’Etat global”, ha come titolo originale “Who sings the Nation-State?”, un po’ spregiativo, del genere “chi se ne frega dello Stato-Nazione”. Butler e Spivak, specialiste di letteratura comparata (una specialità di cui in precedenza Spivak aveva decretato paradossalmente la morte, ma forse voleva dire la rifondazione) a Berkeley e alla Columbia di New York, discutono allegramente in seminario il breve saggio del 1951 di Hannah Arendt “Il declino dello Stato nazione e la fine dei diritti dell’uomo”, in parallelo con le politiche attive degli anni 1930 e successivi di apatridia, di privazione della cittadinanza. Butler, californiana e quindi bilingue, che i latini sans papiers vorrebbe al governo in Usa, rileva “un ethos antidemocratico in Arendt”, che la libertà considera non “una capacità naturale” ma piuttosto un esercizio. E quindi in Agamben, che, in "deriva schmittiana", ipotizzerebbe una impossibile “vita nuda” al di fuori della politica. Entrambe valutano poco il neo costituzionalismo di Habermas, dell’Unione europea come “democrazia cosmopolita”. Ma poi Spivak, la post-neo-marxista benemerita del concetto gramsciano di “classe subalterna”, si abbandona a tante habermasiane comunità di lingua, storia e sangue, insomma geopolitiche (sulle quali ha pubblicato nel 2008 un libro, “Other Asias”): la Cina, con Taiwan, l’Indonesia e l’ex Indocina “sono una regione”, l’India e il Pakistan, con Sri Lanka, Bangladesh, Sikkim e Nepal fanno l’Asia del Sud, etc.. Pezzo forte è l’Asia dell’Ovest: l’Iran con il Caucaso e il Transcaucaso: Georgia, Armenia, Azerbaigian e Cecenia... Un partecipante al seminario giustamente pone a questo punto la cruciale questione: sì, ma come conciliare confucianesimo e buddismo?
Il contributo più notevole sarà la citazione di Simon Gikandi, un altro letterato, specialista di letteratura caraibica, professore a Princeton d'inglese: Gikandi ha capito, dice Spivak, che "il genocidio si fonda spesso su dei racconti", e che "l'idea mitopoietica della storia ha un potenziale distruttivo" - ma non anche uno costruttivo, come sa chi he letto Erodoto, oltre che la Bibbia (il problema, s'intuisce, è che Israele bastona i palestinesi nel nome dei racconti biblici)? "Un'idea mitopoietica della storia, è dove la storia si sta facendo", conclude Spivak, e si vede che, pur indiana, conosce poco l'Asia. la durezza dell'Asia.
Resta da accertare se il cosmopolitismo potrà portare a una democrazia globale. Ma questo lo hanno già discusso seriamente Habermas e Derrida.
Butler, Judith e Spivak Gayatri C., Che fine ha fatto lo Stato-nazione? , Meltemi, pp. 93, € 13
Il contributo più notevole sarà la citazione di Simon Gikandi, un altro letterato, specialista di letteratura caraibica, professore a Princeton d'inglese: Gikandi ha capito, dice Spivak, che "il genocidio si fonda spesso su dei racconti", e che "l'idea mitopoietica della storia ha un potenziale distruttivo" - ma non anche uno costruttivo, come sa chi he letto Erodoto, oltre che la Bibbia (il problema, s'intuisce, è che Israele bastona i palestinesi nel nome dei racconti biblici)? "Un'idea mitopoietica della storia, è dove la storia si sta facendo", conclude Spivak, e si vede che, pur indiana, conosce poco l'Asia. la durezza dell'Asia.
Resta da accertare se il cosmopolitismo potrà portare a una democrazia globale. Ma questo lo hanno già discusso seriamente Habermas e Derrida.
Butler, Judith e Spivak Gayatri C., Che fine ha fatto lo Stato-nazione? , Meltemi, pp. 93, € 13
domenica 24 gennaio 2010
Le tangenti sui film Rcs non erano reato
C’è un precedente alla costituzione di fondi neri con l’acquisto di film in America. Un precedente enorme, che può aver ispirato il procuratore De Pasquale contro Berlusconi e famiglia. Ma finito con un’archiviazione, chiesta dalla Procura. Nella pur tempestosa stagione di Mani Pulite. Di fronte al gip Aurelio Barazzetta, e al suo più famoso collega, il giudice giudicante più famoso di Mani Pulite, Giuseppe Tarantola. A opera di Carlo Nocerino, tardo entrante nel pool giacobino di Milano, ma esperto di bilanci (ha istruito e gestisce l’accusa al processo contro Tanzi per la Parmalat). Per i buoni uffici di Pier Giusto Jaeger, avvocato, giurista e persona per bene, tanto per bene che fece abbuonare da Nocerino alla Rcs 1.300 miliardi di soldi scomparsi in un viluppo di pratiche illegali, acclarate come tali e non contestate dai colpevoli. Nocerino, il “sostituto procuratore col ciuffo alla Elvis Presley” (Cinzia Sasso di “Repubblica”), spartiva evidentemente la filosofia del procuratore anziano col quale collaborava, Francesco Greco, che nel febbraio 1997 si candiderà alla guida della Consob: “Nei confronti delle aziende abbiamo sempre agito con la massima attenzione, anzitutto partendo dal principio che la responsabilità penale è personale”. In questa ottica lo stesso dottor Nocerino ha tirato fuori a settembre del 2007 i Moratti dal falso in bilancio della loro azienda Saras in occasione del collocamento in Borsa, disponendo un rinvio a giudizio per un ignoto vice presidente.
I fatti del caso Rcs sono narrati in Giuseppe Leuzzi, “Mediobanca Editore”, un libro del 1997 ancora reperibile. L’archiviazione disposta da Nocerino è del 1999, senza nessuna indagine di polizia giudiziaria, e malgrado i revisori dei conti avessero accertato, non contestati, varie pratiche illegali, per alcune diecine di miliardi, solo spulciando le carte fornite dall’azienda, una minima parte di esse: manager e autori pagati in nero in Svizzera, fondi neri creati alle Bahamas, acquisti incauti a prezzi folli appunto di film in America, e il travaso di fondi da Rcs alla Fabbri Editore, che Furio Colombo, il futuro direttore dell’“Unità”, presiedeva per conto della famiglia Agnelli. Il giudice Tarantola, quello del tangentone Enimont, vide la vicenda sbriciolarglisi da lontano: era passato al civile, dove il giudizio di responsabilità, aperto con fascicoli di fuoco di ognuno degli ex manager contro gli altri manager (uno dei più infuocati era Cobolli Gigli, il futuro presidente della Juventus di serie B), si squagliò con l’archiviazione in sede penale, nessuno più chiese i danni a nessuno.
Del colossale ammanco, accumulatosi nell’arco di tre-quattro anni, dopo il passaggio della Rizzoli-Corriere della sera nell’orbita di Mediobanca-Gemina e degli Agnelli-Ifi, la cifra più cospicua era stata trasferita dalla Rizzoli-Corriere della Sera alla Fabbri Editore e cioè all’Ifi, agli Agnelli. La seconda più cospicua era quella del comparto film-video, sotto l’avventurosa gestione di Luca Cordero di Montezemolo: 250 miliardi di lire, scomparsi quasi tutti. Fu Claudio Calabi, un direttore generale nominato alla Rcs da Mediobanca, e far emergere il 15 marzo 1995 il primo “buco”, 447 miliardi. All’assemblea del 23 giugno Raffaele Fiengo, del sindacato dei giornalisti del “Corriere della sera”, chiede di fare luce sull’acquisto della Fabbri Editore dall’Ifi e sull’acquisto della Carolco, una dissestata casa di produzione cinematografica americana. Il 6 agosto la Consob denuncia Gemina e Rcs alla Procura. Calabi cambiò i revisori dei conti: alle incriminate Arthur Andersen e Cooper & Lybrand sostituì prima Reconta Ernst & Young, quindi Kpmg Fides di Lugano. Altri 276 miliardi spariscono il 26 settembre. Due mesi dopo ne spariscono ancora 307, e a fine anno altri 145 – in tutto 1.175 miliardi, ma il conto finale sarà di 1.300.
Kpmg, analizzando appena una ventina di documenti, tutti forniti peraltro dalla Rcs, inorridisce, e il 9 febbraio 1996 si cautela. Denunciando in un rapporto preliminare una serie di reati e aggiungendo: “Tenuto conto delle limitazioni, altre eventuali operazioni con parti correlate, operazioni anomale o fatti censurabili, potrebbero esistere e non essere evidenziate nella nostra relazione”. Per “parti correlate” s’intendono i proprietari, i manager, i controllori contabili, i consulenti di un’azienda. Le “operazioni anomale” sono una diecina di artifici (operazioni a rischio “precostituite”) per creare disponibilità extra-bilancio, cioè fondi neri.
continua
I fatti del caso Rcs sono narrati in Giuseppe Leuzzi, “Mediobanca Editore”, un libro del 1997 ancora reperibile. L’archiviazione disposta da Nocerino è del 1999, senza nessuna indagine di polizia giudiziaria, e malgrado i revisori dei conti avessero accertato, non contestati, varie pratiche illegali, per alcune diecine di miliardi, solo spulciando le carte fornite dall’azienda, una minima parte di esse: manager e autori pagati in nero in Svizzera, fondi neri creati alle Bahamas, acquisti incauti a prezzi folli appunto di film in America, e il travaso di fondi da Rcs alla Fabbri Editore, che Furio Colombo, il futuro direttore dell’“Unità”, presiedeva per conto della famiglia Agnelli. Il giudice Tarantola, quello del tangentone Enimont, vide la vicenda sbriciolarglisi da lontano: era passato al civile, dove il giudizio di responsabilità, aperto con fascicoli di fuoco di ognuno degli ex manager contro gli altri manager (uno dei più infuocati era Cobolli Gigli, il futuro presidente della Juventus di serie B), si squagliò con l’archiviazione in sede penale, nessuno più chiese i danni a nessuno.
Del colossale ammanco, accumulatosi nell’arco di tre-quattro anni, dopo il passaggio della Rizzoli-Corriere della sera nell’orbita di Mediobanca-Gemina e degli Agnelli-Ifi, la cifra più cospicua era stata trasferita dalla Rizzoli-Corriere della Sera alla Fabbri Editore e cioè all’Ifi, agli Agnelli. La seconda più cospicua era quella del comparto film-video, sotto l’avventurosa gestione di Luca Cordero di Montezemolo: 250 miliardi di lire, scomparsi quasi tutti. Fu Claudio Calabi, un direttore generale nominato alla Rcs da Mediobanca, e far emergere il 15 marzo 1995 il primo “buco”, 447 miliardi. All’assemblea del 23 giugno Raffaele Fiengo, del sindacato dei giornalisti del “Corriere della sera”, chiede di fare luce sull’acquisto della Fabbri Editore dall’Ifi e sull’acquisto della Carolco, una dissestata casa di produzione cinematografica americana. Il 6 agosto la Consob denuncia Gemina e Rcs alla Procura. Calabi cambiò i revisori dei conti: alle incriminate Arthur Andersen e Cooper & Lybrand sostituì prima Reconta Ernst & Young, quindi Kpmg Fides di Lugano. Altri 276 miliardi spariscono il 26 settembre. Due mesi dopo ne spariscono ancora 307, e a fine anno altri 145 – in tutto 1.175 miliardi, ma il conto finale sarà di 1.300.
Kpmg, analizzando appena una ventina di documenti, tutti forniti peraltro dalla Rcs, inorridisce, e il 9 febbraio 1996 si cautela. Denunciando in un rapporto preliminare una serie di reati e aggiungendo: “Tenuto conto delle limitazioni, altre eventuali operazioni con parti correlate, operazioni anomale o fatti censurabili, potrebbero esistere e non essere evidenziate nella nostra relazione”. Per “parti correlate” s’intendono i proprietari, i manager, i controllori contabili, i consulenti di un’azienda. Le “operazioni anomale” sono una diecina di artifici (operazioni a rischio “precostituite”) per creare disponibilità extra-bilancio, cioè fondi neri.
continua
Diavolo d'un Berlusconi, ruba a se stesso
Il Pm De Pasquale, famoso per avere anticipato le ferie nel 1993 nella natia Messina per non interrogare il presidente dell’Eni Cagliari, che teneva in carcere da quattro mesi, poi suicida nell’afa di luglio a san Vittore, ci riprova da tempo con Berlusconi. Ora gli addebita tangenti sulla sua stessa azienda. Che è quotata in Borsa, quindi soggetta a vari controlli, ha soci importanti, che sanno leggere i bilanci e hanno conoscenze in ogni pizzo, e non addomesticati, non è gente che si faccia fregare. Utilizzando un testimone che dice una cosa e anche l’altra.
Delle tangenti ha colpa, dice il dottor De Pasquale, anche il figlio di Berlusconi - il figlio maschio, non la femmina. E' il codice del sangue, ma si può dire senza offesa anche del Sud, cui l’indefesso procuratore si attiene fedele, la colpa va di padre in figlio, benché lavori nella civilissima Milano.
E tuttavia uno è contento: ci sono persone, i giudici, che non si suicidano mai. Ma perché sono troppo intelligenti o troppo stupidi? Il giudice De Pasquale si vede nelle foto un po’ ingrassato e sempre rilassato: è uno a cui non gliene potrebbe fregare di meno. E anche questo va bene, uno è contento per loro: si diventa giudici con un solo sforzo, imparare i codici a memoria, dopodichè è una vita ricca di ozio, in un ruolo onorabile, con la carriera a cieli aperti.
L’unico problema è questo: perché i giudici di Milano, che da vent’anni non fanno altro che inquisire e processare Berlusconi, non lo azzannano là dove è sicuramente debole? Si perdono in stravaganze: traffico di stupefacenti, mafia, bombe (su queste per la verità si esercitano a Palermo, è proprio una bella concorrenza), e ora di rubare a se stesso.
Anzi, i problemi sono due: nessuno crede a De Pasquale. Ma la sinistra ufficiale fa mostra di credergli: “l’Unità”, “la Repubblica”, e alcuni franceschiniani. Per chi gioca questa sinistra? Si può anche presumere che il dottor De Pasquale, nella sua indifferenza, voglia favorire le leggi eccezionali sulla giustizia, ma come si fa a saperlo?
Delle tangenti ha colpa, dice il dottor De Pasquale, anche il figlio di Berlusconi - il figlio maschio, non la femmina. E' il codice del sangue, ma si può dire senza offesa anche del Sud, cui l’indefesso procuratore si attiene fedele, la colpa va di padre in figlio, benché lavori nella civilissima Milano.
E tuttavia uno è contento: ci sono persone, i giudici, che non si suicidano mai. Ma perché sono troppo intelligenti o troppo stupidi? Il giudice De Pasquale si vede nelle foto un po’ ingrassato e sempre rilassato: è uno a cui non gliene potrebbe fregare di meno. E anche questo va bene, uno è contento per loro: si diventa giudici con un solo sforzo, imparare i codici a memoria, dopodichè è una vita ricca di ozio, in un ruolo onorabile, con la carriera a cieli aperti.
L’unico problema è questo: perché i giudici di Milano, che da vent’anni non fanno altro che inquisire e processare Berlusconi, non lo azzannano là dove è sicuramente debole? Si perdono in stravaganze: traffico di stupefacenti, mafia, bombe (su queste per la verità si esercitano a Palermo, è proprio una bella concorrenza), e ora di rubare a se stesso.
Anzi, i problemi sono due: nessuno crede a De Pasquale. Ma la sinistra ufficiale fa mostra di credergli: “l’Unità”, “la Repubblica”, e alcuni franceschiniani. Per chi gioca questa sinistra? Si può anche presumere che il dottor De Pasquale, nella sua indifferenza, voglia favorire le leggi eccezionali sulla giustizia, ma come si fa a saperlo?
Il Ritorno come nuovo Esilio
Pubblicate da Scholem ad arricchimento della vicenda e la personalità di Walter Benjamin, queste lettere sono invece utili per la comprensione di Israele, della rinascita ebraica. La loro novità è come e perché uno come Benjamin (o A.Zweig, o Else Laser-Schuler), colto, europeo, non poteva vivere in Palestina. “La problematicità di un rinnovamento che appare soprattutto come decadenza linguistica e hybris”: declino, disperazione, depressione sono alla fine del Ritorno – più dell’esilio a Parigi e dello spossessamento politico, di Benjamin come di Joseph Roth o Hannah Arendt. Del Ritorno come nuovo Esilio. È il dilemma dell’identità, con cui gli ebrei si sono confrontati dopo il sionismo, poi realizzatosi in Israele. Attenuato (fading) dal culto dell’Olocausto e alla rinascita della cultura ebraica, ma non dissolto.
W.Benjamin-G.Scholem, Teologia e utopia
W.Benjamin-G.Scholem, Teologia e utopia