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sabato 17 aprile 2010

Calciopoli 2 non si farà

Hanno atteso il deposito a Napoli delle intercettazioni sbobinate da Moggi e hanno deciso subito per il no. I club milanesi e il fedele Abete hanno deciso che non ci sarà una Calciopoli 2: niente sanzioni supplementari al Milan, e niente revoca dello scudetto assegnato all’Inter dagli interisti Rossi e Borrelli. Solo Collina lascerà l’incarico (lo lascerà lui, spintaneamente), alleggerendo così di fatto la posizione di Meani e Galliani.
Il timore delle milanesi, e del fido Abete, era che i tecnici di Moggi avessero intercettato altre conversazioni compromettenti. Soprattutto in merito alle borse e ai regali per gli arbitri e i designatori di cui nelle conversaszioni già sbobinate. Ma così non è stato. Né la Procura di Napoli e nessun’altra Procura ha chiesto di andare e vederci chiaro nei regali e nelle borse. Si è deciso a questo punto che il pericolo è scampato, e che non valeva la pena riaprire un processo federale che non avrebbe potuto non avere qualche esito non positivo per le milanesi.
Ufficialmente, si dice, l’inchiesta non è chiusa. Ma in realtà l’inchiesta non è stata aperta, e solo per questo non si può chiudere. C’era un preallarme per la Procura federale della Figc che Abete ha di fatto lasciato cadere. I cronisti sportivi legati alla Federazione ne hanno avuto immediato preallarme nella stessa giornata di martedì.

Fini spaventa i suoi

Corrono tutti, corrono via, dacché si è messo a fare il leader. Nei tre centri di potere dei finiani, la corsa a smarcarsi è frenetica. Polverini ha preso la tessera di Berlusconi, e vuole che si sappia. Non ha fatto la gunta, unica fra i presidenti eletti il 28 maroz, perché non vuole gente del suo partito. Il sindaco di Reggio, Scopelliti, neo presidente della Regione Calabria, ha tenuto per sè quattro assessorati, per primo la Sanità, pur di non darli a suoi ex compagni di partito, chiede un incontro con Berlusconi. Al Comune di Roma gli ex An tacciono, ma complottano con ferocia, impauriti anche dall’inconsistenza del pasticcione Alemanno, che col suo listino targato Di Paolo ha scontentato tutti i capoccioni del partito nella capitale, oltre a mettere a rischio la sicurissima vittoria della Polverini.
Molte sarebbero anche le reticenze fra i parlamentari ex di An, molte cioè inespresse. Ma questo si vedrà nelle prossime ore, alle riunioni cui Fini li ha convocati. Mentre è già una tendenza chiara, nelle regioni vinte dalla Lega o dagli ex Forza Italia, la formazione accelerata di giunte con punta o poca presenza dei finiani. Diventati in queste ore più scomodi dei già scomodissimi casiniani.

Il talk show in tribunale

Processo continuo e a vuoto a Milano, tra Ghedini e De Pasquale: una foto che li mette insieme sul giornale, emblematicamente, conferma che nulla è più vuoto del nulla. Un avvocato che Berlsuconi ha fatto senatore, e suo portavoce da Santoro, e un Procuratore della Repubblica che non fa niente da vent'anni, se non far dimenticare che ha sulla coscienza la morte di Gabriele Cagliari. E questi due informi personaggi attanagliano l'Italia: l'opinione pubblica (i giornali, i telegiornali, i talk show), il Parlamento, il governo, dando delle illusioni all'altra nullità che è Fini, la presidenza della Repubblica, la Corte Costituzionale, e indirettamente i mercati, dove sempre l'Italia paga qualche punto in più sul Bot tedesco a ogni loro baruffa. Poi dice che non c'è il declino.
Da una parte si fanno processi a senso unico, e anche senza molte ragioni di essere. Dall’altra un uomo politico che non si sa difendere che monopolizzando il Parlamento e il governo. Senza grandezza, non tragica, non drammatica. Come un talk-show, domani un’altra puntata.

Salvata Goldman, Obama fa bau-bau

Nel bizzarro silenzio dell’anticapitalismo di professione, nel momento in cui le peggiori magagne del capitale vengono a galla, i superprofitti, la fraudolenza, anche senza la corruzione, la crudeltà, solo il presidente degli Stati Uniti Obama fa la faccia feroce. "La mia amministrazione è la sola cosa che ancora si frappone fra voi e le forche popolari", dice ai banchieri. Obama che è stato eletto dalle banche. Con un voto che si vuole specialmente “popolare”, nella storia elettorale americana, e che di conseguenza autorizzerebbe una politica populistica. Ma la cosmesi pubblicitaria del personaggio non può cancellare il fatto che Obama è stato il candidato dell’establishment: lui lo sa, l’America lo sa, i suoi padroni politici lo sanno. Non ha Obama a segretario al Tesoro anch’egli un uomo della Goldman Sachs?
Hillary Clinton l’ha anche detto alle primarie. Con una certa sorpresa è vero, che il Partito aveva proditoriamente puntato su Obama. Perché giovane ma sperimentato, affidabile, e nero ma non troppo. I finanziatori, cioè, e i “senatori” del partito Democratico. Che poi hanno convinto lei stessa, non era difficile, a cancellare ogni suo possibile ruolo politico nel paese facendo la ministra di Obama.
Goldman Sachs è in buona misura all'origine del crac. Con la speculazione fortissima del suo supermanager Paulson, l'uomo che farà poi il salvataggio come ministro di Bush, sui mutui poco garantiti - la speculazione sempre induce l'effetto su cui opera. Alla superbanca americana si deve, secondo Galbraith, in buona misura anche il crack del 1929, per i suoi investment trust, che raccoglievano il risparmio verso investimenti ad altissimo rischio. È un a sorta di vocazione, si può dire, che questa banca ha. E che forse ha fatto il suo tempo. Ma da non sottovalutare, la banca è sempre forte, e Obama ha tutta l’aria del cane che abbaia quando i ladri sono in salvo – quando la Sec stessa, che ora incolpa Goldman, li ha lasciati agire impuni. Goldman ha avuto la possibilità di fare bottino delle altre banche, di dividersi superprofitti a sei mesi dal crac, di fruire a bassissimo costi dei fondi federali – che poi ha trovato perfino più comodo rimborsare.

Bancarottieri al governo della moneta

È il sogno di ogni banchiere: far pagare il conto alle banche centrali, agli Stati. È tutta qui la storia della finanza, dai tempi “eroici” dei Rothschild che facevano i governi a Londra, Parigi, Pietroburgo, e a Washington. E non è cambiata in questa epoca di codici etici, a copertura delle grandi ruberie. Il sogno non ha smesso neanche con la conquista bancaria dei giornali e dei partiti, in Europa e negli Usa.
L’uomo della banca peraltro non si nasconde. È sempre gente con grande pelo sullo stomaco, per la quale niente esiste al di fuori dell’arricchimento. Seppure coronandolo, in questa epoca di vocale solidarismo, di un po’ di filantropia, oltre che di codici etici. Goldman, ora sotto accusa per la forma, aveva il ministro del Tesoro di Bush, Paulson, quello della speculazione durissima contro i mutui immobiliari non garantiti, e poi del piano di salvataggio da 700 miliardi. Come aveva in precedenza il ministro del Tesoro di Clinton, Robert Rubin, quella del "nessun vincolo alle banche". E ha ora quello di Obama, Geithner. Che non si dimette, dopo che la Sec, alla fine, traccheggiando, in qualche modo ha dovuto mettere la sua banca sotto accusa, e non si scusa. Come Draghi, peraltro. Che è sbarcato al governo della Banca d’Italia direttamente da Goldman, e da qualche tempo si fa candidare con una mozione in Parlamento alla presidenza della Banca centrale europea, ma non sente il bisogno, nonché di scusarsi personalmente, di criticare la banca.
Si vuole che la crisi abbia rimesso in moto il keynesismo, una sorta di governo pubblico dell'economia. Per via dei salvataggi. A costo di grave indebitamento per l'erario. Ma la verità di questa crisi è, sarà, un'altra. Intanto, gli Stati continuano a contare poco o nulla, e quel tanto lo devono al nuovo debito - il debitore va considerato. La crisi, che è ben lontana dall'essere finita, si svolge come era cominciata. Essa è certamente figlia delle banche e dei fondi, che hanno fallito la gestione dei capitali e del rischio, il loro "mestiere". Ma è anche figlia dei regolatori, del benign neglect di Alan Greenspan per primo, che non credeva alla regolamentazione dei mercati, giusto a un'opera di vigilanza urbana a semafori. Per primo cioè della Federal Reserve, la vera banca mondiale, dal 1988 al 2006.

venerdì 16 aprile 2010

Fini giustifica Berlusconi, e fa la crisi

Quando il governo ha liberi davanti a sé tre anni per fare le riforme, senza campagne elettorali, Fini fa la crisi. Successe nel 2003, succede oggi. Sempre per motivi non plausibili. Allora volle che si cacciasse Tremonti perché lo voleva Fazio, oggi non vuole la Lega. Di cui diventa per questo fatto il miglior mallevadore: al suo confronto Bossi è affidabilissimo e perfino simpatico. Ma con un effetto sempre certo: impedire la riforma della giustizia e quella dell’esecutivo – sulle quali la Camera che lui presiede ha già raggiunto notevoli accordi.
Volendo dare un senso anche a Fini, la presunzione di ragionevolezza è d’obbligo, è come se, dei due agenti della sua fortuna politica, i giudici e i referendum antipartito, volesse sdebitarsi con i primi dando addosso ai secondi. Ma può darsi che sia solo un fatto caratteriale. In fondo, l’uomo che ha reso praticamente impossibile registrare un lavoratore straniero, lo sanno più o meno tutte le famiglie italiane, vuole ora dare loro istantaneamente la cittadinanza.
Con Fini non è un problema della destra, che potrebbe anche essere benvenuto. Fini è uno di quei personaggi che si fanno forti del non governo. Non una sola idea di governo è venuta da lui, anche non di destra, anche di sinistra, se non estemporanea e confusa. Né da chiunque del suo partito. Non un atto di buona amministrazione. Fino alla farsa di boicottare il listino della propria candidata a una sicura vittoria nel Lazio – poi salvata da Berlusconi. È un ruolo che Fini definisce alla Andreotti, e forse è vero, ma disastroso. Che non giova comunque più a nessuno, neanche a quei poteri forte che si giovavano per le loro corruttele dei governi deboli alla Andreotti e li sostenevano con laute mance.
È anche, questo Fini, volendo vedere le cose, una delle due “giustificazioni” di Berlusconi. Il riccastro milanese ha saputo ricondurre al governo, e addirittura al buon governo, la banda Bossi. Ed è l’unico antidoto contro il governo della crisi, che sarà l’unica ricetta di Fini – legatoci da Almirante unicamente come giovin signore, nella strategia del doppiopetto. Incongruamente, Fini dà ragione a Berlusconi anche nel momento in cui lo manda in crisi: la necessità di preservare i governi eletti dai capifazione. C’è un dovere di governo.

La tristezza del letterato in Ortese

Cinque devastanti soliloqui. Interessanti per il biografo, deprimenti per il lettore. Per un autobiografismo tanto disperato quanto, purtroppo, estraniante. Appena ingentiliti dalla breve presentazione che dà il titolo alla raccolta, del molto più tardo 1997, nella quale la scrittrice ritrova la sua cifra, uscendo con i Calasso e Adelphi dalla disperante solitudine.
L’autobiografia si spalma su un quadro terribile dell’esistenza, dell’Italia. Che non si saprebbe contraddire, tanto è attuale benché già remoto. L’alimento della cultura “resta la ragione, è nella ragione; sta nel suo rapporto con la Legge. Distrutta la Legge, o processata la ragione, la cultura tace per sempre”. Questo Anna Maria Ortese annota nel 1997, mettendo assieme i cinque scritti. Ma i prodromi ne ha rilevato ben prima. È tra il 1980 e il 1989 che, sola, disgraziata come sempre si considera, scrive i testi qui raccolti, alcuni in forma d’intervista immaginaria, altri come intervento a un convegno di un Istituto di Cultura italiano in Scandinavia che poi non ci fu.
Una mezza pagina del primo scritto, del 1980, sembra perfino di oggi: “Di colpo, come da una falla, la vita senza aggettivi, la vita come pura esaltazione di momenti fisici e dittatura della fisicità assoluta, è entrata nella vita delle università, di ogni tipo di scuole, ha allagato la stampa. Il momento – della fisicità – è tutto. La parola viene rimandata al grido. Chiunque dica o scriva riferendosi a qualcosa che era prima – una legge per esempio, una inclinazione alla pietà – non è udito. La sua voce di perde nel fragore generale. La grammatica non c’è più. La sintassi è casuale. Il vocabolario è stato invaso e distrutto. Da tutte le finestre e le porte del millenario edificio si affacciano i volti distorti e ottusi della beffa, del turpiloquio. La degradazione è la dea del momento”.
Sembra di oggi anche il capitoletto “Come diventammo America”, circa il 1960: “Ricordo come un giorno, a seguito di una banale operazione commerciale fra una casa editrice di qui e una straniera, sparirono da un notissimo settimanale tutti i nomi di autori italiani, e tutti gli argomenti di vita e ambiente italiano. In blocco, un intero paese di ombre venne ad abitare su queste sponde…”. Ortese allude alla Rizzoli, dove il cambio di gestione nel 1975 l’aveva messa fuori commercio (“Il porto di Toledo”, appena pubblicato dalla Rizzoli vecchia gestione, rimase in magazzino e dopo tre anni andò ai Remainders), ma ogni lettore ci può mettere qualsiasi casa editrice o giornale..
E tuttavia la dolente storia personale è scostante. Fatta salva la comune componente personale, i lutti, le malattie, i pochi mezzi, quanto diversa da quella di Cristina Campo, che pure ha lo stesso approccio tragico all’attualità e alla povera vita – la vita di ognuno è sempre povera, anche non in solitudine. Identico l’orrore del materialismo – l’economico, la fisicità, la reificazione -, identica la radicalità, la sofferenza, ma diverse le pezze giustificative, ben diversamente comunicativa questa, se non attraente. Senza speranza quella, al contrario della Campo, e senza volontà, un masochismo morale che sempre è repulsivo. O dalla storia personale di Alda Merini, che i lutti, la disgrazia, il disagio della vita tradusse in efficacissima inquietudine.
Le tre scrittrici, tutt’e tre silfidi giovanissime quando “emersero”, si possono anche tranquillamente immaginare vittime del maschilismo allora d’obbligo, che le considerava poco più che belle guaglione, da portare a letto. Ma Alda Merini, che con Ortese condivise anche l’angelo benevolente della scoperta, Angioletti, nomen omen, lo nomina spesso riconoscente e lo e loda, Ortese no. E forse non è solo per il politicamente corretto, Angioletti non essendo del Partito. Ortese si compiace di “non esistere” nel mondo delle lettere, lei che è stata “portata” da Bontempelli, dopo Angioletti, premiata col Viareggio nel 1955 e lo Strega nel 1967, onorata e aiutata da Luigi Einaudi, Adriano Olivetti, Raffaele Mattioli, assegnataria con la dovuta discrezione della legge Bacchelli, insignita di una ricca bibliografia critica. Si compiace di dirsi semianalfabeta, per aver frequentato solo la sesta, quando le elementari finivano in sesta (“Si pensi che allora io non conoscevo l’apostrofo”, quando pubblicò i primi racconti). Sempre in angustia per la povertà in agguato. “Dal 1975 vivo molto sola” - sempre per la storia del “Porto di Toledo”? “Guardando nella nostra letteratura”, dice anche nel primo saggio, quello che avrebbe preparato per l’Istituto italiano di cultura di Oslo o Stoccolma, “vedevo un deserto d’anima”. Forse è questo solipsismo che respinge, cupo, non di un destino tragico, ma di una mediocre vita letteraria, che si fa tra mugugni e insofferenze.
Anna Maria Ortese, Corpo celeste

Ombre - 47

Si condanna infine, dopo due anni, Goldman Sachs per quello che tutti sapevano: il traffico feroce dei mutui non pagabili, di cui ingozzava gli investitori. Grazie a questa benevolente trascuratezza, Goldman Sachs ha pouto fare nella crisi bottino delle banche rivali, produrre, a pochi mesi dal crac, utili record, e perfino ripagare i crediti federali. Grazie ai legami (ai soldi?) con i ministri del Tesoro, di Bush e di Obama. Ma la crisi, più che questo capitalismo, sembra avere fiaccato l'anticapitalismo.

La mafia è famosa nel mondo, tracotante e dominante, grazie a "Gomorra", dice Berlusconi. Confermando che gioca al "chiama e rispondi", come con Santoro e altri suoi nemici. "Gomorra" essendo il libro che più ha fatto guadagnare la sua Modadori, sua di Berlusconi - se non è, come sembra, un prodotto della stessa Mondadori, firmato Saviano.

Paolo Romani, il viceministro delle Comunicazioni, scrive al "Financial Times" una lettera spumeggiante, molto british nel sentire milanese, per assicurare che non c'è discrninazione, che Murdoch andrà con la sua Sky sul digitale terrestre. Il quotidiano imperialmente titola la letterina: "Qualsiasi mezzo per spazzare via l'Italia di Berlusconi". Il milanesissimo "Corriere della sera" riporta senza commenti la lettera e il titolo. Si potrebbe pensare a un gioco di squadra, ma non sarà l'anglomania ambrosiana?

Si rinnova a Napoli lo scontro Juve contro Fantômas, che furoreggiava già un secolo fa e fu il primo film seriale. Fantômas, creazione di Maurice Leblanc, che Umberto Eco assicura essere “non uno scribacchino da poco”, è l’eroe negativo, quello che fa tutto il male possibile e sempre vince. Juve era allora il commissario di polizia. Oggi no, ma ugualmente perde sempre.

Il colonnello dei carabinieri Auricchio testimonia a Napoli che Paolo Bergamo, attorno a cui ruota lo scandalo del calcio, non è imputabile di nessun reato, malgrado le diecine di migliaia di intercettazioni a suo carico. E i carabinieri che intercettano sono imputabili? Auricchio ha distrutto, senza imputazioni, la Juventus e il calcio per suo divertimento? È vero che ci ha fatto carriera.

Si arriva al presidenzialismo, dopo vent’anni di rinvii, insomma a un governo stabile, e i giornali dei grandi interessi passano al contrattacco: torna la paura del fascismo dicono. Lo fanno dire a Pagnoncelli. Che lo fa dire agli italiani che hanno stravotato in numerosi referendum per un governo stabile.
La Confindustria tace: quando non è in vista, chiede un governo stabile, quando il governo stabile si può fare, tace.
Ma questo era prima della discesa in campo di Fini. Che sempre, quando il governo nella sua seconda fase ha tempo libero per pensare alle riforme, impone una crisi di governo.

Fiorenza Brioni, sindaco di Mantova, città rossa da sempre, perde contro la Lega. Non si scusa, non cerca le ragioni della sconfitta (ha antagonizzato tutti a Mantova). Dice: “Ora temo il coprifuoco”.
Non si costruisce nulla con i resti.

Muove in Russia la dirigenza polacca, un centinaio di persona, e Staino sull’“Unità” riduce anche la tragedia al berlusconismo: “La solita storia”, fa dire alla figlia, “a chi troppo e a chi niente”. Ovvia indignazione berlusconiana, e Staino si scusa beffardo. “Mi sembrfava una cosa enorme che tutti viaggiassero sullo stesso aereo”. Non è satira. Ma è di sinistra.

Ne ha combinate molte John Henry Woodcok, Procuratore della Repubblica a Potenza, impaziente con la sua Guzzi d’epoca di tornare a casa a Napoli. Ma quando ha intercettato il malaffare del grattacielo della Regione a Milano, zàcchete, i giudici milanesi gli invalidano tutte le intercettazioni. Non un giudice solo, si sono messi in due. Poi dice che non c’è giustizia.
La giustizia è anzi doppia. Le intercettazioni a Woodcock i giudici milanesi gliele hanno invalidate subito. Ora lo fanno sapere per dimostrare che non c’è bisogno di nessun decreto contro le intercettazioni abusive. Quando sono abusive (su Milano) i giudici (di Milano) tempestivamente lo dichiarano.
La giustizia a Milano la fanno soltanto i giudici di Milano. Magari napoletani come il centauro Woodcock, ma di Milano.

“Domani in Assemblea Regionale dirò io chi sono i politici legati alla mafia e agli affari”, promette il supervotato presidente della Sicilia Raffaele Lombardo, indagato per mafia. Perché non oggi? Anche ieri, era meglio.
È il Sud che inquina la politica, o è la politica (democristiana) che rovina il Sud?
socialista.

Si commuove il laico “Corriere della sera” per Luca di Montezemolo, che va con la famiglia (la seconda, la terza?) a inginocchiarsi alla Sindolne. Marco Imarisio dci ricama su un polpettone di laicità di fede. Commovente. Salvo dire in un’altra pagina che nei seminari è tutta una pedofilia, il disagio è forte. Magari perché l’ha detto l’“Economist”, la bibbia del signor Ronchey.
Ipocrisia? Che cosa non si fa per portare Montezemolo a palazzo Chigi. E perché proprio lui, per quali speciali doti? Ma perché è l’uomo di tutti gli affari.

L’economista Nouriel Roubini, 52 anni, di cui 21 trascorsi a Milano, con università e dottorato, va a un convegno a Milano e parla solo inglese. “Il mio italiano è arrugginito”, dice non per scusarsi. L’apatride è una vittima, ma c’è un che indigesto nell’apatridia.

mercoledì 14 aprile 2010

Nessuno scrive al colonnello Auricchio

Non si saprebbe simpatizzare col colonnello dei carabinieri Auricchio, benché sia adesso lui da alcune udienze sul banco degli imputati al processo napoletano alla Juventus e a Moggi. L’imputato, seppure di fatto, suscita sempre compassione. Ma questo è un colonnello vero, dalla scorza dura. È napoletano ma si dice romano. Ha condotto una inchiesta presuntamente napoletana pur comandando il reparto operativo dei carabinieri e Roma. L’ha condotta male, costringendo la Procura di Napoli a chiedere quattro rinvii semestrali del dibattimento. Ma, questo è il problema con lui, l’ha condotta male non per errore o imperizia: voleva colpire la Juventus e l’ha fatto. Basta leggere i volumi dell’inchiesta sul calcio da lui introdotti per “L’Espresso” per rendersene conto: intercettazioni selettive, articoli di giornale, molte doppie negative (“non si può non”), e molte consecutio. Il pm napoletano dell’inchiesta Narducci prende ora le distanze da lui: “La Procura di Napoli, contestualmente alla richiesta di rinvio a giudizio, ha preso atto per tantissime situazioni del fatto che gli elementi erano scarsi, insufficienti, si prestavano a equivoci. La questione era e resta un'altra: riesce questa attività di indagine attraverso intercettazioni telefoniche, dichiarazioni di persone informate sui fatti, ricostruzione del traffico riservato (le sim estere, ndr), a fornire un dato probatorio sicuro, ovvero che è stata organizzata una alterazione complessiva del campionato? Noi crediamo di sì». Il fatto è che le intercettazioni scartate non erano di natura diversa da quelle allegate all’accusa, Narducci lo sa, e in realtà vuole dire: “Che ne so io? Io non ho letto tutte le trascrizioni, chiedete ad Auricchio”. Anche per questo si vorrebbe simpatizzare col colonnello. Narducci è con lui perfino cattivo, gli suggerisce le risposte come se lo rimproverasse. Anche il grado in definitiva è simpatico. I colonnelli si associano normalmente ai golpe, la qualifica sembra essere distruttiva. Ma Garcìa Marquez l’ha rinobilitata, col racconto commovente “Nessuno scrive al colonnello”. E Auricchio rientra in questa categoria, benché giovane e allicchettato: vederlo frastornato in aula, tra tanti marpioni del diritto, procuratori, avvocati e giudici, induce una certa tenerezza. Condita di sollievo: se gli intercettatori sono così pasticcioni, qualche spiragio di libertà ancora c'è. Ma, poi, questo è un ufficiale superiore dei carabinieri. Che ha falsato volutamente un processo. Le difficoltà a sostenere il dibattimento in tribunale avrebbero già dovuto portare alla sua incriminazione. Ma questo non avviene, e naturalmente non avverrà: a Napoli c'è solo da condannare la Juventus e Moggi. E sucede che il colonnello finisce per pagare colpe non sue, diventando, oltre che colpevole, antipatico. 
 P.S. Si parla di un processo inimportante, non ci sono assassinii, non c'è corruzione, e in fondo nemmeno a Moggi importa la condanna che avrà a Napoli, tanto sarà assolto in appello, per dire la condizione abnorme in cui giudici e inquirenti hanno precipitato la giustizia: al tribunale di Napoli manca solo il pazzariello, è questo che si cerca?

“Lotta Comunista”: la finanza è tutto

Cultore inesausto del marxismo-leninismo, in edizione “ortodossa”, Parodi si segnala in questa raccolta per l’accento che pone sulla componente finanziaria per lo sviluppo, nonché sull’indistinzione pubblico-privato. Recuperando i pochi che hanno registrato il peso della finanza: praticamente il solo Cafagna, con alcuni storici del genovese Banco di San Giorgio. Evidenziando la povertà teorica e pratica di chi si ferma alla manifattura. Accoppiata al determinismo tecnologico, la manifattura porta inevitabilmente al “declinismo”.
È una posizione polemica, oltre che originale. Il centro del volume è il Seicento, quando l’Italia perdette il primato capitalista (Engels, nella prefazione 1893 al “Manifesto”, alla prima traduzione italiana: “La prima nazione capitalista è stata l’Italia”). Mentre decollavano Inghilterra, Olanda e Francia grazie alle Compagnie delle Indie. Ma qui l’aneddoto più fulminante della raccolta dice che il capitale non basta, ci vuole anche la capacità commerciale e industriale (e militare, nel senso della pirateria): “Falliva il tentativo di Genova di costituire nel 1647 una Compagnia delle Indie con un capitale di centomila scudi: le sue navi, costruite segretamente in Olanda, mandate in Oriente con equipaggio olandese, finirono ingloriosamente catturate dagli … olandesi”.
Lorenzo Parodi, Studi sullo sviluppo del capitalismo in Italia, vol. III, Lotta Comunista, pp. 448, con bibliografia, indice dei nomi e cenni biografici, € 20

È Baricco, o Pitigrilli?

Narrativa sempre pulita, letterariamente, e ben sceneggiata. Ma sempre su un piano falso. Qui è falsa all’origine, il gioco è scoperto, ma l’esito è ugualmente piatto. Potrebbe essere un tipo di narrazione legato al genere fantasy, ma è insoddisfacente.
Baricco è una sorta di Pitigrili contemporaneo, senza l’ironia, con la stessa vivacità e piacevolezza. Per quei personaggi d’imprecisa identità in impreciso contesto, se non il vago internazionalismo dei nomi e dei toponimi – per un’agevolata traduzione, e la circolazione globale? Senza faccia e senza spessore, che organizzano intrecci (meglio: sono organizzati) che si fanno leggere e non si ricordano. È scrittore di scritture (di scuole di scrittura).
Alessandro Baricco, Oceano mare

martedì 13 aprile 2010

La perfida Albione contro l'Italia

Dopo avere attaccato l’Italia con le puttane, l’attaccano ora con lo spionaggio. Due manovre inverosimili, e inconcludenti, tali da denunciare una mano sicura: i servizi segreti britannici. Che sempre si distinguono per atti, a loro avviso, “sportivi”, dimostrativi cioè e non cattivi, cruenti. Contro l’Italia un nuovo gesto dimostrativo “sportivo” era preparato da tempo, soprattutto attraverso il “Times” e il “Sunday Times”, i giornali di Murdoch. Per tre motivi: i successi dei servizi italiani nella liberazione degli ostaggi, specie dei giornalisti; i successi dei servizi italiani nel tenere buona la regione di Herat, a controllo militare italiano (e quella ristretta di Sorobi a Est di Kabul, che hanno gestito a rotazione prima dei francesi); la candidatura di Berlusconi a fedelissimo di Washington in Afghanistan e in ogni scacchiere, a detrimento della relazione speciale americana con Londra.
Non cessavano di stupire la scorsa estate le pagine e doppie pagine dei più importanti giornali britannici sulle sregolatezze di Berlusconi, “Times”, “Sunday Times”, “Observer”, “Guardian”, “Independent”. Stupivano soprattutto i lettori britannici, ai quali di Berlusconi non può fregare di meno, non avendo nell’arcipelago nessun appeal. Coronate dai servizi velenosi dei corrispondenti romani del “Financial Times” e dell’“Economist”, che se non altro avevano la foglia di fico di preparare l’attacco al debito pubblico italiano, diligentemente poi sventato da Tremonti.
Più precisi sono diventati nei due ultimi mesi gli agenti inglesi in Afghanistan. Dove ancora non si sa come abbia fatto un terrorista a individuare e uccidere il superagente italiano in albergo a Kabul due mesi fa. Mentre i grandi giornali accusavano l’Italia di pagare i terroristi, e anche i sunniti, per tenere gli interessi italiani al riparo da attacchi. Che non è possibile, ma è quello che gli inglesi hanno detto e scritto. E hanno fatto dire ai servizi francesi, che invece non hanno detto niente.
L’obiettivo è anch’esso, peraltro, inconcludente: giusto esternare l’invidia britannica. I tre operatori di Emergency non potranno che essere liberati. Incolumi. E senza riscatto. Né l’ospedale locale di Emergency potrà essere chiuso: uno dei tanti errori britannici è stato di affidare formalmente l’operazione al governatorato di Helmand, e il governatorato ha bisogno dell’ospedale. I britannici vorrebbero la struttura chiusa per l’offensiva sulla regione di Helmand che si prepara per le prossime setimane. Che sembra irragionevole, avere un ospedale in meno durante una battaglia. Questo perché Gino Strada fa un uso militante della sua organizzazione, e già in passto più volte ha accusato gli anglo-canadesi di ostacolare l'afflusso dei feriti. Ma è dubbio che il governo afghano possa accedere a questa richiesta.

Distruggere il '68 legandolo al '77

Curiosa riproposta costante in edizione economica a larga diffusione per di un librone, un libraccio, che mette in evidenza soprattutto limiti e insensibilità. Orda d’oro sarebbero i nuovi mongoli del Sessantotto. Legati ai terroristi del '77, di cui sono esattamente l'opposto.
Il Sessantotto l’ha fatto proprio la destra, nel senso che lo vive anche se non lo teorizza, se lo gode. A sinistra resta un teorizzare sterile, privo di fantasia o d’intelligenza. Cattivo anche, sotto la pretesa critica. Per la cattiva coscienza del '77, movimento di mostri. Senza essere autocritico.
Posto che i giovani della Universale Feltrinelli lo leggano in massa, che ne ricavano? Giusto deprimersi. Uno sogna invano Balestrini che, sempre più bello, magari nudo, esce in piazza e grida: “Sono stato un cazzone, scusatemi, mi divertivo”, o qualcosa del genere, no, lui è uno per bene.
Balestrini-Moroni, L’orda d’oro, Feltrinelli, pp.688, € 15,50

lunedì 12 aprile 2010

Il Lego felice di Umberto Eco

Dice Aristotele che l’intreccio fa aggio sulla psicologia e lo stile. E ha ragione: la psicologia non ha tipi né caratteriste non a fini classificatori, è inutile voler squadrare i personaggi. Ma lo stile no, il plot è lo stile, quasi sempre. Un incidente d’auto può essere più drammatico di una strage, se è “meglio” rappresentato. Lo stile è la verità dell’evento. Le regole dell’intreccio sono che non ci sono regole.
Eco, che l’Aristotele dell’intreccio mette a nume della sua raccolta di scritti, fa poi di tutto per sconfessarlo. Ma inavvertitamente, è vero: per l’inconsistenza della semiologia e della sociologia in letteratura se non ancillari allo stile. Eco “migliora” molto la lettura noiosa di Eugène Sue, e lui stesso è, per questa ambiguità, lettura gradevole. Fantasioso edificatore del nulla, giusto per la felicità dei giochi di costruzione – di quelli con qualche incastro, del tipo Lego. Giochi però datati: Eco vi dice spesso le barzellette, che ora sono proibite, essendo fasciste.
Non ci si può non divertire con Eco. che però ha deciso di fare l’opportunista, e ora si paga, cioè non si paga più. Non si sa più se ridere ai saggi costruiti su due righe di appunti di Gramsci. Il saggio più famoso e di cui Eo sembra orgoglioso, “Le strutture narrative in Fleming”, insomma di James Bond, è semplicemente inutile, anche se volteggia sul vuoto (che poi sarebbeero le struttura narrative dei film, tutt’altra cosa evidentemente dai libri di Fleming). Si può anche dirla così: Eco, studioso di san Tommaso e dell'aristotelica scolastica, ha ripescato la logica, con le incrostazioni strutturalistiche e formalistiche, addolcendola con la riproprosizione, allora sorprendete, cinquant'anni fa, delle figure retoriche e della stilistica.
Alla fine semiologia e sociologia saranno state altre forme della narrazione, come la filologia, l’archelogia, la storia eccetera. Che “La capanna dello zio Tom” appaia contemporaneamente a “Moby Dick” non significa nulla, ma è un cameo divertente. E chi è Tortel? Il lettore è lasciato libero di scoprirlo. In questi scritti sul romanzo d’appendice, sulla traccia di un appunto di Gramsci, e di Marx, “La sacra famiglia”, Eco anticipa il revival del romanzo d’appendice, che tenterà personalmente a partire da “Il nome della rosa", nelle versioni gotica, storica, di avventure, di viaggio.
Umberto Eco, Il superuomo di massa

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (56)

Giuseppe Leuzzi

“Bossi Africano”: è sbiadito ma cubitale il graffito lungo l’autostrada per il Sud. Di fascisti razzisti? Ma non è male: Bossi, razzista nordista, a sua volta ingiuriato da razzisti superiori come africano, cioè sotto-meridionale.

“La terra è come un vampiro”, dice Susanna Tamaro (a p.33 di “Va’ dove ti porta il cuore”). Dove ha bevuto del sangue ne vuole ancora. Dove si è ucciso, si ucciderà. Giono lo aveva constatato cinquant’anni prima nelle valli delle Alpi. Ma si ammazzano le persone anche al mare, per motivi anche turpi.

Si possono pensare i pentiti strumenti della nuova mafia? Per scalzare i nemici? Con i soldi dello Stato? I pentiti insomma come i kamikaze islamici, senza rischio della vita, e con migliori pensioni? Si può, anzi si deve: la mafia c’è sempre, intaccata, malgrado gli arresti, in massa e eminenti. Di latitanti che peraltro non si sono mai nascosti e tutto sono meno che ninja invisibili. Prosperano sempre la droga, il pizzo, l’intimidazione, l’azzardo, l’usura, la prostituzione, gli assassinii.
Ci sono sempre nuove bande (nuova mafia) che fanno le scarpe alle vecchie, o ci tentano. Non c’è un’organizzazione fissa – non c’è un’organizzazione. I gruppi si creano e si squagliano. Anche in frequenza rapida. Nel napoletano cambiano perfino nel giro di mesi e di setti mane.
Spesso peraltro i mafiosi sono passati e passano dalla parte della legge anche senza figurare pentiti. Come confidenti. Come garanti dell’ordine. Per un occhio chiuso, o tutt’e due, che consenta di consolidare il maltolto. Come in ogni altra accumulazione: il patriarca usuraio, il costruttore, lo speculatore immobiliare, a un certo punto diventano consiglieri comunali e fedeli di chiesa, pagano le feste, danno le elemosine. Solo con più ferocia.

L’omertà è viltà. Non è molto meridionale. Ovvero: i meridionali sono omertosi per avere paura, non per essere violenti. Ovvero anche: la violenza si diffonde al Sud perché vi è diffusa la paura, nei secoli interiorizzata, e quindi spesso vile.
La paura non può essere congenita, e il Sud del resto non è sempre stato in queste condizioni. È un problema di carabinieri, che non ci sono. Cioè ci sono ma è come se non.

Meridione
È una forma piana - distesa, non frenetica, non urbana. Che fa spazio alle esperienze materiali e non metafisiche - la famiglia, i luoghi, i visi, le ore del giorno, le luci. Con un linguaggio aperto: c’è la parola ma c’è anche lo sguardo, il comportamento, e il non detto. “Nuovo cinema Paradiso” e “Ladro di bambini” si incontrano così con “Moonstruck”, “Pomodori vevrdi fritti alla fermata del treno”, “Rosa Scompiglio”, “A spasso con Daisy”, anche col nordico "Lontano dal Paradiso", per i tempi lenti e l'effetto serra, perfino con “Mississippi Masala”.
Non è un’espressione elegiaca, ma storica e naturalistica – behaviouristica. È un ritrovare il tempo, il senso del tempo, attraverso lo spazio aperto, nella sua dimensione naturale, il cui ritmo irregolare corrisponde alla nostra aritmia. Non quella artificiosa, scandita, chiusa, per esempio di Proust, che epitomizza il genere urbano-borghese. È una maniera imprecisa ma efficace per catturare e far rivivere i sentimenti, che poi sono la nostra unica esperienza.

“Restate con noi, eccellenza, e vi faremo re”, dicevano i napoletani a Fanfani in visita, almeno secondo Malaparte, “Battibecchi”, 153.

Sicilia“Domani in Assemblea Regionale dirò io chi sono i politici legati alla mafia e agli affari”, promette il supervotato presidente della Sicilia Raffaele Lombardo, indagato per mafia. Perché non oggi? Anche ieri, era meglio.
È il Sud che inquina la politica, o è la politica (democristiana) che rovina il Sud?

Scuoiarsi è probabilmente il gesto più impossibile, se non il più stupido. Ma è quello che ogni siciliano fa ogni giorno, anche più volte al giorno.

Pam, si ricorderà, era la filosofia politica del gesuita Pintacuda: politica, affari massoneria. E la mafia?
Ingegnosa questa antimafia, del consigliere di Leoluca Orlando, molto gesuita – Orlando riuscì a sconfiggere la stocastica prendendosi il 100 per cento dei voti, non uno solo di meno, non una scheda bianca, non una nulla, in alcune sezioni di Palermo. I gesuiti colpiscono col falso scopo, si dice in artiglieria, indirettamente (i gesuiti sono lì per colpire, mai inoffensivi).

La Commedia secondo Wilde ("Il ritratto di Mr.W.H", p.77) nasce sulle labbra dei vignaiuoli in Sicilia. Di questo e di altri anacronismi la Sicilia si nutre –i siciliani e tutti i non siciliani.

La Sicilia è per chi ci arriva una concrezione classica. E questo è il suo dramma. I “classici” erano e sono volgari e violenti.

L’unità d’Italia nel 1860 fu anche una rivolta della Sicilia contro Napoli.

“Jean Bodin ammonisce, al libro V della “Repubblica”, “insulares omnes infides habere”, di non fidarsi degli insulari, tutti.

Lucien Febvre, lo storico, invece rileva nella sua geografia una curiosità molto insulare dei grandi viaggiatori, siano le isole, note, ignote o solo vagheggiate.

Il coltissimo assessore siciliano Mario Centorrino propone di accantonare per un po’ Tomasi e Sciascia. Non ne può più di linea della palma e gattopardi. Come tutti, del resto: la Sicilia è un po’ troppo vampirizzata – e Sciascia e Tomasi non sono vampiri, non è possibile.
Da Milano rimproverano il filologo Centorrino con asprezza: non si mette in castigo la letteratura. Non hanno capito. O hanno capito benissimo. Anche se quelli che lo rimproverano sono milanesi di Sicilia, Collura, Di Stefano.
Se ne discute però tra espatriati, in Sicilia la “provocazione” è caduta nel nulla.

Vendono al mercato il “broccolo siciliano”, che invece è calabrese. C’è sempre confusione al Sud.

leuzzi@antiit.eu