Un Tribunale a Milano lavora il sabato per dire che processerà Berlusconi per la mazzetta a Mills. Dunque non è vero che i giudici sono sfaticati, lavorano anche il sabato.
Il processo lo farà poi in estate. Ma dà un altro appuntamento per parlare di Berlusconi, il 26 marzo. Che non è di sabato, è un venerdì. Ma la domenica dopo si vota.
Berlusconi, non richiesto, pronuncia una filippica contro i giudici talebani. Ne ha più di un motivo ma poi non fa nulla contro la giustizia politica. Sono dieci anni che pronuncia fatwa e poi non si muove. Non sarà che è un talebano anche lui?
Il “Corriere della sera” si accorge finalmente che “i commenti del “Financial Times” e soprattutto del “Wall Street Journal” danno per scontato il fallimento dell’euro”. Ma il commentatore, il professor Giavazzi, ne fa una rivincita dell’America sull’Europa. Non, come tutti sanno, una speculazione contro l’euro, che ha già procurato lauti guadagni, e potrebbe moltiplicarli se la Grecia decidesse di lasciare l'euro.
Né il vigile professore tocca naturalmente il legame tra i giornali finanziari e la finanza. Che sarebbero incestuosi qualora i giornali riflettessero l’opinione pubblica e non interessi aziendali.
Per quali motivi specifici, di tecnica finanziaria, di razionalità dei mercati, l’euro dovrebbe fallire? Una moneta che semmai è troppo rigidamente accudita. Specie al confronto con le politiche monetarie avventurose e lassiste delle banche e le banche centrali degli Usa e della Gran Bretagna, alle banche asservite, letteralmente.
Il giornale “Torino Cronaca” s’inventa che Buffon ha fatto a cazzotti con Amauri perché il brasiliano insidiava la compagna e madre dei suoi figli Alena Seredova. L’ex pretore Casalbore, giudice al Tribunale, ha condannato la Juventus per un doping che, dice in sentenza, non c’è stato. Sulla base di un’istruttoria faraonica e molto mediatica dell’ex pretore sostituto Procuratore Guariniello. Torino abbatte così, per masochismo, la Juventus, l’ultimo simbolo italiano che le è rimasto. Non si può dire per fede torinista, poiché Guariniello è napoletano. L’Italia è ormai solo un punching-ball?
Di Guariniello la sindrome è più certa: è napoletano, si diverte.
Susanna Tamaro dà sul “Corriere della sera” numerosi esempi d’intercettazioni indebite e di cause mediatiche che hanno distrutto innocenti. Ma poi dice che questo è il paese: l’Italia è marcia. Non i giudici, non i carabinieri, non i giornali. Non la Rai, dove, quando lavorava, doveva giornalmente difendersi da stupri e ricatti.
Ma Susanna Tamaro, certo, è il paese: tutti gli italiani ritengono che tutti (gli altri) italiani sono marci. Il senso morale è molto forte nel paese.
“Ho lavorato negli anni Ottanta alla Rai e posso dire di averne viste davvero di tutti i colori”, scrive Susanna Tamaro sul “Corriere della sera” ieri: “E sebbene io, nel mio modo di pormi, sia più simile a un’atleta di una squadra cecoslovacca di slittino che a una escort, ho sempre dovuto difendermi dagli assalti, dalle proposte oscene, dall’invito a condividere la camera in albergo durante le trasferte. In quegli anni venivano assunte decine di amanti con contratti a termine e si producevano programmi mai mandati in onda, data la scarsità del risultato”.
Non può essere vero, ma è verosimile: il Raiume è immarcescibile tanto è marcio.
Il “New York Times” in due argomentati articoli, fatti indagare da un gruppo di giornalisti, chiama in causa Goldman Sachs e JP Morgan nella duplice veste di inventori della finanza creativa nei conti pubblici della Grecia e di altri paesi europei, e insieme di speculatori contro la tenuta dei conti degli stessi paesi. Per lucrare sugli stessi swaps che esse vendono e sul cambio dell’euro.
Echi svogliati se ne hanno in Italia, che è uno dei paesi dove le due banche più hanno lucrato. Quando Draghi era direttore generale del Tesoro, che poi è diventato dirigente di Goldman Sachs.
Bertolaso spiega al parlamentino di “Ballarò” che al Parlamento nazionale il partito Democratico ha proposto, e una parte del Pdl ha votato, il mantenimento dell’arbitrato negli appalti. L’arbitrato è il meccanismo della corruzione: l’impresa si aggiudica un appalto al ribasso, e subito dopo, dopo avere incassato il primo rateo per l’avvio dei lavori, fa causa alla P.A. per ottenere un rialzo. Normalmente in ogni appalto se ne fanno due o tre, di arbitrati. Nell’attesa dei quali l’impresa si occupa di mettere qualche mattone in altri lavori, e può così gestire l’infinità di appalti che altrimenti non potrebbe prendere. Trascinando le opere da due a dieci e da cinque a venti anni. Normalmente la P.A. perde gli arbitrati, con le spese legali.
Se non fosse stato per Bertolaso la cosa non si sarebbe saputa. Ma anche dopo “Ballarò” nessuno ne fa uno scandalo, in nessun giornale. Tutti corrotti? No, è sempre “il Partito ha sempre ragione”.
Il giudice che ha lavorato in Puglia contro Vendola, senza peraltro ottenerne un’incriminazione, si candida alle elezioni, contro Vendola. Il Csm lo autorizza, contro la legge. Il vice-capo del Csm, Mancino, critica la decisione del Csm ma resta al suo posto. E il presidente Napolitano, che presiede il Csm?
Non è un giudice di destra - si sa che la destra è profittatrice e cattiva. Il giudice è di sinistra.
sabato 27 febbraio 2010
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (54)
Giuseppe Leuzzi
Chi è onesto e rispetta le leggi al Sud è “incensurato”, nella sociologia da caserma. In attesa cioè di essere “censurato”.
In Sicilia il 92 per cento della popolazione vive a rischio terremoto, in Calabria il 61 per cento, a Napoli-Caserta il 60. Che le origini della mafia siano geologiche?
Milano
“Quel signore piccolo piccolo” dice l’allenatore Mourinho del presidente del Napoli De Laurentiis, senza nominarlo, con disprezzo. Chissà, forse si parla così in portoghese. Ma a Londra Mourinho non avrebbe potuto dirlo di un qualsiasi presidente. A Milano invece sì, nessuno glielo rimprovera. Perché De Laurentiis è napoletano.
Nel giorno della rivolta degli immigrati di Milano contro Milano, Sveva Casati Modigliani è angosciata perché sul suo tram l’annuncio registrato della fermata suona “Padova-Loredo”A un giornalista spiega: “Proprio così, «Loredo». S’immagini per un milanese sentire storpiare il nome di piazzale Loreto!”. Il nome della scrittrice è pseudonimo. Ma Milano si nasconde male.
Le riforme in successione dell’università e della scuola. Con cinque o sei statuti diversi in vigore. Un segno di profonda insipienza. E di menefreghismo: dove non ci sono soldi il lombardo non è più efficiente.
Dove comincia la ricchezza dei Lombardi? Erano i longobardi mercanti più che guerrieri?
Erano Terragni al Sud, a Benevento, nel salernitano.
Dopo la guerra per molti anni si vedevano nei mercati con la cassetta a tracolla, longobardi di Germania per lo più, con mutilazioni vere o presunte, che vendevano la buona sorte col pappagallino, o unguenti miracolosi e lame di Solingen.
Aveva Spadolini, aveva Craxi. L’uno l’ha abbandonato, l’altro l’ha distrutto, con ferocia, se avesse potuto l’avrebbe appeso a piazzale Loreto. E ci ha dato Bossi e Berlusconi. E Borrelli.
Che male abbiamo fatto? Mai la Repubblica è stata spinta tanto indietro, tanto fuori dalla modernità e dal mondo, dal passo europeo.
Da Manzoni alla letteratura Feltrinelli e agli alternativi surgelati Einaudi, solo frasi costruite: forme vuote, niente storie, niente personaggi, niente sentimenti. Le ire di Gadda si devono camuffare di convolvoli. Con un piacere del testo ridotto all’ammicco al critico formalista, unico lettore, alla classificazione delle storie letterarie.
È la letteratura di una borghesia cava, vuota, che ritiene di avere qualche principio da sostenere ma non mette forza nelle mani, nessuna energia, nessun sudore. Dalla maggioranza silenziosa, ultimamente, al leghismo e a Berlusconi. Dice: questa è la letteratura industriale, mass market. No, anche i prosciutti sono industriali, anche i vini, ma sono saporiti. È il conformismo del denaro, del potere.
Come si può credere a Bossi stando a Varese, Brescia, a Milano Uno? Alla spacconeria, l’insensatezza, l’aggressività? È la sagra della piccola borghesia, quella che una volta definiva la stupidità sociale. L’equivalente ha prodotto a Reggio Calabria una rivolta di cui la città porta ancora i segni, tanti schiaffoni ha ricevuto. Tra Lombardia e Venezie ha ricavato il dieci per cento del voto alle elezioni europee, il terzo partito nazionale.
Mafia
Massimo Ciancimino non si pente perché è in attesa di rientrare nell'immenso patrimonio paterno, tutto mafioso, quando fra pochi mesi avrà finito la condanna in cui è incappato con i commercialisti. Ma si diverte a fare il pentito, contro i carabinieri, contro ex gentiluomini Dc, e contro Berlusconi e Dell’Utri. Nei tribunali, nei migliori giornali, e alla Rai. È la terza via dell’antimafia, tra i pentiti pensionati e i mafiosi confiscati: non pentirsi ma professare “profonda fiducia” nei giudici. Avremo anche i “giudici della mafia”, oltre che l’immondo raiume, il pattume dell’informazione.
Tutto quello che questo Ciancimino dice da due anni a questa parte – senza essere un pentito – dovrebbe essere usato contro di lui, per mafia, in associazione con Provenzano, Riina, eccetera. Per delitto di mafia personale, non quale tramite del padre. Ciò è più che evidente: è provato dallo stesso Ciancimino. E invece no, quest’uomo è un pubblico ministero.
Non è un errore, e non è un’irritualità, come dicono i giudici-sceriffi. Non è nemmeno l’incapacità di un singolo giudice, Ingroia o chi per lui. È mafia, nel senso pieno del termine. Protetta dalla struttura, la Procura, dal sindacato dei giudici, e dal Csm. Di cui è presidente Napolitano.
Massimo Ciancimino, il mafioso playboy, è esibito in tribunale contro il governo che fa gli arresti che per decenni sono stati omessi. E confisca - non più si sequestrano, lasciandoli in gestione ai criminali, si confiscano definitivamente - patrimoni miliardari, in euro. Dunque, la mafia si può battere. Ma questo non ci libera: con i Ciancimino, e con i giudici palermitani che li esibiscono, ci ritroveremo per l’eternità, all'inferno.
Ciancimino jr. non si nasconde, il suo ricatto è scoperto – un vero giudice, un vero carabiniere si sarebbe prima fatto dire dov’è il tesoro del padre, della mafia, che lui si vuole far riconoscere col “pentimento”. Ma a quale scopo dare ragione a Riina? È qui il vero “papello”.
- Mafioso? Che vuol dire mafioso? – Tutti i mafiosi lo dicono: si negano, e ha un senso.
Per il mafioso la mafia è arricchimento. È elevarsi, in genere, da una condizione umile. Contro chi ha già – i “poteri forti” di altra terminologia. Con l’unico mezzo che l’incultura, e talvolta la stupidità, lasciano, la violenza.
Nulla di diverso da ciò che tutti gli altri fanno, chi con più chi con minore fortuna. Non c’entrano le cupole e le alleanze, un mafioso difende il suo bene soprattutto dagli altri mafiosi. Nemmeno c’entra l’omertà, il mafioso più di tutti denuncia, calunnia, confida, anche contro i parenti stretti.
Un mafioso è essenzialmente un usuraio, senza capitale. È il tipico succiasangue, il mestiere da sempre più odiato. La favole dell’uomo d’onore e dell’onorata società è il tipico abbellimento che sempre l’usuraio ricco o potente, anche soltanto per la fama di cattivo, costruisce attorno ala sua infamante attività.
Provenzano, il capo dei capi, con un patrimonio di seicento milioni, o seicento miliardi, di euro, più tutti i cespiti segreti, se è vero che era confidente dei carabinieri, vive da bracciante. È un bracciante.
Bisognerebbe criticare e anzi abbattere – figurativamente certo - quelli che si approfittano della mafia. O creare un trademark: un’apposita Autorità del Sud sarebbe da creare, per monitorarne l’uso e tassarne con apposita royalty ogni uso improprio, a fini pubblicitari.
Per le elezioni del 2008 c’erano sui banchi della libreria Feltrinelli di Largo Argentina a Roma 57, o 59, libri contro Berlusconi. Una diecina li ho sfogliati. Nove di essi collegano Berlusconi alla mafia: si è arricchito, affermano citando innominabili pentiti, col riciclaggio dei soldi della mafia. Un pentito, un Di Carlo che ha avuto per questo l’ambita estradizione da Londra, afferma anche con i soldi della cocaina. C’è dunque chi crede che Berlusconi sia ricco, potente, e maggioritario perché spaccia cocaina. Tutto perché ha impiegato due siciliani, uno stalliere e Marcello Dell’Utri, abile venditore di pubblicità. A cui i loro compatrioti siciliani, giudici, giornalisti, scrittori, banchieri, non cesseranno di fargliela pagare – nessun siciliano è mai andato indenne alla vendetta. L’Autorità del Sud dovrebbe tassare Berlusconi. O gli editori dei libri contro Berlusconi.
La verità è che mafia gli fa un baffo, a Berlusconi, che non per nulla i mafiosi li mette dentro, al carcere duro, e gli confisca i patrimoni. Se ne fa tanto spreco solo per insultare il Sud, visto che le elezioni Berlusconi poi le vince.
La mafia come genere letterario è come i lazzari, che la storia di Napoli hanno infestato per un paio di secoli. Quante scemenze non sono state raccontate, a fini commerciali, da viaggiatori presunti, presunti testimoni. Croce, “Un paradiso abitato da diavoli”, alle pp. 93 segg. Ne dà ineffabili esempi.
La mafia che l’antimafia idealizza è la borghesia, in tutti i sensi. La borghesia italiana. In senso economico – alla pari di quella che vota Prodi per riavere i sussidi pubblici, sotto forma di tasse e contributi sociali. Sociale, alla pari della “società civile”, che esclude, la società chiusa. Culturale: è comune la mancanza d’idee, solo il padrinaggio conta. Legale: comune è la violenza, e perfino la criminalità, in tutte la manifestazioni della società, dal negoziante al presidente di Cassazione.
leuzzi@antiit.eu
Chi è onesto e rispetta le leggi al Sud è “incensurato”, nella sociologia da caserma. In attesa cioè di essere “censurato”.
In Sicilia il 92 per cento della popolazione vive a rischio terremoto, in Calabria il 61 per cento, a Napoli-Caserta il 60. Che le origini della mafia siano geologiche?
Milano
“Quel signore piccolo piccolo” dice l’allenatore Mourinho del presidente del Napoli De Laurentiis, senza nominarlo, con disprezzo. Chissà, forse si parla così in portoghese. Ma a Londra Mourinho non avrebbe potuto dirlo di un qualsiasi presidente. A Milano invece sì, nessuno glielo rimprovera. Perché De Laurentiis è napoletano.
Nel giorno della rivolta degli immigrati di Milano contro Milano, Sveva Casati Modigliani è angosciata perché sul suo tram l’annuncio registrato della fermata suona “Padova-Loredo”A un giornalista spiega: “Proprio così, «Loredo». S’immagini per un milanese sentire storpiare il nome di piazzale Loreto!”. Il nome della scrittrice è pseudonimo. Ma Milano si nasconde male.
Le riforme in successione dell’università e della scuola. Con cinque o sei statuti diversi in vigore. Un segno di profonda insipienza. E di menefreghismo: dove non ci sono soldi il lombardo non è più efficiente.
Dove comincia la ricchezza dei Lombardi? Erano i longobardi mercanti più che guerrieri?
Erano Terragni al Sud, a Benevento, nel salernitano.
Dopo la guerra per molti anni si vedevano nei mercati con la cassetta a tracolla, longobardi di Germania per lo più, con mutilazioni vere o presunte, che vendevano la buona sorte col pappagallino, o unguenti miracolosi e lame di Solingen.
Aveva Spadolini, aveva Craxi. L’uno l’ha abbandonato, l’altro l’ha distrutto, con ferocia, se avesse potuto l’avrebbe appeso a piazzale Loreto. E ci ha dato Bossi e Berlusconi. E Borrelli.
Che male abbiamo fatto? Mai la Repubblica è stata spinta tanto indietro, tanto fuori dalla modernità e dal mondo, dal passo europeo.
Da Manzoni alla letteratura Feltrinelli e agli alternativi surgelati Einaudi, solo frasi costruite: forme vuote, niente storie, niente personaggi, niente sentimenti. Le ire di Gadda si devono camuffare di convolvoli. Con un piacere del testo ridotto all’ammicco al critico formalista, unico lettore, alla classificazione delle storie letterarie.
È la letteratura di una borghesia cava, vuota, che ritiene di avere qualche principio da sostenere ma non mette forza nelle mani, nessuna energia, nessun sudore. Dalla maggioranza silenziosa, ultimamente, al leghismo e a Berlusconi. Dice: questa è la letteratura industriale, mass market. No, anche i prosciutti sono industriali, anche i vini, ma sono saporiti. È il conformismo del denaro, del potere.
Come si può credere a Bossi stando a Varese, Brescia, a Milano Uno? Alla spacconeria, l’insensatezza, l’aggressività? È la sagra della piccola borghesia, quella che una volta definiva la stupidità sociale. L’equivalente ha prodotto a Reggio Calabria una rivolta di cui la città porta ancora i segni, tanti schiaffoni ha ricevuto. Tra Lombardia e Venezie ha ricavato il dieci per cento del voto alle elezioni europee, il terzo partito nazionale.
Mafia
Massimo Ciancimino non si pente perché è in attesa di rientrare nell'immenso patrimonio paterno, tutto mafioso, quando fra pochi mesi avrà finito la condanna in cui è incappato con i commercialisti. Ma si diverte a fare il pentito, contro i carabinieri, contro ex gentiluomini Dc, e contro Berlusconi e Dell’Utri. Nei tribunali, nei migliori giornali, e alla Rai. È la terza via dell’antimafia, tra i pentiti pensionati e i mafiosi confiscati: non pentirsi ma professare “profonda fiducia” nei giudici. Avremo anche i “giudici della mafia”, oltre che l’immondo raiume, il pattume dell’informazione.
Tutto quello che questo Ciancimino dice da due anni a questa parte – senza essere un pentito – dovrebbe essere usato contro di lui, per mafia, in associazione con Provenzano, Riina, eccetera. Per delitto di mafia personale, non quale tramite del padre. Ciò è più che evidente: è provato dallo stesso Ciancimino. E invece no, quest’uomo è un pubblico ministero.
Non è un errore, e non è un’irritualità, come dicono i giudici-sceriffi. Non è nemmeno l’incapacità di un singolo giudice, Ingroia o chi per lui. È mafia, nel senso pieno del termine. Protetta dalla struttura, la Procura, dal sindacato dei giudici, e dal Csm. Di cui è presidente Napolitano.
Massimo Ciancimino, il mafioso playboy, è esibito in tribunale contro il governo che fa gli arresti che per decenni sono stati omessi. E confisca - non più si sequestrano, lasciandoli in gestione ai criminali, si confiscano definitivamente - patrimoni miliardari, in euro. Dunque, la mafia si può battere. Ma questo non ci libera: con i Ciancimino, e con i giudici palermitani che li esibiscono, ci ritroveremo per l’eternità, all'inferno.
Ciancimino jr. non si nasconde, il suo ricatto è scoperto – un vero giudice, un vero carabiniere si sarebbe prima fatto dire dov’è il tesoro del padre, della mafia, che lui si vuole far riconoscere col “pentimento”. Ma a quale scopo dare ragione a Riina? È qui il vero “papello”.
- Mafioso? Che vuol dire mafioso? – Tutti i mafiosi lo dicono: si negano, e ha un senso.
Per il mafioso la mafia è arricchimento. È elevarsi, in genere, da una condizione umile. Contro chi ha già – i “poteri forti” di altra terminologia. Con l’unico mezzo che l’incultura, e talvolta la stupidità, lasciano, la violenza.
Nulla di diverso da ciò che tutti gli altri fanno, chi con più chi con minore fortuna. Non c’entrano le cupole e le alleanze, un mafioso difende il suo bene soprattutto dagli altri mafiosi. Nemmeno c’entra l’omertà, il mafioso più di tutti denuncia, calunnia, confida, anche contro i parenti stretti.
Un mafioso è essenzialmente un usuraio, senza capitale. È il tipico succiasangue, il mestiere da sempre più odiato. La favole dell’uomo d’onore e dell’onorata società è il tipico abbellimento che sempre l’usuraio ricco o potente, anche soltanto per la fama di cattivo, costruisce attorno ala sua infamante attività.
Provenzano, il capo dei capi, con un patrimonio di seicento milioni, o seicento miliardi, di euro, più tutti i cespiti segreti, se è vero che era confidente dei carabinieri, vive da bracciante. È un bracciante.
Bisognerebbe criticare e anzi abbattere – figurativamente certo - quelli che si approfittano della mafia. O creare un trademark: un’apposita Autorità del Sud sarebbe da creare, per monitorarne l’uso e tassarne con apposita royalty ogni uso improprio, a fini pubblicitari.
Per le elezioni del 2008 c’erano sui banchi della libreria Feltrinelli di Largo Argentina a Roma 57, o 59, libri contro Berlusconi. Una diecina li ho sfogliati. Nove di essi collegano Berlusconi alla mafia: si è arricchito, affermano citando innominabili pentiti, col riciclaggio dei soldi della mafia. Un pentito, un Di Carlo che ha avuto per questo l’ambita estradizione da Londra, afferma anche con i soldi della cocaina. C’è dunque chi crede che Berlusconi sia ricco, potente, e maggioritario perché spaccia cocaina. Tutto perché ha impiegato due siciliani, uno stalliere e Marcello Dell’Utri, abile venditore di pubblicità. A cui i loro compatrioti siciliani, giudici, giornalisti, scrittori, banchieri, non cesseranno di fargliela pagare – nessun siciliano è mai andato indenne alla vendetta. L’Autorità del Sud dovrebbe tassare Berlusconi. O gli editori dei libri contro Berlusconi.
La verità è che mafia gli fa un baffo, a Berlusconi, che non per nulla i mafiosi li mette dentro, al carcere duro, e gli confisca i patrimoni. Se ne fa tanto spreco solo per insultare il Sud, visto che le elezioni Berlusconi poi le vince.
La mafia come genere letterario è come i lazzari, che la storia di Napoli hanno infestato per un paio di secoli. Quante scemenze non sono state raccontate, a fini commerciali, da viaggiatori presunti, presunti testimoni. Croce, “Un paradiso abitato da diavoli”, alle pp. 93 segg. Ne dà ineffabili esempi.
La mafia che l’antimafia idealizza è la borghesia, in tutti i sensi. La borghesia italiana. In senso economico – alla pari di quella che vota Prodi per riavere i sussidi pubblici, sotto forma di tasse e contributi sociali. Sociale, alla pari della “società civile”, che esclude, la società chiusa. Culturale: è comune la mancanza d’idee, solo il padrinaggio conta. Legale: comune è la violenza, e perfino la criminalità, in tutte la manifestazioni della società, dal negoziante al presidente di Cassazione.
leuzzi@antiit.eu
venerdì 26 febbraio 2010
Contro Verre, per Pompeo
“Il popolo romano, anche se è afflitto da molti rovesci e difficoltà, nulla reclama tanto nell’ordinamento dello Stato quanto la fermezza e la serietà dei tribunali”. È l’anno 70 avanti Cristo, Roma è nel mezzo di una decade di tumulti contro l’autorità e i poteri costituiti: l’agitazione provocata da Marco Emilio Lepido, la rivolta dei gladiatori guidati da Spartaco, la ribellione di Quinto Sertorio in Spagna, l’attacco dei barbari, dalla Tracia al Mar Nero, l’inconcludente campagna contro Mitridate in Asia, l’insidia dei pirati ai commerci marittimi, i conseguenti tumulti di popolo a Roma, per la difficoltà degli approvvigionamenti. Il giovane Cneo Pompeo, vincitore di Lepido e Sertorio, torna dalle province per dare la scalata al potere, e si candida al consolato per il 70 insieme con Marco Licinio Crasso. Adotta un programma democratico, appellandosi ai ceti nuovi, i cavalieri, contro la tradizione senatoriale.
La candidatura è già una mezza vittoria: per consentirgliela il Senato ha infatti dovuto abolire le disposizioni che impedivano il consolato ai generali in attività. Ma per mettere in riga gli ottimati ci vuole ancora qualcos’altro.
Ci pensò Cicerone. Marco Tullio aveva 36 anni, come il suo nuovo idolo, e una carriera solida di retore e giureconsulto. Non si era mai esercitato nell’accusa: nei dodici anni di attività si era distinto in numerose cause civili e penali sempre come difensore. Ma per quell’anno 70 aveva puntato anch’egli a una carica politica, quella di edile, e non ebbe remore ad assumere il ruolo che più di tutti, con le “Catilinarie” e le “Filippiche”, l’avrebbe reso famoso. Avviò quindi tempestivamente, ai primi di gennaio, un’azione penale, per corruzione, concussione e sacrilegio, contro Gaio Verre, reduce da tre anni di governatorato in Sicilia.
Verre era un uomo potentissimo ma un bersaglio facile. Di appena dieci anni più anziano di Cicerone, aveva avuto tempo di depredare ben quattro province nelle quali aveva rivestito incarichi pubblici a partire dall’84: nella Gallia Cisalpina, a Benevento, dove si era appropriato della cassa dell’esercito della Repubblica romana contro Silla, prima, e poi dei beni dei proscritti di Silla, in Cilicia, e da ultimo, dal 73 al 71, in Sicilia. Cicerone promosse l’azione penale, facendosi paladino dei Siciliani venuti a Roma a protestare, sicuro di vincerla.
Le leggi a Roma erano molto severe contro la concussione, o abuso delle cariche pubbliche per ottenere dei benefici privati, personali, familiari o per gli amici. Il reato di concussione è il primo per il quale si conosca l’istituzione di un apposito tribunale nella legislazione romana. Fra le pene c’era l’infamia o ignominia, la perdita cioè dei diritti politici, e forse anche l’aqua et igni interdictio, che aveva come conseguenza l’esilio. Peggio ancora per il peculato, quando cioè il funzionario si appropriava di un bene pubblico. Questi reati erano ritenuti tanto gravi da essere apparentati al sacrilegium: il furto di beni di culto poteva configurarsi come un delitto di lesa maestà, cioè di tradimento, e così quindi la concussione e il peculato.
I processi, però, erano tutt’altra cosa che le leggi. Si poteva ritardarli con varie procedure artificiose, o comunque comprare i nobili giurati, con voti o denaro, se si avevano un buon avvocato, influenza politica e disponibilità. Verre tentò dapprima di togliere l’azione a Cicerone, facendo candidare alla pubblica accusa tale Quinto Cecilio, che in qualità di siciliano e di perseguitato in prima persona avrebbe avuto più titoli dello stesso Cicerone.
È nella discussione preliminare contro questo uomo di paglia di Verre che Cicerone mise in guardia i giudici. Alle prime battute del “Discorso contro Quinto Cecilio” anticipò il tema dell’impazienza popolare, con cui avrebbe attaccato le “Catilinarie”. Ma sopratutto ebbe buon gioco perché il legislatore romano era durissimo contro gli accusatori che non si prendevano la responsabilità delle proprie accuse. Oggi il pregiudizio è favorevole agli accusatori. Tommaso Buscetta, capomafia e pluriomicida diventato accusatore, è stato perfino invitato a dare lezione di etica e di diritto in Parlamento. Il diritto romano non scoraggiava l’accusa, ma pretendeva che essa fosse provata, pena l’infamia e la bollatura a fuoco con una C calumniator sulla fronte. “Per lo stato”, così Cicerone concluse il suo breve intervento, “nessun mezzo di salvezza è più efficace di questo: chi accusa un altro tremi per il proprio prestigio, l’onore e la reputazione non meno di chi è accusato”. E Quinto Cecilio scomparve di scena.
In seconda battuta Verre fece iscrivere un altro procedimento d’accusa, presso la stessa giuria che avrebbe dovuto giudicarlo, un momento prima che Cicerone aprisse formalmente l’azione penale. Questo ritardò di tre mesi e mezzo il suo processo, in modo che si aprisse ai primi di agosto e poco dopo venisse aggiornato per poter onorare due serie di festività in calendario. Ma Cicerone non si preoccupò della tattica dilatoria di Verre. Impiegò buona parte del tempo in un lungo viaggio in Sicilia per approfondire la sua istruttoria. Ebbe una buona accoglienza e molte informazioni, sopratutto nella parte occidentale, dove il suo incarico di questore a Marsala nel 75 veniva ancora ricordato con gratitudine.
All’apertura del processo Cicerone si limitò a una brevissima orazione, e poi utilizzò i nove giorni a disposizione per far parlare i testimoni. L’orazione, venti paginette, gli servì a mettere in mora i giudici. Cicerone esordì affermando che Verre aveva comperato la data del suo processo. E concluse con un accenno al caso allora celebre di Cluenzio, che per subentrare nell’eredità aveva fatto condannare per veneficio il patrigno e altre due persone, comperandosi il tribunale, ma il cui intrigo era stato appena denunciato.
Verre seppe subito di non avere speranza, anche se il tribunale rinviò la sentenza a dopo le feste. Fece sparire i preziosi, vasi, statue, argenti, gioielli. E alla ripresa del dibattimento si fece trovare in volontario esilio. Con questa mosse ottenne anche la riduzione a una cifra irrisoria del risarcimento cui fu condannato. Visse ancora per ventisei anni in esilio dorato, lontano dai drammi delle guerre civili.
Cicerone non si privò del piacere di rendere pubblica la requisitoria in cui demoliva il malversatore. Nei cinque volumi “Contro Verre”, per 500 pagine c’è un campionario interminabile di nefandezze che l'imputato avrebbe commesso fin da ragazzo, ma c’è anche molta cura nell’appoggiare Pompeo e l’ordine equestre, gli homines novi, imprenditori, pubblicani, banchieri, senza rompere con il Senato - al quale Cicerone stesso apparteneva per essere stato questore. In particolare mise ogni cura ad allontanare i sospetti dai tanti cavalieri che operavano in Sicilia in quanto pubblicani - appaltatori di opere pubbliche e delle imposte - e come usurai.
Ma è il finale che dà il senso alla storia. Pochi mesi dopo, nel 69, Cicerone difese Marco Fonteio, ex governatore della Gallia, accusato come Verre de pecuniis repetundis (concussione). Ai Galli, a differenza che ai Siciliani, Cicerone contestò la facoltà di mettere in dubbio la buona fede di un cittadino romano. Il cittadino Fonteio fu naturalmente assolto. Era amico di Pompeo. Nel 66 Cicerone difese Cluenzio, venuto in giudizio come calunniatore per la storia del veneficio. Anche Cluenzio fu assolto.
Nel 43 Antonio, il nuovo padrone della repubblica, impose a Verre la consegna dei suoi preziosi vasi di Corinto. Verre si rifiutò. Condannato a morte. la affrontò con dignità a 72 anni, qualche giorno dopo aver saputo come Antonio avesse portato a ben più miseranda fine il suo accusatore Cicerone.
La candidatura è già una mezza vittoria: per consentirgliela il Senato ha infatti dovuto abolire le disposizioni che impedivano il consolato ai generali in attività. Ma per mettere in riga gli ottimati ci vuole ancora qualcos’altro.
Ci pensò Cicerone. Marco Tullio aveva 36 anni, come il suo nuovo idolo, e una carriera solida di retore e giureconsulto. Non si era mai esercitato nell’accusa: nei dodici anni di attività si era distinto in numerose cause civili e penali sempre come difensore. Ma per quell’anno 70 aveva puntato anch’egli a una carica politica, quella di edile, e non ebbe remore ad assumere il ruolo che più di tutti, con le “Catilinarie” e le “Filippiche”, l’avrebbe reso famoso. Avviò quindi tempestivamente, ai primi di gennaio, un’azione penale, per corruzione, concussione e sacrilegio, contro Gaio Verre, reduce da tre anni di governatorato in Sicilia.
Verre era un uomo potentissimo ma un bersaglio facile. Di appena dieci anni più anziano di Cicerone, aveva avuto tempo di depredare ben quattro province nelle quali aveva rivestito incarichi pubblici a partire dall’84: nella Gallia Cisalpina, a Benevento, dove si era appropriato della cassa dell’esercito della Repubblica romana contro Silla, prima, e poi dei beni dei proscritti di Silla, in Cilicia, e da ultimo, dal 73 al 71, in Sicilia. Cicerone promosse l’azione penale, facendosi paladino dei Siciliani venuti a Roma a protestare, sicuro di vincerla.
Le leggi a Roma erano molto severe contro la concussione, o abuso delle cariche pubbliche per ottenere dei benefici privati, personali, familiari o per gli amici. Il reato di concussione è il primo per il quale si conosca l’istituzione di un apposito tribunale nella legislazione romana. Fra le pene c’era l’infamia o ignominia, la perdita cioè dei diritti politici, e forse anche l’aqua et igni interdictio, che aveva come conseguenza l’esilio. Peggio ancora per il peculato, quando cioè il funzionario si appropriava di un bene pubblico. Questi reati erano ritenuti tanto gravi da essere apparentati al sacrilegium: il furto di beni di culto poteva configurarsi come un delitto di lesa maestà, cioè di tradimento, e così quindi la concussione e il peculato.
I processi, però, erano tutt’altra cosa che le leggi. Si poteva ritardarli con varie procedure artificiose, o comunque comprare i nobili giurati, con voti o denaro, se si avevano un buon avvocato, influenza politica e disponibilità. Verre tentò dapprima di togliere l’azione a Cicerone, facendo candidare alla pubblica accusa tale Quinto Cecilio, che in qualità di siciliano e di perseguitato in prima persona avrebbe avuto più titoli dello stesso Cicerone.
È nella discussione preliminare contro questo uomo di paglia di Verre che Cicerone mise in guardia i giudici. Alle prime battute del “Discorso contro Quinto Cecilio” anticipò il tema dell’impazienza popolare, con cui avrebbe attaccato le “Catilinarie”. Ma sopratutto ebbe buon gioco perché il legislatore romano era durissimo contro gli accusatori che non si prendevano la responsabilità delle proprie accuse. Oggi il pregiudizio è favorevole agli accusatori. Tommaso Buscetta, capomafia e pluriomicida diventato accusatore, è stato perfino invitato a dare lezione di etica e di diritto in Parlamento. Il diritto romano non scoraggiava l’accusa, ma pretendeva che essa fosse provata, pena l’infamia e la bollatura a fuoco con una C calumniator sulla fronte. “Per lo stato”, così Cicerone concluse il suo breve intervento, “nessun mezzo di salvezza è più efficace di questo: chi accusa un altro tremi per il proprio prestigio, l’onore e la reputazione non meno di chi è accusato”. E Quinto Cecilio scomparve di scena.
In seconda battuta Verre fece iscrivere un altro procedimento d’accusa, presso la stessa giuria che avrebbe dovuto giudicarlo, un momento prima che Cicerone aprisse formalmente l’azione penale. Questo ritardò di tre mesi e mezzo il suo processo, in modo che si aprisse ai primi di agosto e poco dopo venisse aggiornato per poter onorare due serie di festività in calendario. Ma Cicerone non si preoccupò della tattica dilatoria di Verre. Impiegò buona parte del tempo in un lungo viaggio in Sicilia per approfondire la sua istruttoria. Ebbe una buona accoglienza e molte informazioni, sopratutto nella parte occidentale, dove il suo incarico di questore a Marsala nel 75 veniva ancora ricordato con gratitudine.
All’apertura del processo Cicerone si limitò a una brevissima orazione, e poi utilizzò i nove giorni a disposizione per far parlare i testimoni. L’orazione, venti paginette, gli servì a mettere in mora i giudici. Cicerone esordì affermando che Verre aveva comperato la data del suo processo. E concluse con un accenno al caso allora celebre di Cluenzio, che per subentrare nell’eredità aveva fatto condannare per veneficio il patrigno e altre due persone, comperandosi il tribunale, ma il cui intrigo era stato appena denunciato.
Verre seppe subito di non avere speranza, anche se il tribunale rinviò la sentenza a dopo le feste. Fece sparire i preziosi, vasi, statue, argenti, gioielli. E alla ripresa del dibattimento si fece trovare in volontario esilio. Con questa mosse ottenne anche la riduzione a una cifra irrisoria del risarcimento cui fu condannato. Visse ancora per ventisei anni in esilio dorato, lontano dai drammi delle guerre civili.
Cicerone non si privò del piacere di rendere pubblica la requisitoria in cui demoliva il malversatore. Nei cinque volumi “Contro Verre”, per 500 pagine c’è un campionario interminabile di nefandezze che l'imputato avrebbe commesso fin da ragazzo, ma c’è anche molta cura nell’appoggiare Pompeo e l’ordine equestre, gli homines novi, imprenditori, pubblicani, banchieri, senza rompere con il Senato - al quale Cicerone stesso apparteneva per essere stato questore. In particolare mise ogni cura ad allontanare i sospetti dai tanti cavalieri che operavano in Sicilia in quanto pubblicani - appaltatori di opere pubbliche e delle imposte - e come usurai.
Ma è il finale che dà il senso alla storia. Pochi mesi dopo, nel 69, Cicerone difese Marco Fonteio, ex governatore della Gallia, accusato come Verre de pecuniis repetundis (concussione). Ai Galli, a differenza che ai Siciliani, Cicerone contestò la facoltà di mettere in dubbio la buona fede di un cittadino romano. Il cittadino Fonteio fu naturalmente assolto. Era amico di Pompeo. Nel 66 Cicerone difese Cluenzio, venuto in giudizio come calunniatore per la storia del veneficio. Anche Cluenzio fu assolto.
Nel 43 Antonio, il nuovo padrone della repubblica, impose a Verre la consegna dei suoi preziosi vasi di Corinto. Verre si rifiutò. Condannato a morte. la affrontò con dignità a 72 anni, qualche giorno dopo aver saputo come Antonio avesse portato a ben più miseranda fine il suo accusatore Cicerone.
Problemi di base - 25
spock
Perché ai giudici piace fare i politici, che disprezzano?
Perché Bersani si mette con De Magistris, che voleva Prodi in carcere?
Chi ha dato la giustizia ai giudici?
Che sinistra è quella di Prodi, e di Loiero, l’ultimo suo man of the party, con De Magistris?
Gli italiani sono cinici perché sono tristi, o sono tristi perché sono cinici?
Perché gli italiani amano e odiano lo Stato, come la moglie?
Dove vanno i becchini, quando vanno in vacanza?
Che fa la morte, quando i becchini vanno in vacanza?
È un secolo che Dio non parla più, parla solo la Madonna: anche Lui respira l’aria del secolo?
I parroci, che prima avevano un’amante, almeno una, ora molestano i bambini: anche il sesso va col secolo?
Si può dire il giornale un confessionale?
spock@antiit.eu
Perché ai giudici piace fare i politici, che disprezzano?
Perché Bersani si mette con De Magistris, che voleva Prodi in carcere?
Chi ha dato la giustizia ai giudici?
Che sinistra è quella di Prodi, e di Loiero, l’ultimo suo man of the party, con De Magistris?
Gli italiani sono cinici perché sono tristi, o sono tristi perché sono cinici?
Perché gli italiani amano e odiano lo Stato, come la moglie?
Dove vanno i becchini, quando vanno in vacanza?
Che fa la morte, quando i becchini vanno in vacanza?
È un secolo che Dio non parla più, parla solo la Madonna: anche Lui respira l’aria del secolo?
I parroci, che prima avevano un’amante, almeno una, ora molestano i bambini: anche il sesso va col secolo?
Si può dire il giornale un confessionale?
spock@antiit.eu
giovedì 25 febbraio 2010
Casini for president
Non è un gioco di parole, non è una provocazione, non è uno scherzo, è la tessitura alla quale si dedica D’Alema, in qualità di vero segretario del partito Democratico. Con Fini, magari, in ticket con Casini. Due che insieme non fanno il cinque per cento. Con Polverini, magari, al posto di Epifani - che il Lazio così lascerebbe a Emma Bonino, candidata unica, seppure osteggiata dal papa? E' solo un'idea di Velardi? Bene, se è solo pubblicità, i fichi Fini e Casini stanno bene infatti nella pubblicità. Altrimenti, nascondersi va bene, ma nascondersi fino a tal punto? O dobbiamo infine riconoscere che Fini e Casini sono le belle copie di D’Alema e Veltroni, palestrati, visagizzati? Ma, allora, perché allontanare tanti buoni democratici cristiani dal Pd in direzione di Casini, e poi prendersi tutto Casini, e alla presidenza del consiglio?
Non è politica, e si sapeva, si fanno solo furbate. Ma prendersi Casini per fare che? Giusto per sbolognare Berlusconi. Ma quello l’ha già fatto Prodi, un paio di volte, senza esito. E, poi, che sinistra è quella di un Casini, magari con Fini dietro? Che normalità è questa? Sì, Casini e Fini hanno la Rai e i talk show della Rai, fanno figura di giovani, e non hanno occhiaie, non avendo pensieri. Ma delle due cose l’una: o la Rai mette i suoi favoriti come falso scopo, come punching ball, oppure porta sfiga, chi ci troneggia non vince.
A meno che D’Alema non li candidi proprio per fregarli. Furbo!
Non è politica, e si sapeva, si fanno solo furbate. Ma prendersi Casini per fare che? Giusto per sbolognare Berlusconi. Ma quello l’ha già fatto Prodi, un paio di volte, senza esito. E, poi, che sinistra è quella di un Casini, magari con Fini dietro? Che normalità è questa? Sì, Casini e Fini hanno la Rai e i talk show della Rai, fanno figura di giovani, e non hanno occhiaie, non avendo pensieri. Ma delle due cose l’una: o la Rai mette i suoi favoriti come falso scopo, come punching ball, oppure porta sfiga, chi ci troneggia non vince.
A meno che D’Alema non li candidi proprio per fregarli. Furbo!
Arduo per Obama smarcarsi dalle banche
Non la riforma sanitaria, né altri errori o posizioni controverse di politica interna o internazionale, ha sgonfiato il miracolo Obama, ma la sua polemica contro le banche, il mancato abbandono, dichiarato, pubblico, di ogni velleità di controlli sul mercato. Il declino degli indici di popolarità è stato immediato a gennaio, quando il presidente Usa ha criticato i superbonus dei banchieri, ha chiesto una tassa a conguaglio delle perdite abnormi subite dal Tesoro per i salvataggi (120 miliardi), e ha proposto una legge che vieti alle banche la speculazione, e ne riduca il monopolismo.
La reazione - una caduta degli indici di popolarità su misure che, se non altro, sicuramente sono populistiche - è specchio della polarizzazione della politica sulla finanza, e dei modi di formazione dell’opinione, che è da qualche tempo per nulla libera, e anzi scopertamente dipendente dai padroni del denaro. Così come del resto la politica, il cui finanziamento è stato modificato dai Congressi di Clinton e di Bush, dopo il lungo limbo seguito agli scandali di metà anni Settanta, per favorire il condizionamento del big business.
I media non discutono della liceità o bontà politica delle decisioni presidenziali. Ne riferiscono tuttavia senza apprezzamento, che nel caso dei superbonus dei banchieri della crisi e dei paletti alla speculazione sarebbe stato solo ovvio. Anzi ne traggono motivo per dare la popolarità di Obama in calo. Con qualche appiglio: per esempio il passaggio del seggio senatoriale ereditario dei Kennedy ai Repubblicani. Ma senza chiare motivazioni. In altro momento la perdita del seggio non sarebbe stata decisiva di niente. O sarebbe stato imputato all’estinzione politica dei Kennedy stessi, o ai mutamenti sociali della costituency, o all’effetto della crisi che sempre punisce elettoralmente i governi in carica. Non, però, nel caso di Obama, che si fa cadere nei favori socì come lo si era innalzato, oltre ogni merito a parte la giovinezza e l’abbronzatura, che lo spontaneo favore popolare fece all'improvviso preferire, dal partito Democratico e dai finanziatori, alla già prescelta Hillary Clinton. Il presidente lo sa, che dice: “Meglio governare bene anche se solo per quattro anni”. Tanto più avendo confermato Bernanke alla Fed con l'esplicito compito di regolare le banche, anche dando la caccia alla speculazione pregressa, delle banche genere Goldman Sachs, che creano e impogono gli strumenti finanziari con i quali poi esercitarsi liberamente al bersaglio.
A partire da Reagan, e poi con Clinton, la politica americana si è legata alla finanza, il big business condizionante è Wall Street. Da ormai trent’anni, eiettati gli indigesti Nixon e Carter, politici populisti, non legati agli interessi, la politica si è vincolata come si suol dire al mercato, e cioè agli interessi finanziari. La lunga presidenza Clinton sarà ricordata in particolare come un ininterrotto, forse il più lungo nella storia dei cicli, boom di Wall Street. Il riallineamento delle leggi sul finanziamento ai partiti ha prodotto una stabile dipendenza dai grandi interessi finanziari, le loro fondazioni, i loro think-thank, e gli stessi media. Obama, partito come uno dei tanti outsider ma subito “portato” dall’America provinciale, e patrocinato in un secondo momento come l’uomo nuovo o l’uomo della cosa giusta, è stato riportato dalle responsabilità di governo a riprendersi il ruolo di outsider, e questo non gli giova.
La reazione - una caduta degli indici di popolarità su misure che, se non altro, sicuramente sono populistiche - è specchio della polarizzazione della politica sulla finanza, e dei modi di formazione dell’opinione, che è da qualche tempo per nulla libera, e anzi scopertamente dipendente dai padroni del denaro. Così come del resto la politica, il cui finanziamento è stato modificato dai Congressi di Clinton e di Bush, dopo il lungo limbo seguito agli scandali di metà anni Settanta, per favorire il condizionamento del big business.
I media non discutono della liceità o bontà politica delle decisioni presidenziali. Ne riferiscono tuttavia senza apprezzamento, che nel caso dei superbonus dei banchieri della crisi e dei paletti alla speculazione sarebbe stato solo ovvio. Anzi ne traggono motivo per dare la popolarità di Obama in calo. Con qualche appiglio: per esempio il passaggio del seggio senatoriale ereditario dei Kennedy ai Repubblicani. Ma senza chiare motivazioni. In altro momento la perdita del seggio non sarebbe stata decisiva di niente. O sarebbe stato imputato all’estinzione politica dei Kennedy stessi, o ai mutamenti sociali della costituency, o all’effetto della crisi che sempre punisce elettoralmente i governi in carica. Non, però, nel caso di Obama, che si fa cadere nei favori socì come lo si era innalzato, oltre ogni merito a parte la giovinezza e l’abbronzatura, che lo spontaneo favore popolare fece all'improvviso preferire, dal partito Democratico e dai finanziatori, alla già prescelta Hillary Clinton. Il presidente lo sa, che dice: “Meglio governare bene anche se solo per quattro anni”. Tanto più avendo confermato Bernanke alla Fed con l'esplicito compito di regolare le banche, anche dando la caccia alla speculazione pregressa, delle banche genere Goldman Sachs, che creano e impogono gli strumenti finanziari con i quali poi esercitarsi liberamente al bersaglio.
A partire da Reagan, e poi con Clinton, la politica americana si è legata alla finanza, il big business condizionante è Wall Street. Da ormai trent’anni, eiettati gli indigesti Nixon e Carter, politici populisti, non legati agli interessi, la politica si è vincolata come si suol dire al mercato, e cioè agli interessi finanziari. La lunga presidenza Clinton sarà ricordata in particolare come un ininterrotto, forse il più lungo nella storia dei cicli, boom di Wall Street. Il riallineamento delle leggi sul finanziamento ai partiti ha prodotto una stabile dipendenza dai grandi interessi finanziari, le loro fondazioni, i loro think-thank, e gli stessi media. Obama, partito come uno dei tanti outsider ma subito “portato” dall’America provinciale, e patrocinato in un secondo momento come l’uomo nuovo o l’uomo della cosa giusta, è stato riportato dalle responsabilità di governo a riprendersi il ruolo di outsider, e questo non gli giova.
mercoledì 24 febbraio 2010
Londra scettica, Berlino distante, Ue in pausa
È euroscettica più che non la campagna elettorale a basso voltaggio in atto ormai da un anno tra il premier laburista Brown e il premier ombra conservatore Cameron. La Gran Bretagna ha solidi interessi maturati nella Ue, agricoltura, industria e nella stessa finanza, malgrado l’euro, ma la City mantiene altrettanto solidi interessi nella finanza globale, malgrado la crisi e anche contro l’euro, come dimostra la recente speculazione al ribasso del fondo Brevan e altri. Nella stampa popolare e in quella economica è come se Londra si trovasse di nuove in terra incognita, per tutto ciò che riguarda la Ue. La meteora europeista Blair, che aveva portato la Gran Bretagna al cuore della difesa europea (poi fallita) e vicina all’euro, per il quale si arrivò a prospettare un referendum, viene accantonata su queste basi, più che sull’impegno pro Usa nel Medio Oriente - che nessuno ai Comuni e nei tre grandi partiti mette veramente in discussione.
È su questo sfondo del resto che si lavora a Bruxelles. Alla Banca centrale europea e al Consiglio europeo. Il presidente della Bce Trichet è personalmente convinto che la convergenza della sterlina sull’euro vada preservata. Mentre il compromesso franco-tedesco dell’ultimo consiglio europeo due settimane fa, in particolare l’intesa Merkel-Sarkozy per il salvataggio “politico” della Grecia, intende riproporre il Consiglio stesso come il “governo economico” della Ue. Questa è una novità: finora il governo tedesco ha sempre evitato di riproporre il governo politico dell’economia europea, per non incidere sull’autonomia della Bce. Il mutamento di passo viene ora letto in Francia come dettato dall’esigenza di tenere Londra impegnata nella Ue, anche sul piano monetario. Anche se ciò dovesse significare un rallentamente delle stretagie unificanti della Ue. In questo quadro si spiega anche l’ultima decisione di rilievo, l’affidamento della politica estera e di difesa della Ue a una personalità britannica, la baronessa Ashton. Con una distinta nota di disinteresse, se non di disistima, sulla consistenza delle stesse politiche. Confermata peraltro dall’eclisse delle stesse politiche che ha seguito la nomina.
Ma tutta la politica dell’Unione ha subito, e subirà, un rallentamento, non solo quella estera e di difesa. Resta l’euro, e in condizioni ancora forti, ma questo grazie alla Banca centrale europea, e al suo presidente Trichet. Ogni altra attività è tenuta in surplace dal disinteresse del governo tedesco. Surplace sostanziale, e quasi dichiarato, una volta pagato il tributo di rito all’amicizia eterna e all’asse franco-tedesco.
La cancelliera Merkel conferma anche in questa presunto tenere la porta aperta a Londra di essersi presa una pausa rispetto all’accelerazione impressa alla costruzione dell’Europa dai suoi predecessori Kohl e Schröder. In particolare viene messa in pausa l’unione fiscale e delle politiche di bilancio che l’euro avrebbe richiesto: la Germania non insiste più sul patto di stabilità che essa stessa aveva imposto al momento del varo dell’euro. Berlino peraltro ha affrontato e affronta la crisi, dalla Opel al debito, in una distinta prospettiva nazionale, lasciando all’Unione il ruolo di quadro di riferimento ma non di ispirazione e non condizionante. La crisi del debito greco ha anzi utilizzato per affermare cosa si intende per Consiglio della Ue come governo economico della Ue stessa: una sorta di politica estera del Consiglio stesso, già nei confronti della Gran Bretagna, che è un paese membro della Ue ma non dell’euro, mentre con la Grecia, che è parte dell’euro, la reazione è da ministero dell’Interno, o di polizia.
È su questo sfondo del resto che si lavora a Bruxelles. Alla Banca centrale europea e al Consiglio europeo. Il presidente della Bce Trichet è personalmente convinto che la convergenza della sterlina sull’euro vada preservata. Mentre il compromesso franco-tedesco dell’ultimo consiglio europeo due settimane fa, in particolare l’intesa Merkel-Sarkozy per il salvataggio “politico” della Grecia, intende riproporre il Consiglio stesso come il “governo economico” della Ue. Questa è una novità: finora il governo tedesco ha sempre evitato di riproporre il governo politico dell’economia europea, per non incidere sull’autonomia della Bce. Il mutamento di passo viene ora letto in Francia come dettato dall’esigenza di tenere Londra impegnata nella Ue, anche sul piano monetario. Anche se ciò dovesse significare un rallentamente delle stretagie unificanti della Ue. In questo quadro si spiega anche l’ultima decisione di rilievo, l’affidamento della politica estera e di difesa della Ue a una personalità britannica, la baronessa Ashton. Con una distinta nota di disinteresse, se non di disistima, sulla consistenza delle stesse politiche. Confermata peraltro dall’eclisse delle stesse politiche che ha seguito la nomina.
Ma tutta la politica dell’Unione ha subito, e subirà, un rallentamento, non solo quella estera e di difesa. Resta l’euro, e in condizioni ancora forti, ma questo grazie alla Banca centrale europea, e al suo presidente Trichet. Ogni altra attività è tenuta in surplace dal disinteresse del governo tedesco. Surplace sostanziale, e quasi dichiarato, una volta pagato il tributo di rito all’amicizia eterna e all’asse franco-tedesco.
La cancelliera Merkel conferma anche in questa presunto tenere la porta aperta a Londra di essersi presa una pausa rispetto all’accelerazione impressa alla costruzione dell’Europa dai suoi predecessori Kohl e Schröder. In particolare viene messa in pausa l’unione fiscale e delle politiche di bilancio che l’euro avrebbe richiesto: la Germania non insiste più sul patto di stabilità che essa stessa aveva imposto al momento del varo dell’euro. Berlino peraltro ha affrontato e affronta la crisi, dalla Opel al debito, in una distinta prospettiva nazionale, lasciando all’Unione il ruolo di quadro di riferimento ma non di ispirazione e non condizionante. La crisi del debito greco ha anzi utilizzato per affermare cosa si intende per Consiglio della Ue come governo economico della Ue stessa: una sorta di politica estera del Consiglio stesso, già nei confronti della Gran Bretagna, che è un paese membro della Ue ma non dell’euro, mentre con la Grecia, che è parte dell’euro, la reazione è da ministero dell’Interno, o di polizia.
Il mondo com'è - 33
astolfo
Compagnia - Oggi si dice in inglese, public company, ma il nome parla chiaro. Compagnia di ventura, certo, sempre meno richiesta nell'era della guerra elettronica. Compagnia della buona morte anche, per confortare i condannati, che il diritto finalmente elimina insieme con la funzione per la quale era nata. E poi Compagnia delle Indie, del Levante, dei Royal Adventurers, dei Mari del Sud, le innumerevoli copie dei Mercanti avventurieri britannici, che dal 1507 per tre secoli dominarono i commerci del Nord Europa. Che a loro volta si erano modellati sulle maone genovesi del Trecento, le associazioni private con cui la Superba faceva i colpi di mano più rischiosi, per esempio la conquista della Corsica.
Queste compagnie commerciali, con privilegio di conquista e di governo di territori remoti, si sono portate presto molto lontano dall'originario significato del termine, cum-panis, comunanza di interessi dei soci. Cum-panis la compagnia lo fu brevemente, alla sua prima apparizione nell'armamentario giuridico, nel secolo XI a Genova, e nel grande mercato veneziano il secolo successivo. Nel Sei-Settecento le compagnie assicurarono all'Europa il dominio del mondo. Surrettiziamente, con la pazienza dei mercanti, e con la coscienza di un primato tecnico e spirituale, ma con determinazione.
Fu Joseph François Dupleix, amministratore della Compagnia francese delle Indie, a individuare per primo nel 1748 la possibilità di creare un impero europeo sulle rovine della monarchia del Gran Mogol in India, e a riuscire quasi a realizzarlo in pochi mesi e con un centinaio di soldati. “Quasi”, perché l'idea gli fu rubata da un ventiquattrenne impiegato della Compagnia britannica, Robert Clive, che si improvvisò stratega politico e militare, e dieci anni dopo, a trentaquattro anni, con poche mosse, combattute sopratutto contro i francesi dell'India e contro gli olandesi di Batavia, aveva assicurato alla regina Vittoria un impero diciotto volte più grande delle isole britanniche, e a Londra due secoli o poco meno di supremazia mondiale.
La Compagnia delle Indie è il caso più noto. Ma anche le altre compagnie con interessi atlantici costruirono imperi. Non tutte, considerando che tutti i paesi del Nord Europa costituirono nel Sei-Settecento almeno una compagnia, e alla fine ne tentarono una l'Austria di Maria Teresa e Giuseppe II, e un’altra la Prussia di Federico II. Create per commerciare, trascuravano spesso gli utili dei finanziatori e partecipanti, ma mai il dominio - i cui costi comunque assorbivano i profitti quando c'erano.
Già nel Seicento, prima quindi di Dupleix e Clive, la Compagnia olandese delle Indie aveva messo insieme un vero e proprio impero, anche se non dichiarato, con sede a Batavia. Con calvinista intransigenza, espropriò gli indigeni di Giava, Malesia e Indonesia, li ridusse ai lavori forzati e, introducendo la monocultura dei prodotti di esportazione, li obbligò ad asservirsi completamente per procurarsi di che mangiare. Ma visse quasi tutto il Settecento, fra le malversazioni dei funzionari e le spese militari, dei prestiti del governo olandese, che essa stessa esprimeva.
Thomas Babington Macaulay, lo storico inglese della conquista dell'India, apre la vita di Lord Clive chiedendosi come mai, mentre si fa un gran parlare delle imprese di Pizarro e Cortes, che distrussero molto e produssero poco, nessun interesse viene portato alle imprese dei piccoli grandi uomini delle Compagnie. Sono loro, in effetti, che hanno creato l'imperialismo moderno, l'imperialismo economico.
Sulle compagnie si è anzi modellato il cuore del capitalismo moderno, la proprietà suddivisa e anonima. La Compagnia olandese nasce nel 1602 con un capitale ripartito in quote uguali e cedibili, denominate per la prima volta azioni, gestite in forma anonima, joint stock si dirà nella Compagnia inglese a partire dal 1612, anche se con soci nominativi. Jean Baptiste Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV e rivoluzionatore delle regole dell'economia, completerà l'innovazione nel 1664, dotando la costituenda Compagnia francese delle Indie della responsabilità limitata dei soci, e quindi dell'anonimità dei titoli. E adesso rieccole: senza apparato militare, ma con eguale determinazione, le public companies vanno all'assalto dei risparmi di tutti e ognuno, aprendo orizzonti misteriosi e invitanti, dopo l’epoca pantofolaia dei Bot, i titoli di Stato mangiainflazione esentasse.
Un filo c'è, dal privato, anzi dal personale, al pubblico. Che poi, in inglese, vuol dire privato. E non per il destino perverso delle parole: public vuol dire privato alla luce del sole, a disposizione di tutti. Almeno nelle intenzioni - perché il capitale è la cosa che più si pubblicizza per nascondersi. Il miglior privato, insomma, sarebbe nel pubblico. Ma non è facile fare il punto. La navigazione torna a vista. Torna l'avventura.
Élite – Ha funzione pedagogica. Se la classe dirigente è specchio del paese la teoria dell’élite non ha fondamento. Ma con essa allora anche la democrazia: la classe dirigente deve dare buoni insegnamenti e indicare buone strade, se è il popolo bue non ha senso e alcuna legittimità.
Il problema è sempre aperto della classe dirigente in democrazia. Ma il voto non basta come selettore: senza classe dirigente sicuramente non c’è alcuna forma di democrazia.
È pure vero che la funzione pedagogica può essere negativa, nel senso del disordine, dela crisi, e anche della illegalità. Ma è solo qui che il voto è decisivo, come sanzione.
Legge - È nomos, cioè pascolo. Con le derivate: nemesis, la giustizia, nomisma, la moneta.
Medio Evo – È oscuro perché le fonti sono oscure. Si sa tutto fino ai regni barbarici e bizantini, e dal Duecento in poi, dalle Crociate, con un buco di quattro-cinque secoli. È l’Oriente che accende l’Occidente?
L’impero carolingio resta silenzioso benché sia opera intellettuale, di gente che pensa e parla, chierici, cavalieri, cortigiani, più che di soldati bruti. E tuttavia non dice molto. Soprattutto è un mondo senza scritture, questa creazione di dotti. La scrittura naturalmente è praticata. Non diffusamente, se l’imperatore è analfabeta. Ma abbastanza da tramandare cion profulivo di codici la storia, il pensiero e la letteratura dei mille anni precedenti. Né mancano i documenti, notarili, vescovili, etc.
Perché l’epoca rimane oscura? Serviva ai monaci e ai chierici una società incolta come il suo re? La scrittura come privilegio è in effetti caratteristica del Medio Evo. Oppure gli intellettuali non avevano occhio per i fatti, né sociali né naturali, ma solo per le idee, l’impero, il diritto, l’onore, i rituali. Mancano d’altra parte i Plutarco, i Tito Livio, i Tacito, i Boezio: la storia non è disciplina in auge, e comunque non è annalistica, né fattuale, né politica, ma agiografica e pedagogia. In termini moderni si direbbe da mattinale, seppure di polizia.
Il meraviglioso, il bizzarro, il fantastico, questo è invece genere tipicamente medievale, che irrompe col Medio Evo e occupa stabilmente saldi presidi. Ma all’eopoca è esercizio freddo, di repertorio. È successivamente che diventa trabordante ricchezza immaginativa, e repertorio popolare, quando nella trama storica la natura prevalente cede alla società. Nel Medio Evo l’immaginario è la novità, ma ripetitiva, cioè pedagogica e all’apparenza incerta, poiché conviene lasciare l’autorità a Dio – giudizio di dio, tregua di Dio, streghe, demoni, etc. Di questo meraviglio fanno parte soprattutto i vescovi santi, le vergini, i cavalieri monaci.
Non è una pausa della storia, oscurantista, è un’organizzazione oscurantista della storia. A opera di intellettuali.
astolfo@antiit.eu
Compagnia - Oggi si dice in inglese, public company, ma il nome parla chiaro. Compagnia di ventura, certo, sempre meno richiesta nell'era della guerra elettronica. Compagnia della buona morte anche, per confortare i condannati, che il diritto finalmente elimina insieme con la funzione per la quale era nata. E poi Compagnia delle Indie, del Levante, dei Royal Adventurers, dei Mari del Sud, le innumerevoli copie dei Mercanti avventurieri britannici, che dal 1507 per tre secoli dominarono i commerci del Nord Europa. Che a loro volta si erano modellati sulle maone genovesi del Trecento, le associazioni private con cui la Superba faceva i colpi di mano più rischiosi, per esempio la conquista della Corsica.
Queste compagnie commerciali, con privilegio di conquista e di governo di territori remoti, si sono portate presto molto lontano dall'originario significato del termine, cum-panis, comunanza di interessi dei soci. Cum-panis la compagnia lo fu brevemente, alla sua prima apparizione nell'armamentario giuridico, nel secolo XI a Genova, e nel grande mercato veneziano il secolo successivo. Nel Sei-Settecento le compagnie assicurarono all'Europa il dominio del mondo. Surrettiziamente, con la pazienza dei mercanti, e con la coscienza di un primato tecnico e spirituale, ma con determinazione.
Fu Joseph François Dupleix, amministratore della Compagnia francese delle Indie, a individuare per primo nel 1748 la possibilità di creare un impero europeo sulle rovine della monarchia del Gran Mogol in India, e a riuscire quasi a realizzarlo in pochi mesi e con un centinaio di soldati. “Quasi”, perché l'idea gli fu rubata da un ventiquattrenne impiegato della Compagnia britannica, Robert Clive, che si improvvisò stratega politico e militare, e dieci anni dopo, a trentaquattro anni, con poche mosse, combattute sopratutto contro i francesi dell'India e contro gli olandesi di Batavia, aveva assicurato alla regina Vittoria un impero diciotto volte più grande delle isole britanniche, e a Londra due secoli o poco meno di supremazia mondiale.
La Compagnia delle Indie è il caso più noto. Ma anche le altre compagnie con interessi atlantici costruirono imperi. Non tutte, considerando che tutti i paesi del Nord Europa costituirono nel Sei-Settecento almeno una compagnia, e alla fine ne tentarono una l'Austria di Maria Teresa e Giuseppe II, e un’altra la Prussia di Federico II. Create per commerciare, trascuravano spesso gli utili dei finanziatori e partecipanti, ma mai il dominio - i cui costi comunque assorbivano i profitti quando c'erano.
Già nel Seicento, prima quindi di Dupleix e Clive, la Compagnia olandese delle Indie aveva messo insieme un vero e proprio impero, anche se non dichiarato, con sede a Batavia. Con calvinista intransigenza, espropriò gli indigeni di Giava, Malesia e Indonesia, li ridusse ai lavori forzati e, introducendo la monocultura dei prodotti di esportazione, li obbligò ad asservirsi completamente per procurarsi di che mangiare. Ma visse quasi tutto il Settecento, fra le malversazioni dei funzionari e le spese militari, dei prestiti del governo olandese, che essa stessa esprimeva.
Thomas Babington Macaulay, lo storico inglese della conquista dell'India, apre la vita di Lord Clive chiedendosi come mai, mentre si fa un gran parlare delle imprese di Pizarro e Cortes, che distrussero molto e produssero poco, nessun interesse viene portato alle imprese dei piccoli grandi uomini delle Compagnie. Sono loro, in effetti, che hanno creato l'imperialismo moderno, l'imperialismo economico.
Sulle compagnie si è anzi modellato il cuore del capitalismo moderno, la proprietà suddivisa e anonima. La Compagnia olandese nasce nel 1602 con un capitale ripartito in quote uguali e cedibili, denominate per la prima volta azioni, gestite in forma anonima, joint stock si dirà nella Compagnia inglese a partire dal 1612, anche se con soci nominativi. Jean Baptiste Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV e rivoluzionatore delle regole dell'economia, completerà l'innovazione nel 1664, dotando la costituenda Compagnia francese delle Indie della responsabilità limitata dei soci, e quindi dell'anonimità dei titoli. E adesso rieccole: senza apparato militare, ma con eguale determinazione, le public companies vanno all'assalto dei risparmi di tutti e ognuno, aprendo orizzonti misteriosi e invitanti, dopo l’epoca pantofolaia dei Bot, i titoli di Stato mangiainflazione esentasse.
Un filo c'è, dal privato, anzi dal personale, al pubblico. Che poi, in inglese, vuol dire privato. E non per il destino perverso delle parole: public vuol dire privato alla luce del sole, a disposizione di tutti. Almeno nelle intenzioni - perché il capitale è la cosa che più si pubblicizza per nascondersi. Il miglior privato, insomma, sarebbe nel pubblico. Ma non è facile fare il punto. La navigazione torna a vista. Torna l'avventura.
Élite – Ha funzione pedagogica. Se la classe dirigente è specchio del paese la teoria dell’élite non ha fondamento. Ma con essa allora anche la democrazia: la classe dirigente deve dare buoni insegnamenti e indicare buone strade, se è il popolo bue non ha senso e alcuna legittimità.
Il problema è sempre aperto della classe dirigente in democrazia. Ma il voto non basta come selettore: senza classe dirigente sicuramente non c’è alcuna forma di democrazia.
È pure vero che la funzione pedagogica può essere negativa, nel senso del disordine, dela crisi, e anche della illegalità. Ma è solo qui che il voto è decisivo, come sanzione.
Legge - È nomos, cioè pascolo. Con le derivate: nemesis, la giustizia, nomisma, la moneta.
Medio Evo – È oscuro perché le fonti sono oscure. Si sa tutto fino ai regni barbarici e bizantini, e dal Duecento in poi, dalle Crociate, con un buco di quattro-cinque secoli. È l’Oriente che accende l’Occidente?
L’impero carolingio resta silenzioso benché sia opera intellettuale, di gente che pensa e parla, chierici, cavalieri, cortigiani, più che di soldati bruti. E tuttavia non dice molto. Soprattutto è un mondo senza scritture, questa creazione di dotti. La scrittura naturalmente è praticata. Non diffusamente, se l’imperatore è analfabeta. Ma abbastanza da tramandare cion profulivo di codici la storia, il pensiero e la letteratura dei mille anni precedenti. Né mancano i documenti, notarili, vescovili, etc.
Perché l’epoca rimane oscura? Serviva ai monaci e ai chierici una società incolta come il suo re? La scrittura come privilegio è in effetti caratteristica del Medio Evo. Oppure gli intellettuali non avevano occhio per i fatti, né sociali né naturali, ma solo per le idee, l’impero, il diritto, l’onore, i rituali. Mancano d’altra parte i Plutarco, i Tito Livio, i Tacito, i Boezio: la storia non è disciplina in auge, e comunque non è annalistica, né fattuale, né politica, ma agiografica e pedagogia. In termini moderni si direbbe da mattinale, seppure di polizia.
Il meraviglioso, il bizzarro, il fantastico, questo è invece genere tipicamente medievale, che irrompe col Medio Evo e occupa stabilmente saldi presidi. Ma all’eopoca è esercizio freddo, di repertorio. È successivamente che diventa trabordante ricchezza immaginativa, e repertorio popolare, quando nella trama storica la natura prevalente cede alla società. Nel Medio Evo l’immaginario è la novità, ma ripetitiva, cioè pedagogica e all’apparenza incerta, poiché conviene lasciare l’autorità a Dio – giudizio di dio, tregua di Dio, streghe, demoni, etc. Di questo meraviglio fanno parte soprattutto i vescovi santi, le vergini, i cavalieri monaci.
Non è una pausa della storia, oscurantista, è un’organizzazione oscurantista della storia. A opera di intellettuali.
astolfo@antiit.eu
martedì 23 febbraio 2010
La congiura sull'euro - che non ci fu
C’è stato più di un sospetto di congiura contro l’euro in Europa nelle ultime settimane, ma l’Italia non lo sa. Sono cose dell’altro mondo, sarà questa la ragione per cui i quotidiani che fanno l’opinione in Italia non l’hanno degnata di una riga, ma non c’è ragione per non saperle. Anche perché Jürgen Stark, l’economista capo della Banca centrale europea, ex Bundesbank, in una lunga intervista allo “Spiegel” nel penultimo numero (12 febbraio), intitolata “Siamo tutti peccatori al momento”, conferma che qualcosa c’è stato: “Ma vorrei segnalare un punto in questo contesto: la Gran Bretagna ha un deficit della stessa grandezza della Grecia. Anche il deficit Usa è superiore al 10 per cento del pil. Tutte le economie avanzate hanno attualmente problemi. In effetti, stupisce vedere da dove la maggior parte delle critiche all’euro vengono in questa fase”. E cioè dai giornali anglo-americani: “In ogni caso, molto di quello che scrivono si legge come se volessero distrarre l’attenzione dai problemi del loro proprio cortile”. Sono diverse, dice Stark, le critiche in Europa: “Queste sono una buona cosa. Non ho problemi con le critiche, ma non mi piacciono gli eccessi… La speculazione è una parte dell’economia di mercato, non sto a dire se positiva o negativa. Tuttavia, la situazione attuale indubbiamente favorisce gli eccessi. Per questa regione non posso escludere che degli speculatori stiano attualmente amplificando i processi”.
Tra metà dicembre e fine gennaio, quando il dollaro ha riguadagnato sull’euro l’11 per cento, si sono diffuse molte voci sull’insostenibilità del debito greco, dapprima, poi di quello spagnolo. La fonte era sempre la stessa, Nouriel Roubini, il consulente bancario di New York che è stato reso famoso per avere previsto il crollo del 2008 - che tutti avevano visto arrivare, non c’era bisogno di prevederlo. Quando Roubini puntò il dito sulla Spagna, Zapatero si precipitò al forum di Davos, per preannunciare tagli al debito, mandò la sua vice a Londra, a preannunciare altri tagli, e al ministro dello Sviluppo Blanco, lo Scajola iberico, suo vice al Psoe, il partito Socialista, confidò la denuncia della speculazione, subito ripresa dal “Paìs”.
“Niente di ciò che accade al mondo, compresi i commenti dei giornali stranieri, è casuale o innocente”, dichiara Blanco, che rileva,come tutti, l’assoluta indisponibilità dei banchieri a nuovi controlli, e specifica: “Tutto ha uno scopo. I commenti apocalittici sulla situazione economica in Spagna non aiutano il nostro paese. C’è un attacco sull’euro al quale si dovrebbe dare una risposta”. Nulla di più ovvio. Ma il governo spagnolo chiama in causa nominativamente il “Wall Street Journal”, il “Financial Times” e l’“Economist”. Blanco non li cita, ma chi ne riferisce l’intervista lo fa ripetutamente. Il concorrente moderato del “Paìs”, “El Mundo”, di proprietà del “Corriere delLa sera”, è tentato di non sostenere il governo, ma poi in qualche modo concorda, coprendosi con un “si afferma alla Commissione Europea”, forse dal vice-presidente Almùnia: “Più che una cospirazione politica, sembra proprio esserci un gruppo di hedge funds e fondi speculativi che cercano di uscire dalla crisi ripetendo il gioco del 1992, quando per guadagnare molto in poco tempo bastava scommettere quale moneta europea si svalutava prima”.
Il Financial Times” risponde l’8 febbraio, cioè non risponde. Fa dire a uno dei suo blogger, Alphaville, a firma Izabella Kaminska, una giornalista austriaca trapiantata a Londra, che Blanco è paranoico, forse. Izabella ridicolizza il ministro citandolo nella maccheronica traduzione automatica di Google. Sulla quale può concludere: “Questo, naturalmente, suona un po’ paranoico”. Aggiunge anche che non è la prima volta che “i governi Cee” si lamentano. E un lettore della rampante Izabella non sa a cosa si riferisce se non si ricorda che vent’anni fa la Ue era Cee, Comunità economica europea. Nei commenti al blog non manca, “naturalmente”, chi dice la Spagna e Blanco un po’ nazisti, come la Germania e Hitler - ma non sono mancati nella stampa spagnola i richiami alle origini corsare della finanza britannica: quando la Corte di St. James condannava la pirateria e concedeva patenti di nobiltà a Francis Drake e compagni.
Domenica 14 “El Paìs” dà in prima pagina, molto ampiamente e seriamente, notizia di una serie di contatti presi dai servizi segreti (Centro Nacional de Inteligencia) con banchieri e operatori finanziari per accertare se c’è stata speculazione contro l’euro puntando sui titoli di debito spagnoli: “La divisione di Intelligence economica indaga sugli attacchi concentrici degli investitori e l’aggressività mostrata da alcuni mezzi di comunicazione anglosassoni”. Martedì 16 l’Ubs, la banca svizzera, non richiesta, fa un lungo comunicato che nega ogni speculazione, per dire cioè che c’è stata.
Il 17 febbraio, dopo due settimane, risponde a Blanco il “Wall Street Journal”, con un commento intitolato “La teoria europea della congiura”. Il commento assicura che “la paranoia è abitualmente un sintomo, e non la causa, della decadenza di una civiltà”. E afferma che l’Europa, colpita dalla crisi, “è caduta vittima di questa malattia”. Non dice però perché l’euro ha perso l’11 per cento in una settimana, per quale motivo di reale squilibrio economico col dollaro.
Il 19 febbraio il giornale greco “To Vima”, la tribuna, rivela che secondo i servizi segreti greci (Eyp) quattro grandi hedge funds hanno venduto a dicembre “in misura massiccia obbligazioni greche, che ricompravano a prezzi ridotti a fine giornata”. Il giornale nomina i fondi americani Moore Capital, Fidelity International, Paulson & Co, e quello britannico Brevan Howard, come operatori della manovra. Il premier greco Papandreu commenta la notizia, così come in precedenza, spiegando che sotto attacco non era la Grecia ma l’euro. Brevan Howard ha smentito. Ma solo per far sapere che, dopo dicembre, non ha più fatto operazioni sul debito greco - come dire agli investitori: “Tranquilli, è tutto guadagno, siamo usciti prima”.
Non c’è congiura, “naturalmente”. Anche se il rating del debito greco, il giudizio delle agenzie di valutazione internazionali, cioè angloamericane, era a dicembre lo stesso che per il debito italiano, anzi per Standard & Poor lo era fino a metà gennaio. E anche se la Spagna, dopo l'uscita di Blanco, è uscita dal mirino, come per un colpo di bacchetta magica Malgrado i suoi 4,5 milioni di disoccupati, nessuna prospettiva di ripresa quest’anno, e forse nemmeno l’anno prossimo, e i 300 miliardi di debiti dell’immobiliare che molti considerano incagliati e irrecuperabili. L’editoriale del “Wall Street Journal” si chiudeva minaccioso. Il complesso della congiura, ammoniva, “allarmerà gli investitori molto più di qualsiasi editoriale critico di giornale”. E invece nulla è successo: l’euro, dopo il crollo a 1,35 sul dollaro a dicembre, a febbraio non ha avuto la seconda scossa, è ancora lì, anzi in leggero rialzo.
Tutto questo mentre i Nobel per l’economia davano man forte a questo o quello schieramento. Robert Mundell agli speculatori, specificamente contro l’Italia, mentre Stiglitz chiedeva “il rogo per gli speculatori”. Una battaglia di giganti, di cui il lettore italiano ha potuto non sapere nulla: i giornaloni italiani, così lesti a riferire cosa pensa nel sonno l’“Ft”, o il “Wall Street Journal”, non ne hanno fatto cenno. Nessun cenno a Stark, nessuno alle indagini spagnole, né alle indagini greche, e neppure alla servizievole Izabella, donna di sicuro futuro. Ma la distrazione esiste, non è da presumere che le banche e i fondi speculativi paghino i nostri giornalisti.
Tra metà dicembre e fine gennaio, quando il dollaro ha riguadagnato sull’euro l’11 per cento, si sono diffuse molte voci sull’insostenibilità del debito greco, dapprima, poi di quello spagnolo. La fonte era sempre la stessa, Nouriel Roubini, il consulente bancario di New York che è stato reso famoso per avere previsto il crollo del 2008 - che tutti avevano visto arrivare, non c’era bisogno di prevederlo. Quando Roubini puntò il dito sulla Spagna, Zapatero si precipitò al forum di Davos, per preannunciare tagli al debito, mandò la sua vice a Londra, a preannunciare altri tagli, e al ministro dello Sviluppo Blanco, lo Scajola iberico, suo vice al Psoe, il partito Socialista, confidò la denuncia della speculazione, subito ripresa dal “Paìs”.
“Niente di ciò che accade al mondo, compresi i commenti dei giornali stranieri, è casuale o innocente”, dichiara Blanco, che rileva,come tutti, l’assoluta indisponibilità dei banchieri a nuovi controlli, e specifica: “Tutto ha uno scopo. I commenti apocalittici sulla situazione economica in Spagna non aiutano il nostro paese. C’è un attacco sull’euro al quale si dovrebbe dare una risposta”. Nulla di più ovvio. Ma il governo spagnolo chiama in causa nominativamente il “Wall Street Journal”, il “Financial Times” e l’“Economist”. Blanco non li cita, ma chi ne riferisce l’intervista lo fa ripetutamente. Il concorrente moderato del “Paìs”, “El Mundo”, di proprietà del “Corriere delLa sera”, è tentato di non sostenere il governo, ma poi in qualche modo concorda, coprendosi con un “si afferma alla Commissione Europea”, forse dal vice-presidente Almùnia: “Più che una cospirazione politica, sembra proprio esserci un gruppo di hedge funds e fondi speculativi che cercano di uscire dalla crisi ripetendo il gioco del 1992, quando per guadagnare molto in poco tempo bastava scommettere quale moneta europea si svalutava prima”.
Il Financial Times” risponde l’8 febbraio, cioè non risponde. Fa dire a uno dei suo blogger, Alphaville, a firma Izabella Kaminska, una giornalista austriaca trapiantata a Londra, che Blanco è paranoico, forse. Izabella ridicolizza il ministro citandolo nella maccheronica traduzione automatica di Google. Sulla quale può concludere: “Questo, naturalmente, suona un po’ paranoico”. Aggiunge anche che non è la prima volta che “i governi Cee” si lamentano. E un lettore della rampante Izabella non sa a cosa si riferisce se non si ricorda che vent’anni fa la Ue era Cee, Comunità economica europea. Nei commenti al blog non manca, “naturalmente”, chi dice la Spagna e Blanco un po’ nazisti, come la Germania e Hitler - ma non sono mancati nella stampa spagnola i richiami alle origini corsare della finanza britannica: quando la Corte di St. James condannava la pirateria e concedeva patenti di nobiltà a Francis Drake e compagni.
Domenica 14 “El Paìs” dà in prima pagina, molto ampiamente e seriamente, notizia di una serie di contatti presi dai servizi segreti (Centro Nacional de Inteligencia) con banchieri e operatori finanziari per accertare se c’è stata speculazione contro l’euro puntando sui titoli di debito spagnoli: “La divisione di Intelligence economica indaga sugli attacchi concentrici degli investitori e l’aggressività mostrata da alcuni mezzi di comunicazione anglosassoni”. Martedì 16 l’Ubs, la banca svizzera, non richiesta, fa un lungo comunicato che nega ogni speculazione, per dire cioè che c’è stata.
Il 17 febbraio, dopo due settimane, risponde a Blanco il “Wall Street Journal”, con un commento intitolato “La teoria europea della congiura”. Il commento assicura che “la paranoia è abitualmente un sintomo, e non la causa, della decadenza di una civiltà”. E afferma che l’Europa, colpita dalla crisi, “è caduta vittima di questa malattia”. Non dice però perché l’euro ha perso l’11 per cento in una settimana, per quale motivo di reale squilibrio economico col dollaro.
Il 19 febbraio il giornale greco “To Vima”, la tribuna, rivela che secondo i servizi segreti greci (Eyp) quattro grandi hedge funds hanno venduto a dicembre “in misura massiccia obbligazioni greche, che ricompravano a prezzi ridotti a fine giornata”. Il giornale nomina i fondi americani Moore Capital, Fidelity International, Paulson & Co, e quello britannico Brevan Howard, come operatori della manovra. Il premier greco Papandreu commenta la notizia, così come in precedenza, spiegando che sotto attacco non era la Grecia ma l’euro. Brevan Howard ha smentito. Ma solo per far sapere che, dopo dicembre, non ha più fatto operazioni sul debito greco - come dire agli investitori: “Tranquilli, è tutto guadagno, siamo usciti prima”.
Non c’è congiura, “naturalmente”. Anche se il rating del debito greco, il giudizio delle agenzie di valutazione internazionali, cioè angloamericane, era a dicembre lo stesso che per il debito italiano, anzi per Standard & Poor lo era fino a metà gennaio. E anche se la Spagna, dopo l'uscita di Blanco, è uscita dal mirino, come per un colpo di bacchetta magica Malgrado i suoi 4,5 milioni di disoccupati, nessuna prospettiva di ripresa quest’anno, e forse nemmeno l’anno prossimo, e i 300 miliardi di debiti dell’immobiliare che molti considerano incagliati e irrecuperabili. L’editoriale del “Wall Street Journal” si chiudeva minaccioso. Il complesso della congiura, ammoniva, “allarmerà gli investitori molto più di qualsiasi editoriale critico di giornale”. E invece nulla è successo: l’euro, dopo il crollo a 1,35 sul dollaro a dicembre, a febbraio non ha avuto la seconda scossa, è ancora lì, anzi in leggero rialzo.
Tutto questo mentre i Nobel per l’economia davano man forte a questo o quello schieramento. Robert Mundell agli speculatori, specificamente contro l’Italia, mentre Stiglitz chiedeva “il rogo per gli speculatori”. Una battaglia di giganti, di cui il lettore italiano ha potuto non sapere nulla: i giornaloni italiani, così lesti a riferire cosa pensa nel sonno l’“Ft”, o il “Wall Street Journal”, non ne hanno fatto cenno. Nessun cenno a Stark, nessuno alle indagini spagnole, né alle indagini greche, e neppure alla servizievole Izabella, donna di sicuro futuro. Ma la distrazione esiste, non è da presumere che le banche e i fondi speculativi paghino i nostri giornalisti.
La giustizia infamante delle intercettazioni
Il “Corriere della sera” è più all’orecchio della Procura fiorentina, e dunque seguiamo lo scandalo della Protezione Civile attraverso il maggior giornale italiano. Lunedì dà nei particolari un’intercettazione, fornita dai carabinieri, sulla vendita di uno studio parigino da parte di un figlio di Balducci al ballerino Bollé. Il titolo lascia anche intendere commenti spregiativi dei venditori sul ballerino. Ma l’intercettazione fornita dai carabinieri non ne reca traccia. Il giorno dopo una breve precisazione di Bollé per dire che tutto è a norma.
Sempre lunedì un’altra intercettazione, sempre fornita dai carabinieri, occupa una pagina del “Corriere”: Balducci parla di “zio”, c'è dunque "uno zio", arguisce l'informativa, a capo di tutto. Il giorno dopo lo zio si manifesta per il medico di Balducci – che, essendo rettore a Tor Vergata, conosce evidentemente i contravveleni. Ma non è finita. Si è nel frattempo ipotizzato che “lo zio” sia Berlusconi, e allora martedì viene utile una pagina per precisare che lo zio non è Berlusconi, cioè per nominare di nuovo Berlusconi. Sabato un'altra intercettazione, sempre dei carabinieri, ha tirato in ballo Giancarlo Leone, che produce i film per la Rai, e in veste di produttore avrebbe dato un ruolo all'attore Lorenzo Balducci. Colpa grave. Ma domenica Leone sfida l'intecettazione e la cosa viene lasciata cadere: "Spero che mi abbiano intercettato, così si saprà la verità" fa dire al produttore esecutivo del film in cui compare Lorenzo Balducci. Figlio di un presidente della Repubblica già ampiamente calunniato da Milano, Giancarlo Leone conosce evidentemente anche lui i contravveleni.
Uno non saprebbe dispiacersene. Leone è un galantuomo notorio. Mentre Berlusconi ha abbastanza pelo sullo stomaco per confrontarsi col suo giornale, il giornale di Milano. Ma i carabinieri? I carabinieri non hanno intercettato il rettore di Tor Vergata, o l’hanno intercettato e non l’hanno trascritto? Hanno intercettato il produttore Barbagallo, referente di Leone, e poi non l'hanno trascritto? Per chi viene dalla scandalo della Juventus non è un modo di procedere del tutto nuovo. Ma perché i carabinieri lasciano le intercettazioni a metà? E perché lasciano quelle che forniscono in sospeso? Per favorire le indagini? Per affossarle? All’inizio dello scandalo avevano dato lunghe intercettazioni che chiamavano in causa una Francesca, e poi una Monica, come prostitute fornite a Bertolaso. Nomi poi trascurati, perché le due donne si erano rilevate onorevoli - salvo che per le prefiche di Rai Tre, Fazio, Litizzetto e compagnia, alle quali i carabinieri hanno fornito un comodo appiglio per parlare genericamente di un’Italia prostituita. Perché i carabinieri non hanno fatto una telefonata, non costa, per accertare chi era Francesca, chi era Monica? Su questo non ci vuole eccezionale capacità investigativa. O volevano solo dare una ragione di esistere alle prefiche?
L’inchiesta si regge così solo sul cinismo accertato dell’imprenditore che rideva al terremoto. Grande novità. Esclusiva anche. Ci volevano i carabinieri per scoprirlo. Nessuna ricerca è invece stata fatta del malloppo: se c’è corruzione ci dev’essere passaggio di denaro. E allora a questo ovvia il “Corriere” martedì, aprendo un nuovo fronte d’intercettazioni, sempre fornite dai carabinieri: gli accusati si occupano dei loro figli. Quando si telefonano ogni tanto parlano dei propri figli. Non parlano di soldi, non parlano di donne, non parlano di appalti, parlano di figli. Che come per tutti i genitori non fanno abbastanza. E questo è molto grave.
Sempre lunedì un’altra intercettazione, sempre fornita dai carabinieri, occupa una pagina del “Corriere”: Balducci parla di “zio”, c'è dunque "uno zio", arguisce l'informativa, a capo di tutto. Il giorno dopo lo zio si manifesta per il medico di Balducci – che, essendo rettore a Tor Vergata, conosce evidentemente i contravveleni. Ma non è finita. Si è nel frattempo ipotizzato che “lo zio” sia Berlusconi, e allora martedì viene utile una pagina per precisare che lo zio non è Berlusconi, cioè per nominare di nuovo Berlusconi. Sabato un'altra intercettazione, sempre dei carabinieri, ha tirato in ballo Giancarlo Leone, che produce i film per la Rai, e in veste di produttore avrebbe dato un ruolo all'attore Lorenzo Balducci. Colpa grave. Ma domenica Leone sfida l'intecettazione e la cosa viene lasciata cadere: "Spero che mi abbiano intercettato, così si saprà la verità" fa dire al produttore esecutivo del film in cui compare Lorenzo Balducci. Figlio di un presidente della Repubblica già ampiamente calunniato da Milano, Giancarlo Leone conosce evidentemente anche lui i contravveleni.
Uno non saprebbe dispiacersene. Leone è un galantuomo notorio. Mentre Berlusconi ha abbastanza pelo sullo stomaco per confrontarsi col suo giornale, il giornale di Milano. Ma i carabinieri? I carabinieri non hanno intercettato il rettore di Tor Vergata, o l’hanno intercettato e non l’hanno trascritto? Hanno intercettato il produttore Barbagallo, referente di Leone, e poi non l'hanno trascritto? Per chi viene dalla scandalo della Juventus non è un modo di procedere del tutto nuovo. Ma perché i carabinieri lasciano le intercettazioni a metà? E perché lasciano quelle che forniscono in sospeso? Per favorire le indagini? Per affossarle? All’inizio dello scandalo avevano dato lunghe intercettazioni che chiamavano in causa una Francesca, e poi una Monica, come prostitute fornite a Bertolaso. Nomi poi trascurati, perché le due donne si erano rilevate onorevoli - salvo che per le prefiche di Rai Tre, Fazio, Litizzetto e compagnia, alle quali i carabinieri hanno fornito un comodo appiglio per parlare genericamente di un’Italia prostituita. Perché i carabinieri non hanno fatto una telefonata, non costa, per accertare chi era Francesca, chi era Monica? Su questo non ci vuole eccezionale capacità investigativa. O volevano solo dare una ragione di esistere alle prefiche?
L’inchiesta si regge così solo sul cinismo accertato dell’imprenditore che rideva al terremoto. Grande novità. Esclusiva anche. Ci volevano i carabinieri per scoprirlo. Nessuna ricerca è invece stata fatta del malloppo: se c’è corruzione ci dev’essere passaggio di denaro. E allora a questo ovvia il “Corriere” martedì, aprendo un nuovo fronte d’intercettazioni, sempre fornite dai carabinieri: gli accusati si occupano dei loro figli. Quando si telefonano ogni tanto parlano dei propri figli. Non parlano di soldi, non parlano di donne, non parlano di appalti, parlano di figli. Che come per tutti i genitori non fanno abbastanza. E questo è molto grave.
Il cappio del debito sull'Occidente
A che punto è il debito delle economie industrializzate? In crescita esponenziale e, apparentemente, insostenibile. Le cifre sono quelle, e applicandosi in sostanza all’Eruopa e agli usa, si possono dire un cappio stretto attorno all’Occidente. Ma predisposto e manovrato dallo stesso Occidente, e finanziato per ora, sicuramente a qualche costo, dall’Oriente. Per cui, insomma, resta de decidere se è un caso di eutanasia, così in voga nello stesso Occidente, o di un sapiente nuovo imperialismo.
A ogni rilevazione il debito si mostra mostruosamente cresciuto. Prendiamo i dati del Fondo Monetario Internazionale, il più istituzionale e cauto degli organismi finanziari globali. Nel rapporto del giugno 2009 scriveva che “gli equilibri di finanza pubblica del G-20 si prevede si indeboliranno di otto punti percentuali del pil in media, e il debito pubblico si prevede crescerà di venti punti percentuali del pil nel 2009”. Si dice G-20 ma si intendono i paesi occidentali, più il Giappone. Il rapporto prevedeva che nel 2010 il debito pubblico lordo dei dieci paesi più ricchi avrebbe raggiunto il 106 per cento del pil (è il rapportio debito\pil italiano, considerato insostenibile), in crescita del 78 per cento dal 2007, con l’aggiunta di novemila m,liardi di nuovo debito in tre anni. Nel 2014 il rapporto del giugno 2009 stimava un dbeito al 114 per cento del pil degli stessi dieci paesi più ricchi.
A novembre il Fmi peggiorava le previsioni, portando il rapporto debito\pil dei pasi più sviluppati al 118 per cento nel 2014. A febbraio, per il G 7 di Iqaluit in Canada, ha preparato uno studio che peggiorava di nuovo le previsioni: il rapporto debito\pil salirà al 120 per cento nel 2014, dall’80 per cento che era ancora nel2008. Che si confronta, aggiunge il Fondo, con una prospettiva specularmente rovesciata per le economie emergenti. Qui il rapporto debito\pil va a declinare dopo il 2010, seppure “moderatamente”, mantenendosi nel medio termine sotto il 40 per cento. Creando cioè spazio infinito per lo sviluppo. La crescita del debito pubblico è prevista in forte crescita soprattutto negli Usa, in Gran Bretagna e in Giappone. In rapporto al al pil il Fmi la cifra nei tre anni dal 2009 al 2011 in 11,3 per cento, 10 e 7,1 per gli Usa, in 12,5 per cento, 12 e 9,4 per la Gran Bretagna, e nel 9,1 per cento, 8,7 e 8,4 per il Giappone.
Il Giappone, che ha un debito pubblico superiore al 200 per cento del pil, è peraltro il primo creditore degli Usa: detiene titoli del debito americano per oltre 750 miliardi di dollari. Il secondo maggior creditore è la Cina. Che però, come ha detto a Davos il vice-governatore della banca centrale di Pechino, Zhu Min, “non può comprare tutto il debito che l’Occidente deve accendere per finanziare l’uscita dalla crisi”. Le statistiche americane non sono aggiornate ma si sa che Washington punta molto sul sostegno cinese al dollaro.
Il debito Usa sottoscritto all’estero era il 25 per cento del totale nel 2007 (più che doppio rispetto a dieci anni prima). Corrispondente al 44 per cento del debito sottoscritto dai privati. Il 66 per cento di questo 44 per cento era detenuto da banche centrali, in particolare dalle banche centrali di Giappone e Cina. A fine 2009 il Giappone deteneva titoli del debito federale per 769 miliardi di dollari, il 21,3 per cento del totale, la Cina 755 miliardi, il 20,9 per cento.
Il debito americano si nasconde. In parte statisticamente, facendo differenza fra debito pubblico, nel senso che è sottoscritto dai privati, e debito lordo, compreso i fondi detenuti da enti governativi Differenza cui si aggiunge il ruolo peculiare della Fed, il sistema bancario centrale Usa, che crea liquidità e la compra – ma non per questo diminuisce il debito. E si contabilizza solo il debito federale, non quello degli stati della federazione. Il debito lordo federale è cresciuto di 500 miliardi di dollari l’anno dal 2003, di mille miliardi nel 2008, e di poco meno di duemila miliardi nel 2009. Era stimato all’86 per cento del pil nel 2009, supererà il 100 per cento quest’anno.
A ogni rilevazione il debito si mostra mostruosamente cresciuto. Prendiamo i dati del Fondo Monetario Internazionale, il più istituzionale e cauto degli organismi finanziari globali. Nel rapporto del giugno 2009 scriveva che “gli equilibri di finanza pubblica del G-20 si prevede si indeboliranno di otto punti percentuali del pil in media, e il debito pubblico si prevede crescerà di venti punti percentuali del pil nel 2009”. Si dice G-20 ma si intendono i paesi occidentali, più il Giappone. Il rapporto prevedeva che nel 2010 il debito pubblico lordo dei dieci paesi più ricchi avrebbe raggiunto il 106 per cento del pil (è il rapportio debito\pil italiano, considerato insostenibile), in crescita del 78 per cento dal 2007, con l’aggiunta di novemila m,liardi di nuovo debito in tre anni. Nel 2014 il rapporto del giugno 2009 stimava un dbeito al 114 per cento del pil degli stessi dieci paesi più ricchi.
A novembre il Fmi peggiorava le previsioni, portando il rapporto debito\pil dei pasi più sviluppati al 118 per cento nel 2014. A febbraio, per il G 7 di Iqaluit in Canada, ha preparato uno studio che peggiorava di nuovo le previsioni: il rapporto debito\pil salirà al 120 per cento nel 2014, dall’80 per cento che era ancora nel2008. Che si confronta, aggiunge il Fondo, con una prospettiva specularmente rovesciata per le economie emergenti. Qui il rapporto debito\pil va a declinare dopo il 2010, seppure “moderatamente”, mantenendosi nel medio termine sotto il 40 per cento. Creando cioè spazio infinito per lo sviluppo. La crescita del debito pubblico è prevista in forte crescita soprattutto negli Usa, in Gran Bretagna e in Giappone. In rapporto al al pil il Fmi la cifra nei tre anni dal 2009 al 2011 in 11,3 per cento, 10 e 7,1 per gli Usa, in 12,5 per cento, 12 e 9,4 per la Gran Bretagna, e nel 9,1 per cento, 8,7 e 8,4 per il Giappone.
Il Giappone, che ha un debito pubblico superiore al 200 per cento del pil, è peraltro il primo creditore degli Usa: detiene titoli del debito americano per oltre 750 miliardi di dollari. Il secondo maggior creditore è la Cina. Che però, come ha detto a Davos il vice-governatore della banca centrale di Pechino, Zhu Min, “non può comprare tutto il debito che l’Occidente deve accendere per finanziare l’uscita dalla crisi”. Le statistiche americane non sono aggiornate ma si sa che Washington punta molto sul sostegno cinese al dollaro.
Il debito Usa sottoscritto all’estero era il 25 per cento del totale nel 2007 (più che doppio rispetto a dieci anni prima). Corrispondente al 44 per cento del debito sottoscritto dai privati. Il 66 per cento di questo 44 per cento era detenuto da banche centrali, in particolare dalle banche centrali di Giappone e Cina. A fine 2009 il Giappone deteneva titoli del debito federale per 769 miliardi di dollari, il 21,3 per cento del totale, la Cina 755 miliardi, il 20,9 per cento.
Il debito americano si nasconde. In parte statisticamente, facendo differenza fra debito pubblico, nel senso che è sottoscritto dai privati, e debito lordo, compreso i fondi detenuti da enti governativi Differenza cui si aggiunge il ruolo peculiare della Fed, il sistema bancario centrale Usa, che crea liquidità e la compra – ma non per questo diminuisce il debito. E si contabilizza solo il debito federale, non quello degli stati della federazione. Il debito lordo federale è cresciuto di 500 miliardi di dollari l’anno dal 2003, di mille miliardi nel 2008, e di poco meno di duemila miliardi nel 2009. Era stimato all’86 per cento del pil nel 2009, supererà il 100 per cento quest’anno.
domenica 21 febbraio 2010
Draghi come Sansone
Messo nel mirino dai suoi banchieri, in preparazione dell’attacco al debito italiano, Draghi si difende attaccando lui stesso il debito? È possibile, il governatore è troppo dipendente dai suoi banchieri anglosassoni. Non c’è altra spiegazione alla sceneggiata che ha improvvisato sullo scudo fiscale.
Nel week-end fonti bancarie fanno circolare sul “New York Times”, nientemeno, la voce che Mario Draghi, quand’era direttore generale del Tesoro e poi alla Goldman Sachs, autorizzasse e praticasse vendite avventurose, se non fraudolente, di derivati. Subito l’agenzia bancaria Bloomberg intervista il Nobel Mundell, giusto per dire l’Italia un “paese a rischio”. Rilanciando così la campagna, tenuta in caldo da “Economist”, “Financial Times” e “Wall Street Journal”, le vestali della speculazione, per colpire eventualmente l’Italia, una volta messa in cascina l’operazione Grecia.
Draghi replica al “New York Times”, debolmente. Anche perché il “New York Times” non lo ha nominato. In un articolo circostanziato, opera di tre specialisti, ha descritto alcune operazioni, di derivati venduti alla Grecia, e di swaps con cui la Grecia e l’Italia hanno potuto mascherare parte dell’indebitamento, un paio delle quali riconducibili a Draghi. Come? Attraverso Gustavo Piga, l’unica fonte citata nell’articolo. Economista a Roma Tor Vergata, dopo un’esperienza alla Columbia e a Macerata, con ottimi rapporti nel Council on Foreign Relations di New York, dieci anni fa Piga aveva denunciato Draghi per un’operazione di swap nel 1996, come direttore generale del Tesoro, con la banca JP Morgan, per garantire surrettiziamente liquidità al governo. Il governo era quello di Prodi, e Piga, nipote dell’ex presidente della Consob Franco Piga, è amico ed è stato collaboratore di Mario Baldassarri, l’economista che fu viceministro dell’Economia nel secondo governo Berlusconi. Ma, poi, Piga è uno a cui piace stare su Facebook, e non ha mai fatto il nome di Draghi, anzi non ha nemmeno citato l’Italia per lo swap 1996, il suo studio era “ipotetico”.
Col governo invece Draghi fa sul serio. Mercoledì 17 febbraio ha egli stesso pronto, un calcolo che rilancia il rischio Italia. Approntato in 24 ore, “sui dati al 15 febbraio” dei rientri dello scudo fiscale, lo studio afferma che è rientrato appena un terzo di quanto il governo dice, 34 miliardi. I giornali non capiscono, compresa “Repubblica”, e l’indomani si limitano a dire che la Banca d’Italia calcola un rientro di 85 miliardi invece dei 98 pretesi dal governo, non mettendo nel conto alcune poste (rientri per cifre piccole, preziosi, opere d’arte, e altre voci). Il 19 ci pensa allora Maria Cecilia Guerra, sintonizzata da Roma, a richiamare l’attenzione: la Banca d’Italia stima a soli 34,8 miliardi i rientri, invece che a 98. Subito rilanciata dal fastidioso Bragantini, the man of the party. Anche “Repubblica” il giorno dopo corregge il tiro: “Bankitalia «corregge» il Tesoro sui rientri effettivi: il 60 per cento resta all’estero”. Dopo “Repubblica” interverrà il direttore generale delle Entrate Befera, per confermare i dati del governo.
Tempesta rientrata? No, è un assaggio. Che uno studio vecchio di dieci anni, che non cita l'Italia, un case study, opera di un economista italiano, ricicci sul più influente giornale americano non è casuale. Tutto fa brodo quando si prepara un'offensiva, gli archivi hanno memoria lunga, e anche un caso ipotetico, di uno svagato professore allora di Macerata, viene utile. Ben più incisivo è il tiro sul debito di una banca centrale seppure ex, come la Banca d'Italia. Poiché di un tiro si è trattato e non di una difesa, come sarebbe stato opportuno.
Befera si difende con le metodologie, e non può fare altro, essendo un burocrate. Anche Guerra, economista a Modena, consulente dell’Economia prima di Tremonti, nemica dichiarata dello scudo fiscale, si è cautelata con le metodologie, ma forse non ha capito di cosa si sta parlando. Tutt’e due, insomma, hanno ragione: Befera aveva incassato, a fine dicembre, per il 5 per cento d’imposta sui rientri, 4.75 miliardi. Quindi i rientri sono quanto dice lui. Diverso è il conto della disponibilità, in Italia, dei capitali rientrati: ridomiciliati in Italia, possono essere liberamente investiti nella Ue. Una tempesta in un bicchier d'acqua. Per di più, chi legge Guerra lo vede, in chiave elettorale.
Ma per la tempistica e la pretestuosità del calcolo l'intervento della Banca d'Italia, segnalato e spiegato alla professoressa Guerra e a un paio di giornalisti, ha uno scopo chiaro: mettere in difficoltà i conti pubblici. È una schermaglia, forse un avvertimento. Ma è un avvertimento che vede la Banca d’Italia impegnata a indebolire la posizione di relativa fiducia di cui i conti pubblici italiani temporaneamente beneficiano. A che scopo? Un altro Sansone avrebbe risposto al ricatto dei banchieri facendo traballare il loro tempio. Draghi, essendo andato a scuola dai gesuiti, evidentemente no - loro ne sanno sempre di più.
Probabilmente sanno che la speculazione non è un complotto in armi, ma una serie ben congegnata di voci. Anche amichevoli. Ora dovrebbe essere un'agenzia di rating a mettere sotto osservazione l'Italia, è così che si fa. Anzi, si può pure scommettere che lo farà. Se Tremonti non si muoverà in contropiede - un ministro dell'Economia ha molte offe, per le banche e per le loro agenzie di rating. Prima della bufera il rating del debito greco era lo stesso dell'Italia. Anzi, per Standard & Poor's è stato lo stesso fino a metà gennaio. Il che può voler dire che Tremonti è riuscito a mantenere saldo il timone, almeno fino a quella data. Oppure che niente è scontato.
Nel week-end fonti bancarie fanno circolare sul “New York Times”, nientemeno, la voce che Mario Draghi, quand’era direttore generale del Tesoro e poi alla Goldman Sachs, autorizzasse e praticasse vendite avventurose, se non fraudolente, di derivati. Subito l’agenzia bancaria Bloomberg intervista il Nobel Mundell, giusto per dire l’Italia un “paese a rischio”. Rilanciando così la campagna, tenuta in caldo da “Economist”, “Financial Times” e “Wall Street Journal”, le vestali della speculazione, per colpire eventualmente l’Italia, una volta messa in cascina l’operazione Grecia.
Draghi replica al “New York Times”, debolmente. Anche perché il “New York Times” non lo ha nominato. In un articolo circostanziato, opera di tre specialisti, ha descritto alcune operazioni, di derivati venduti alla Grecia, e di swaps con cui la Grecia e l’Italia hanno potuto mascherare parte dell’indebitamento, un paio delle quali riconducibili a Draghi. Come? Attraverso Gustavo Piga, l’unica fonte citata nell’articolo. Economista a Roma Tor Vergata, dopo un’esperienza alla Columbia e a Macerata, con ottimi rapporti nel Council on Foreign Relations di New York, dieci anni fa Piga aveva denunciato Draghi per un’operazione di swap nel 1996, come direttore generale del Tesoro, con la banca JP Morgan, per garantire surrettiziamente liquidità al governo. Il governo era quello di Prodi, e Piga, nipote dell’ex presidente della Consob Franco Piga, è amico ed è stato collaboratore di Mario Baldassarri, l’economista che fu viceministro dell’Economia nel secondo governo Berlusconi. Ma, poi, Piga è uno a cui piace stare su Facebook, e non ha mai fatto il nome di Draghi, anzi non ha nemmeno citato l’Italia per lo swap 1996, il suo studio era “ipotetico”.
Col governo invece Draghi fa sul serio. Mercoledì 17 febbraio ha egli stesso pronto, un calcolo che rilancia il rischio Italia. Approntato in 24 ore, “sui dati al 15 febbraio” dei rientri dello scudo fiscale, lo studio afferma che è rientrato appena un terzo di quanto il governo dice, 34 miliardi. I giornali non capiscono, compresa “Repubblica”, e l’indomani si limitano a dire che la Banca d’Italia calcola un rientro di 85 miliardi invece dei 98 pretesi dal governo, non mettendo nel conto alcune poste (rientri per cifre piccole, preziosi, opere d’arte, e altre voci). Il 19 ci pensa allora Maria Cecilia Guerra, sintonizzata da Roma, a richiamare l’attenzione: la Banca d’Italia stima a soli 34,8 miliardi i rientri, invece che a 98. Subito rilanciata dal fastidioso Bragantini, the man of the party. Anche “Repubblica” il giorno dopo corregge il tiro: “Bankitalia «corregge» il Tesoro sui rientri effettivi: il 60 per cento resta all’estero”. Dopo “Repubblica” interverrà il direttore generale delle Entrate Befera, per confermare i dati del governo.
Tempesta rientrata? No, è un assaggio. Che uno studio vecchio di dieci anni, che non cita l'Italia, un case study, opera di un economista italiano, ricicci sul più influente giornale americano non è casuale. Tutto fa brodo quando si prepara un'offensiva, gli archivi hanno memoria lunga, e anche un caso ipotetico, di uno svagato professore allora di Macerata, viene utile. Ben più incisivo è il tiro sul debito di una banca centrale seppure ex, come la Banca d'Italia. Poiché di un tiro si è trattato e non di una difesa, come sarebbe stato opportuno.
Befera si difende con le metodologie, e non può fare altro, essendo un burocrate. Anche Guerra, economista a Modena, consulente dell’Economia prima di Tremonti, nemica dichiarata dello scudo fiscale, si è cautelata con le metodologie, ma forse non ha capito di cosa si sta parlando. Tutt’e due, insomma, hanno ragione: Befera aveva incassato, a fine dicembre, per il 5 per cento d’imposta sui rientri, 4.75 miliardi. Quindi i rientri sono quanto dice lui. Diverso è il conto della disponibilità, in Italia, dei capitali rientrati: ridomiciliati in Italia, possono essere liberamente investiti nella Ue. Una tempesta in un bicchier d'acqua. Per di più, chi legge Guerra lo vede, in chiave elettorale.
Ma per la tempistica e la pretestuosità del calcolo l'intervento della Banca d'Italia, segnalato e spiegato alla professoressa Guerra e a un paio di giornalisti, ha uno scopo chiaro: mettere in difficoltà i conti pubblici. È una schermaglia, forse un avvertimento. Ma è un avvertimento che vede la Banca d’Italia impegnata a indebolire la posizione di relativa fiducia di cui i conti pubblici italiani temporaneamente beneficiano. A che scopo? Un altro Sansone avrebbe risposto al ricatto dei banchieri facendo traballare il loro tempio. Draghi, essendo andato a scuola dai gesuiti, evidentemente no - loro ne sanno sempre di più.
Probabilmente sanno che la speculazione non è un complotto in armi, ma una serie ben congegnata di voci. Anche amichevoli. Ora dovrebbe essere un'agenzia di rating a mettere sotto osservazione l'Italia, è così che si fa. Anzi, si può pure scommettere che lo farà. Se Tremonti non si muoverà in contropiede - un ministro dell'Economia ha molte offe, per le banche e per le loro agenzie di rating. Prima della bufera il rating del debito greco era lo stesso dell'Italia. Anzi, per Standard & Poor's è stato lo stesso fino a metà gennaio. Il che può voler dire che Tremonti è riuscito a mantenere saldo il timone, almeno fino a quella data. Oppure che niente è scontato.
L'orrore dell'antipolitica
La democrazia si deve ricostruire, dopo questa spanciata di liberismo che corrode. Si pensa che Bobbio avrebbe reagito così alla crisi, e al dominio imperante dell’interesse, che ci ha buttati nella crisi e ci tiene buoni col gossip, lo scandalismo, l’antipolitica. “Tra due Repubbliche” è una pubblicazione poco fortunata del filosofo, forse perché poco corriva. Le cinquanta pagine della Parte Seconda, che commentano la Prima Parte, i testi da lui pubblicati all’indomani della Liberazione, evidenziavano già nel 1996, ma dopo la vittoria del centrosinistra alle elezioni di aprile, gli equivoci di cui la Repubblica è ostaggio. C’è d’acchito il rifiuto dell’antipolitica, specie sotto la forma insidiosa del “tecnico specialista”, già in atto gol governo Scalfaro-Dini. C’è insistita, pur senza ancora sapere come sarebbe finito il centro-sinistra di Prodi, l'esigenza di partiti di massa, o di coalizioni omogenee: non c’è democrazia senza. Senza una mediazione politica dell’opinione pubblica.
Il saggio della Prima Parte del volumetto su "I partiti politici in Inghilterra" si legge peraltro come nuovo. Quello sulla concezione dello Stato, "La persona e lo Stato", liquidato dai curatori come un saggio di "personalismo", il liberalismo di Emmanuel Mounier e, a un certo punto, della Chiesa, è ancora singolamente nuovo. Per essere didascalico, e per avere anticipato l'assestamento poi intervenuto della dottrina hobbesiana dello Stato, la sua anima "divina", "etica", e il suo essere tecnico, di "cosa", "macchina". Là dove specifica il limite del liberalismo, dopo il merito di avere affermato i diritti dell'uomo prima dello Stato, che lo Stato concepisce come macchina, da far funzionare meglio e da asservire, sembra di leggere l'errore di oggi.
Bobbio non ha avuto il tempo o la voglia di approfondire il fenomeno Berlusconi (contro il quale si limita al sarcasmo, il difetto degli azionisti) e il fenomeno Bossi. Ma ha ancora la pazienza, contro il plebiscitarismo incipiente, nelle elezioni locali e nell’uninominale, di spiegare la necessità dei partiti per la governabilità. Che da studioso di Hobbes considera il bene di tutti, la radice della politica. Da scienziato della politica sapendo che la politica non si può configurare senza una stabilità, d’indirizzo, di fede. Contro i taumaturghi, i semplificatori, gli opportunisti, le scorciatoie, le furbate.
Norberto Bobbio, Tra due Repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Donzelli, pp. 151, € 4,13 (Remainders)
Il saggio della Prima Parte del volumetto su "I partiti politici in Inghilterra" si legge peraltro come nuovo. Quello sulla concezione dello Stato, "La persona e lo Stato", liquidato dai curatori come un saggio di "personalismo", il liberalismo di Emmanuel Mounier e, a un certo punto, della Chiesa, è ancora singolamente nuovo. Per essere didascalico, e per avere anticipato l'assestamento poi intervenuto della dottrina hobbesiana dello Stato, la sua anima "divina", "etica", e il suo essere tecnico, di "cosa", "macchina". Là dove specifica il limite del liberalismo, dopo il merito di avere affermato i diritti dell'uomo prima dello Stato, che lo Stato concepisce come macchina, da far funzionare meglio e da asservire, sembra di leggere l'errore di oggi.
Bobbio non ha avuto il tempo o la voglia di approfondire il fenomeno Berlusconi (contro il quale si limita al sarcasmo, il difetto degli azionisti) e il fenomeno Bossi. Ma ha ancora la pazienza, contro il plebiscitarismo incipiente, nelle elezioni locali e nell’uninominale, di spiegare la necessità dei partiti per la governabilità. Che da studioso di Hobbes considera il bene di tutti, la radice della politica. Da scienziato della politica sapendo che la politica non si può configurare senza una stabilità, d’indirizzo, di fede. Contro i taumaturghi, i semplificatori, gli opportunisti, le scorciatoie, le furbate.
Norberto Bobbio, Tra due Repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Donzelli, pp. 151, € 4,13 (Remainders)