È sempre la Bassa, fino a Bologna, con Venezia delle meraviglie. E code obbligate a Roma, Pompei, Bari, in Sicilia, in Sardegna, in Calabria. Ma non è un atlante, è un libro d’autore. Singolare la storia dei bronzi di Riace, che Sgarbi è sicuro di aver visto vagabondando giovanotto al Museo di Reggio Calabria qualche giorno dopo il ritrovamento, e che non avrebbe mai dimenticato (il “fascino” dei bronzi), pur non ricordando più né la provenienza, né le posture, i materiali, le incrostazioni, etc. Nel 1974, o ’75, ricorda che un giornale pubblicò una delle due facce, ma come pubblicità. “Finché”, conclude, “nel corso del 1981, a un’esposizione della casa d’aste Stotheby’s di Firenze, due amici mi consigliarono di andare a vedere alcune clamorose scoperte archeologiche di cui i giornali non parlavano”.
I Bronzi erano in mostra a Firenze, nei locali del Centro di restauro, dal dicembre 1980. Con un certo successo, dopo che gli italiani li avevano visti riprodotti efficacemente e apprezzati. Su “Newsweek”. Ma la cosa fa parte del divertimento, dell’iconologia che non è una scienza.
Mariottini scoprì le statue in un'mmersone a Ferragosto del 1972. Ci vollero ben più di due anni per sterrarle. Nel 1976 furono affidate ai laboratori di restauro di Firenze, e solo dopo furono visibili, a Firenze dapprima, e poi al Quirinale. Si discusse a lungo se dovevano andare al Museo di Reggio Calabria. Sgarbi non dice l’età, ma una voce accreditata, wikipedia, lo fa nascere nel 1952, vent’anni prima dell'immersione di Mariottini.
Vittorio Sgarbi, L’Italia delle meraviglie, Bompiani, pp. 360, € 20
sabato 7 agosto 2010
Ombre - 58
C’è un Guazzaloca in primissima posizione per diventare candidato a sindaco di Bologna. Lo stesso Guazzaloca delle macellerie che scalzò dopo cinquant’anni la giunta rossa una diecina d’anni fa. Ora guida la corsa per i compagni di Bologna.
Dunque, la sede storica di An in via della Scrofa a Roma non paga “da anni” le tasse, perché le relative cartelle esattoriali del palazzo vengono inviate a un professor Guerra, un vecchio economista Pci, che nello stesso palazzo, ricco di trenta appartamenti, ne possiede uno. Cartelle da cinquantamila euro l’anno. Sempre rifiutate dal Guerra, che regolarmente vince i relativi ricorsi. Ma la Guardia di finanza, che indaga sull’appartamento a Montecarlo della contessa Colleoni, non indaga sull’Agenzia delle Entrate e sul Catasto di Roma che ogni anno fanno lo stesso errore. Beneficiario il partito (patrimonalmente) di Fini. Quante annate d tasse arretrate sono andate così in prescrizione? Il trucco tra l’altro è vecchissimo, basta avere un amico, magari un usciere, al catasto.
Gaucci, bancarottiere fraudolento a Perugia, dice per vendetta contro l’ex amante Tulliani cose da bagno penale: una diecina di miliardi sottratti al fallimento. Ma il foro perugino, noto per la laicità e sempre solerte contro i politici, è quello che condannò Andreotti a 28 anni per omicidio, non ci sente. È Fini, nuovo consorte della Tulliani, anch’egli laico, della stessa obbedienza?
Da Montanelli a Chiara Moroni non si contano più gli ingrati, la seconda moglie compresa, che devono tutto a Berlusconi e gli si rivoltano contro, lo spiano, lo denunciano. Si dirà che è la sorte dei dittatori, di essere traditi dai famigli, e che dunque Berlusconi è un dittatore. È possibile, il sillogismo è ineccepibile, anche se Berlusconi vince solo alle elezioni. Ma è un dittatore, a giudicare dai ribelli, di poco di buono. Non un Garibaldi della destra, nemmeno un Giolitti del malaffare. C‘è molto di craxiano, è vero, in questi tradimenti, e anche di mussoliniano – le “contesse” per esempio, ora chiamate veline. C’è molto di Milano?
Il governo evita la censura al sottosegretario Caliendo con 299 voti alla Camera contro 229, e 75 astensioni. L’Ansa fa un pezzo cattivissimo contro il governo: “Caliendo: non passa la sfiducia, ma governo senza maggioranza”. E gli altri giornali rifanno lo stesso titolo.
La maggioranza è opinabile: 299 contro 229 sono sempre una maggioranza. Mentre i voti contrari più gli astenuti fanno 304, sempre ammesso che tutti gli astenuti abbiano il coraggio di votare contro il governo, sempre meno della maggioranza assoluta alla Camera, che è di 316 voti. Ma è singolare che tutti i giornali, eccetto i due o tre berlusconiani, facciano lo stesso titolo. È l’Italia sovietica, coperta e allineata, compresa “Repubblica”, che un tempo pensava da sola, cui la cronista dell’Ansa dà il là.
Impazza il Power Balance, un braccialetto che promette “l’efficienza” biologica e muscolare a chi lo indossa per quindici giorni. Un braccialetto di plastica, che si fa pagare trenta euro, e tra l’altro non fa male. Ma è l’unica cosa che, secondo l’Antitrust, minaccia il mercato di monopolismo.
I giornalisti, sono sempre stati un problema. Smontarono Marx, e non era facile, 140 anni fa. A proposito della partecipazione italiana all'Internazionale, attraverso le fazioni bakuniniane dell'Alleanza: “L'Alleanza in Italia non è un raggruppamento operaio ma una truppa di declassés, il rifiuto della borghesia. Tutte le pretese sezioni dell’Internazionale in Italia sono dirette da avvocati senza clienti, da medici senza ammalati e senza conoscenze mediche, da studenti assidui al biliardo, da viaggiatori e da impiegati di commercio e specialmente da giornalisti”.
“Golpe di Tremonti contro Vendola”, titola “il Manifesto”. Vendola vorrebbe assumere alle sue Asl, che hanno un buco di mezzo miliardo, ottomila lavoratori della sanità privata. Ottomila, in un colpo. Questo Chàvez non lo chiamerebbe un golpe.
Si discute il santino della ragazza sfigurata dai talebani che fa la copertina di “Time”. Il richiamo è involontario a “Sesso & potere”, il film di Barry Levinson del 1997 in cui Dustin Hoffmann, un produttore disoccupato, è ingaggiato per “creare” la guerra alla Serbia per l’Albania. Un diversivo alle avventure di sesso del presidente alla Casa Bianca, ma una guerra che l’anno dopo si fece realmente. Forse non è scena, la ragazza è stata mutilata. Ma è il senso della copertina: queste “modelle” sono le nuove martiri.
Berlusconi va dicendo in giro che Fini, Bongiorno, Granata, Bocchino, Urso, che nomi, gli hanno impedito la legge sulle intercettazioni. Non dispiaciuto. Perché sa che sulle intercettazioni stravincerebbe eventuali elezioni?
Paolo Baratta e Marco Müller hanno escluso Avati, sicuro vincente della Mostra di Venezia, che è pur sempre un concorso a premi, a favore di Ascanio Celestini, sicuro perdente col suo filmetto da cantastorie. Per offrire una vetrina al “giovane” Celestini, perché il produttore di Celestini è più ammanicato, e perché l’irriverente cantastorie è molto “nella linea”. Una normale operazione di partito. Ma l’irriverente Celestini non si scusa nemmeno. Mentre Müller e Baratta irridono Avati, al gioco destra-sinistra. Regime?
Come già Bertolaso, il ciclone Verdini ha zittito le leonesse della giudiziaria. Il giorno dopo non sono tornate sulle sue magagne, il giorno successivo nemmeno. Nemmeno per caso: c’è dunque un suggeritore.
Ora i giorni di silenzio sono una diecina: il suggeritore non ha più “carte”? È l’ufficio legale della ditta che dice cosa dire? Il giornalismo degli avvocati.
Paolo Ermini, il direttore del “Corriere Fiorentino”, costola locale del “Corriere della sera”, si costringe e definire ottimi professionisti, di grande scuola, i giornalisti che ha assunto in provenienza dal “Giornale della Toscana” di Verdini. Per discolparsi a Milano? Per timore della peste? C’è la peste a Firenze?
Gli editori italiani. Garzanti rileva Treves nel 1938, a prezzi di saldo grazie alle leggi razziali. Bompiani è l’editore del “Mein Kampf” italiano, un successone.
Dunque, la sede storica di An in via della Scrofa a Roma non paga “da anni” le tasse, perché le relative cartelle esattoriali del palazzo vengono inviate a un professor Guerra, un vecchio economista Pci, che nello stesso palazzo, ricco di trenta appartamenti, ne possiede uno. Cartelle da cinquantamila euro l’anno. Sempre rifiutate dal Guerra, che regolarmente vince i relativi ricorsi. Ma la Guardia di finanza, che indaga sull’appartamento a Montecarlo della contessa Colleoni, non indaga sull’Agenzia delle Entrate e sul Catasto di Roma che ogni anno fanno lo stesso errore. Beneficiario il partito (patrimonalmente) di Fini. Quante annate d tasse arretrate sono andate così in prescrizione? Il trucco tra l’altro è vecchissimo, basta avere un amico, magari un usciere, al catasto.
Gaucci, bancarottiere fraudolento a Perugia, dice per vendetta contro l’ex amante Tulliani cose da bagno penale: una diecina di miliardi sottratti al fallimento. Ma il foro perugino, noto per la laicità e sempre solerte contro i politici, è quello che condannò Andreotti a 28 anni per omicidio, non ci sente. È Fini, nuovo consorte della Tulliani, anch’egli laico, della stessa obbedienza?
Da Montanelli a Chiara Moroni non si contano più gli ingrati, la seconda moglie compresa, che devono tutto a Berlusconi e gli si rivoltano contro, lo spiano, lo denunciano. Si dirà che è la sorte dei dittatori, di essere traditi dai famigli, e che dunque Berlusconi è un dittatore. È possibile, il sillogismo è ineccepibile, anche se Berlusconi vince solo alle elezioni. Ma è un dittatore, a giudicare dai ribelli, di poco di buono. Non un Garibaldi della destra, nemmeno un Giolitti del malaffare. C‘è molto di craxiano, è vero, in questi tradimenti, e anche di mussoliniano – le “contesse” per esempio, ora chiamate veline. C’è molto di Milano?
Il governo evita la censura al sottosegretario Caliendo con 299 voti alla Camera contro 229, e 75 astensioni. L’Ansa fa un pezzo cattivissimo contro il governo: “Caliendo: non passa la sfiducia, ma governo senza maggioranza”. E gli altri giornali rifanno lo stesso titolo.
La maggioranza è opinabile: 299 contro 229 sono sempre una maggioranza. Mentre i voti contrari più gli astenuti fanno 304, sempre ammesso che tutti gli astenuti abbiano il coraggio di votare contro il governo, sempre meno della maggioranza assoluta alla Camera, che è di 316 voti. Ma è singolare che tutti i giornali, eccetto i due o tre berlusconiani, facciano lo stesso titolo. È l’Italia sovietica, coperta e allineata, compresa “Repubblica”, che un tempo pensava da sola, cui la cronista dell’Ansa dà il là.
Impazza il Power Balance, un braccialetto che promette “l’efficienza” biologica e muscolare a chi lo indossa per quindici giorni. Un braccialetto di plastica, che si fa pagare trenta euro, e tra l’altro non fa male. Ma è l’unica cosa che, secondo l’Antitrust, minaccia il mercato di monopolismo.
I giornalisti, sono sempre stati un problema. Smontarono Marx, e non era facile, 140 anni fa. A proposito della partecipazione italiana all'Internazionale, attraverso le fazioni bakuniniane dell'Alleanza: “L'Alleanza in Italia non è un raggruppamento operaio ma una truppa di declassés, il rifiuto della borghesia. Tutte le pretese sezioni dell’Internazionale in Italia sono dirette da avvocati senza clienti, da medici senza ammalati e senza conoscenze mediche, da studenti assidui al biliardo, da viaggiatori e da impiegati di commercio e specialmente da giornalisti”.
“Golpe di Tremonti contro Vendola”, titola “il Manifesto”. Vendola vorrebbe assumere alle sue Asl, che hanno un buco di mezzo miliardo, ottomila lavoratori della sanità privata. Ottomila, in un colpo. Questo Chàvez non lo chiamerebbe un golpe.
Si discute il santino della ragazza sfigurata dai talebani che fa la copertina di “Time”. Il richiamo è involontario a “Sesso & potere”, il film di Barry Levinson del 1997 in cui Dustin Hoffmann, un produttore disoccupato, è ingaggiato per “creare” la guerra alla Serbia per l’Albania. Un diversivo alle avventure di sesso del presidente alla Casa Bianca, ma una guerra che l’anno dopo si fece realmente. Forse non è scena, la ragazza è stata mutilata. Ma è il senso della copertina: queste “modelle” sono le nuove martiri.
Berlusconi va dicendo in giro che Fini, Bongiorno, Granata, Bocchino, Urso, che nomi, gli hanno impedito la legge sulle intercettazioni. Non dispiaciuto. Perché sa che sulle intercettazioni stravincerebbe eventuali elezioni?
Paolo Baratta e Marco Müller hanno escluso Avati, sicuro vincente della Mostra di Venezia, che è pur sempre un concorso a premi, a favore di Ascanio Celestini, sicuro perdente col suo filmetto da cantastorie. Per offrire una vetrina al “giovane” Celestini, perché il produttore di Celestini è più ammanicato, e perché l’irriverente cantastorie è molto “nella linea”. Una normale operazione di partito. Ma l’irriverente Celestini non si scusa nemmeno. Mentre Müller e Baratta irridono Avati, al gioco destra-sinistra. Regime?
Come già Bertolaso, il ciclone Verdini ha zittito le leonesse della giudiziaria. Il giorno dopo non sono tornate sulle sue magagne, il giorno successivo nemmeno. Nemmeno per caso: c’è dunque un suggeritore.
Ora i giorni di silenzio sono una diecina: il suggeritore non ha più “carte”? È l’ufficio legale della ditta che dice cosa dire? Il giornalismo degli avvocati.
Paolo Ermini, il direttore del “Corriere Fiorentino”, costola locale del “Corriere della sera”, si costringe e definire ottimi professionisti, di grande scuola, i giornalisti che ha assunto in provenienza dal “Giornale della Toscana” di Verdini. Per discolparsi a Milano? Per timore della peste? C’è la peste a Firenze?
Gli editori italiani. Garzanti rileva Treves nel 1938, a prezzi di saldo grazie alle leggi razziali. Bompiani è l’editore del “Mein Kampf” italiano, un successone.
mercoledì 4 agosto 2010
Il Grande Centro debutta con un rinvio
Il Grande Centro esordisce dunque con un autogoal. La mozione respinta contro Caliendo dà un po’ di sostanza alle fanfaronate di Berlusconi. E l’astensione dei tre belli della Repubblica ne sottolinea le ambiguità. Infinite, come le ambizioni. Un progetto per l’Italia che debutta con un’astensione sarebbe ridicolo a tutte le latitudini politiche. L’Italia fa eccezione giusto perché la Rai e i giornali sono ancora sovietici.
Per il varo del Grande Centro è stato riesumato pure Buttiglione, che è alto come Fini, Casini e Rutelli ma non altrettanto bello, e ogni italiano che legge ha capito. Ha capito che il rinvio è la cifra dei vecchi giovani. Ai quattro s’è naturalmente appaiato Lombardo e questo riempie d’ombra il quadro. Tanto più che per lui, accusato ben più che da uno Spatuzza, Fini s’è turato il naso (ma rischia l’asfissia, se dovrà chiedere i voti ai siciliani di Casini, nonché allo stesso Lombardo). Nella migliore delle ipotesi l’annunciato debutto è una recita rinviata. Ma si sa che il rinvio è l’arma della politica corrotta.
Per ora il Grande Centro fa felice giusto la Rai, rimasta contro venti e tempeste pervicacemente democristiana. E i grandi giornali laici, per motivi che si possono solo supporre – di cui il vecchio “sfascismo” di Pannella è il più benevolo. Il prossimo passo, posto che si vada alle elezioni come Fini auspica, sarà il ritorno al proporzionale. Fini che ritorna al proporzionale è tutto dire, ma i suoi nuovi alleati solo su questo hanno idee chiare. Del resto, pur concertando l’astensione, ha “lasciato liberi” i “suoi” ministri di votare a favore di Caliendo: quello che si dice un vero Capo. Con una rotta precisa in mente, altro che mare in tempesta.
Per il varo del Grande Centro è stato riesumato pure Buttiglione, che è alto come Fini, Casini e Rutelli ma non altrettanto bello, e ogni italiano che legge ha capito. Ha capito che il rinvio è la cifra dei vecchi giovani. Ai quattro s’è naturalmente appaiato Lombardo e questo riempie d’ombra il quadro. Tanto più che per lui, accusato ben più che da uno Spatuzza, Fini s’è turato il naso (ma rischia l’asfissia, se dovrà chiedere i voti ai siciliani di Casini, nonché allo stesso Lombardo). Nella migliore delle ipotesi l’annunciato debutto è una recita rinviata. Ma si sa che il rinvio è l’arma della politica corrotta.
Per ora il Grande Centro fa felice giusto la Rai, rimasta contro venti e tempeste pervicacemente democristiana. E i grandi giornali laici, per motivi che si possono solo supporre – di cui il vecchio “sfascismo” di Pannella è il più benevolo. Il prossimo passo, posto che si vada alle elezioni come Fini auspica, sarà il ritorno al proporzionale. Fini che ritorna al proporzionale è tutto dire, ma i suoi nuovi alleati solo su questo hanno idee chiare. Del resto, pur concertando l’astensione, ha “lasciato liberi” i “suoi” ministri di votare a favore di Caliendo: quello che si dice un vero Capo. Con una rotta precisa in mente, altro che mare in tempesta.
Chi ha (aveva) paura dei pentiti?
Undici anni fa, il 4 agosto 1999, presidente del consiglio D’Alema, l’agenda politica era la stessa di oggi: giusto processo, riforma federalista, un altro pentito (poi dissoltosi) contro Dell’Utri (di cambiato c’è solo Violante), la riforma dei “pentiti” (dichiarazioni, protezione, etc.), Bologna:
“Tra l'opposizione che non spinge per la riforma della legge e il governo che rinvia, chi ha paura dei pentiti?, scrivevamo. «Parliamo di giustizia solo quando i Ds ci dicono che bisogna parlarne», ha detto il ministro Zecchino, Popolare, al “Corriere della sera” in una rara intervista sincera. Sullo stesso giornale Marco Boato, Verde, spiegava lo stesso giorno che il rinvio del giusto processo, imposto dai Ds per agganciarlo alla riforma federalista dello Stato, è in realtà un rinvio a tempo indeterminato: «La riforma federalista riguarda l'intero capitolo quinto della Costituzione, e cioè moltissimi articoli». Sempre lo stesso giorno si sapeva che il giusto processo non avrà come relatore alla Camera né Boato né un esponente di Forza Italia, l'avvocato Pecorella, ma l'onorevole Soda, diessino, su sollecitazione del presidente della Camera, Luciano Violante.
“Bene, sappiamo così che il partito della Quercia tiene strettamente sotto controllo la giustizia. Nei giorni precedenti, del resto, tutto il partito era sceso in campo contro Del Turco, che da presidente della commissione Antimafia aveva criticato i ritardi nella riforma delle legge sui pentiti. Del Turco aveva parlato dopo che il pentito Cangemi aveva pubblicamente accusato Berlusconi e Dell'Utri di avere ordinato a Riina le stragi del 1992 e del 1993 - li aveva accusato non per propria scienza e nemmeno per sentito dire, ma per un suo «ragionamento».
“L’Antimafia, al tempo in cui la presiedeva Violante, aveva dato ben altri segni di travalicamento delle competenze che non la modesta critica di Del Turco. Con l'indebita pubblicizzazione di troppi atti, per esempio. O con l’erezione di ignobili assassini a maestri di etica. Dunque, non è la prassi dell’Antimafia che può dare fastidio ai Ds. È allora la critica a Cancemi? È possibile.
“I Pm del processo nel quale Cancemi testimoniava non hanno raccolto il suo «ragionamento». Del resto Berlusconi e Dell'Utri hanno le spalle abbastanza larghe per proteggersi da queste accuse. Ma il pentito ha dato nell'occasione un segnale chiaro della potenza di fuoco che lui e i suoi altrettanto spregiudicati compari possono vomitare a volontà su chiunque. Bisognerebbe dunque fare presto, per evitare di trovarsi spuntata, cioè non credibile, un’arma che ha dato contributi importanti alla lotta contro la mafia. Perché allora i rinvii?
“Nella polemica con Del Turco l’onorevole diessino Lumia ha sostenuto che il suo partito ritiene anch'esso che la legge sui pentiti vada perfezionata, e che in commissione Antimafia «ai Ds interessa una sola cosa: poter parlare del rapporto mafia-politica». Questo sarebbe solo opportuno: parlare cioè di tutti i rapporti della mafia con la politica, non solo di quelli con Lima e Ciancimino, oppure oggi di quelli presunti con Forza Italia.
“Ora, può darsi che con il rinvio della riforma si eviti che i tipi come Cancemi facciano sfracelli. Anche perché ci sono responsabilità precise, degli attuali Ds più che di ogni altra parte politica, nella «gestione» dei pentiti. E si sa che gli orologi della memoria di questi personaggi sono bizzarri. Ma il rinvio della riforma, se protegge questo tipo di pentiti, vanificherà tutto quanto il contributo che i «collaboratori di giustizia» hanno dato e potrebbero dare nella lotta alla mafia. Quello serio, che Antonino Caponnetto ha detto «determinante» (prima «non sapevamo nemmeno che la mafia si chiamava Cosa Nostra», ha ricordato il Procuratore di Palermo della stagione d’oro del pool anti-mafia, e per proteggere Falcone e Borsellino non si trovava di meglio che rinchiuderli per qualche settimana nel supercarcere dell'Asinara, a loro spese). Resterebbero invece proprio i «ragionamenti» e i pettegolezzi. Basta, come si esprimono Riina e soci, «imbordellire» la questione. E questo è purtroppo quello che emerge, sotto le petizioni di principio, e le accuse di mafiosità spese contro ogni critica, come in un gioco diabolico: l’opposizione che non spinge a fondo per la riforma, e il governo che la rinvia.
“Il giorno in cui i Ds prendevano senza più paraventi in mano la giustizia era anche il giorno in cui cadeva il baluardo rosso di Bologna. Segno preciso che la politica del doppio linguaggio non paga più con i simpatizzanti, e forse nemmeno con i militanti. Non è detto che la lezione di Bologna venga recepita, che una concezione laica della politica faccia breccia in un partito sempre togliattiano, abbarbicato all'hegeliana Verità del Potere. Ma la questione dei pentiti è talmente chiara che non recepirla sconfina nel delittuoso”.
“Tra l'opposizione che non spinge per la riforma della legge e il governo che rinvia, chi ha paura dei pentiti?, scrivevamo. «Parliamo di giustizia solo quando i Ds ci dicono che bisogna parlarne», ha detto il ministro Zecchino, Popolare, al “Corriere della sera” in una rara intervista sincera. Sullo stesso giornale Marco Boato, Verde, spiegava lo stesso giorno che il rinvio del giusto processo, imposto dai Ds per agganciarlo alla riforma federalista dello Stato, è in realtà un rinvio a tempo indeterminato: «La riforma federalista riguarda l'intero capitolo quinto della Costituzione, e cioè moltissimi articoli». Sempre lo stesso giorno si sapeva che il giusto processo non avrà come relatore alla Camera né Boato né un esponente di Forza Italia, l'avvocato Pecorella, ma l'onorevole Soda, diessino, su sollecitazione del presidente della Camera, Luciano Violante.
“Bene, sappiamo così che il partito della Quercia tiene strettamente sotto controllo la giustizia. Nei giorni precedenti, del resto, tutto il partito era sceso in campo contro Del Turco, che da presidente della commissione Antimafia aveva criticato i ritardi nella riforma delle legge sui pentiti. Del Turco aveva parlato dopo che il pentito Cangemi aveva pubblicamente accusato Berlusconi e Dell'Utri di avere ordinato a Riina le stragi del 1992 e del 1993 - li aveva accusato non per propria scienza e nemmeno per sentito dire, ma per un suo «ragionamento».
“L’Antimafia, al tempo in cui la presiedeva Violante, aveva dato ben altri segni di travalicamento delle competenze che non la modesta critica di Del Turco. Con l'indebita pubblicizzazione di troppi atti, per esempio. O con l’erezione di ignobili assassini a maestri di etica. Dunque, non è la prassi dell’Antimafia che può dare fastidio ai Ds. È allora la critica a Cancemi? È possibile.
“I Pm del processo nel quale Cancemi testimoniava non hanno raccolto il suo «ragionamento». Del resto Berlusconi e Dell'Utri hanno le spalle abbastanza larghe per proteggersi da queste accuse. Ma il pentito ha dato nell'occasione un segnale chiaro della potenza di fuoco che lui e i suoi altrettanto spregiudicati compari possono vomitare a volontà su chiunque. Bisognerebbe dunque fare presto, per evitare di trovarsi spuntata, cioè non credibile, un’arma che ha dato contributi importanti alla lotta contro la mafia. Perché allora i rinvii?
“Nella polemica con Del Turco l’onorevole diessino Lumia ha sostenuto che il suo partito ritiene anch'esso che la legge sui pentiti vada perfezionata, e che in commissione Antimafia «ai Ds interessa una sola cosa: poter parlare del rapporto mafia-politica». Questo sarebbe solo opportuno: parlare cioè di tutti i rapporti della mafia con la politica, non solo di quelli con Lima e Ciancimino, oppure oggi di quelli presunti con Forza Italia.
“Ora, può darsi che con il rinvio della riforma si eviti che i tipi come Cancemi facciano sfracelli. Anche perché ci sono responsabilità precise, degli attuali Ds più che di ogni altra parte politica, nella «gestione» dei pentiti. E si sa che gli orologi della memoria di questi personaggi sono bizzarri. Ma il rinvio della riforma, se protegge questo tipo di pentiti, vanificherà tutto quanto il contributo che i «collaboratori di giustizia» hanno dato e potrebbero dare nella lotta alla mafia. Quello serio, che Antonino Caponnetto ha detto «determinante» (prima «non sapevamo nemmeno che la mafia si chiamava Cosa Nostra», ha ricordato il Procuratore di Palermo della stagione d’oro del pool anti-mafia, e per proteggere Falcone e Borsellino non si trovava di meglio che rinchiuderli per qualche settimana nel supercarcere dell'Asinara, a loro spese). Resterebbero invece proprio i «ragionamenti» e i pettegolezzi. Basta, come si esprimono Riina e soci, «imbordellire» la questione. E questo è purtroppo quello che emerge, sotto le petizioni di principio, e le accuse di mafiosità spese contro ogni critica, come in un gioco diabolico: l’opposizione che non spinge a fondo per la riforma, e il governo che la rinvia.
“Il giorno in cui i Ds prendevano senza più paraventi in mano la giustizia era anche il giorno in cui cadeva il baluardo rosso di Bologna. Segno preciso che la politica del doppio linguaggio non paga più con i simpatizzanti, e forse nemmeno con i militanti. Non è detto che la lezione di Bologna venga recepita, che una concezione laica della politica faccia breccia in un partito sempre togliattiano, abbarbicato all'hegeliana Verità del Potere. Ma la questione dei pentiti è talmente chiara che non recepirla sconfina nel delittuoso”.
lunedì 2 agosto 2010
L’ispettore Morse viene meglio in tv
Si ripropongono per la terza o quarta volta un autore e un personaggio che sono stati materia di una seguita serie tv trent’anni fa, e ora viaggiano stanchi. L’ispettore Morse è simpatico: alla mezza età non cura la fitness, è scapolo ma ci sa fare, ha studiato ma non lo fa pesare. A Oxford, setting dai molteplici spunti E ama l’opera. Ma non morde, forse perché già visti più volte, lui e la città. Un tentativo di rinvigorire le storie sul satellite col suo assistente Lewis, liberandosi dell’ingombrante Morse, è morto alle prime puntate. La riscoperta ha il merito di ridimensionare il testo di fronte al film, come già con Poirot, Miss Marple, Montalbano e perfino con Maigret: lo scrittore vivrà dei tempi, le figure, le ambientazioni che gli autori dei film s’inventano. Ma fino a un certo punto, ecco.
Colin Dexter, L’ultima fermata per Woodstock, Sellerio, pp. 344, € 14
Colin Dexter, L’ultima fermata per Woodstock, Sellerio, pp. 344, € 14
Alda dei miracoli
In attesa di una rivalutazione critica della poetessa, tanto vissuta quanto trascurata, continua postumo il fenomeno Merini, di cui si stampa e ristampa ogni carta. In queste due pubblicazioni se ne precisa la figura come contemporanea “donna divorante”, ex o postfemminista, con la coscienza cioè di esserlo. A Guido Spaini ribadisce, nella conversazione che apre “Elettroshock”, il suo celebrato “in me l’anima c’era della meretrice, della santa, della sanguinaria e dell’ipocrita”. E a proposito dei suoi tanti amori, che sono per lei la vita: “I miei amori sono stati tutti infelici anche perché non avevo l’accortezza di dire loro che gli volevo bene. Forse sono stata anche più furba degli altri, mi sono tenuta la parte migliore della vita”.
Marcello Baraghini, introducendo “Elettroshock”, sfila i ricordi sulla traccia della follia, della comune follia. Ma Alberto Casjraghy, che ne sa di più, la vede “incantevole e atroce «grande montagna su un precipizio»”, un’amica tiranna: “Nietzsche consigliava di «costruire la casa sotto il vulcano», Alda abitava in un vulcano: costruiva paradisi e inferni con grande facilità, come un camaleonte cambia continuamente colore”. Resta la scrittura, che in Alda fluisce “con la facilità dell’istinto e della naturalezza”. Di una poesia per una volta non retorica ma vissuta, e anche questo, agevole, è già un esito critico. A meno della poliedricità: “Come polvere o vento” contiene una sezione di una ventina di poemetti, “Antologia pierriana”, di sorprendente stampo classico, con sentori di Leopardi, Petrarca, Dante perfino. In nota a "Le madri" Silvio Scorsi si rifà a Foucault, che "la parola del matto" dice o insensata o "ispirata e profetica". Ma Foucault sa, sistemizza, quello che ognuno sa, dell'accoglienza del verbo del matto, non della sostanza e tantomeno dell'origine del dono della parola.
Nell’introduzione al volumetto di Manni, Giulio Ferroni dà un esempio, tanto agile quanto illuminante, di assestamento cronologico dell’opera della poetessa. Vede anche “la particolarità della voce e della presenza poetica di Alda Merini, il consenso e l’interesse” che essa suscita, nell’incontro-scontro col “presente della comunicazione vuota e dei simulacri pubblicitari, in un universo senza poesia”. Ma non è il contrario? Alda Merini non è nel presente televisivo, né nel passato prossimo neo realista, ha realtà ben più sostanziose di cui occuparsi. E poi il rapporto causa-effetto si può rovesciare: Merini si legge, o comunque si ama, perché è di un’altra pasta, non di questo mondo da talk show e antipolitica ossessiva che ci perseguita. Del resto, in questa età che Ferroni dice “senza storia” Merini ha vissuto ben più felicemente che negli anni Ottanta, per non dire degli anni del manicomio, e dell’adolescenza-giovinezza dissipata, e forse sfruttata. La raccolta “Satire e poesie” milanesi degli anni Ottanta che apre il volumetto è ben più acre del realismo del Porta che Ferroni evoca.
Alda Merini sarà l’autrice più vissuta dagli italiani, anche se non letta – certo meno di Faletti o Giordano. Ma, poi, prende un intero scaffale della libreria, seppure in diecine di volumetti sparsi, e perfino con Albatros le edicole, forse non è vero che la poesia non vende – quante storie non dovranno essere rifatte dell’Italia! “Elettroshock” è la riedizione di un vecchio Millelire che avviò il revival, “Le parole di Alda Merini” del 1991, e del successivo, dieci anni dopo, “Ringrazio sempre chi mi dà ragione”, che ne consacrava la figura in immagini e aforismi.
Alda Merini, Le madri non cercano il paradiso, Albatros, pp.54, € 4,90
Come polvere o vento, Manni, pp. 104, € 12
Elettroshock, Stampa Alternativa, pp.102, €12
Marcello Baraghini, introducendo “Elettroshock”, sfila i ricordi sulla traccia della follia, della comune follia. Ma Alberto Casjraghy, che ne sa di più, la vede “incantevole e atroce «grande montagna su un precipizio»”, un’amica tiranna: “Nietzsche consigliava di «costruire la casa sotto il vulcano», Alda abitava in un vulcano: costruiva paradisi e inferni con grande facilità, come un camaleonte cambia continuamente colore”. Resta la scrittura, che in Alda fluisce “con la facilità dell’istinto e della naturalezza”. Di una poesia per una volta non retorica ma vissuta, e anche questo, agevole, è già un esito critico. A meno della poliedricità: “Come polvere o vento” contiene una sezione di una ventina di poemetti, “Antologia pierriana”, di sorprendente stampo classico, con sentori di Leopardi, Petrarca, Dante perfino. In nota a "Le madri" Silvio Scorsi si rifà a Foucault, che "la parola del matto" dice o insensata o "ispirata e profetica". Ma Foucault sa, sistemizza, quello che ognuno sa, dell'accoglienza del verbo del matto, non della sostanza e tantomeno dell'origine del dono della parola.
Nell’introduzione al volumetto di Manni, Giulio Ferroni dà un esempio, tanto agile quanto illuminante, di assestamento cronologico dell’opera della poetessa. Vede anche “la particolarità della voce e della presenza poetica di Alda Merini, il consenso e l’interesse” che essa suscita, nell’incontro-scontro col “presente della comunicazione vuota e dei simulacri pubblicitari, in un universo senza poesia”. Ma non è il contrario? Alda Merini non è nel presente televisivo, né nel passato prossimo neo realista, ha realtà ben più sostanziose di cui occuparsi. E poi il rapporto causa-effetto si può rovesciare: Merini si legge, o comunque si ama, perché è di un’altra pasta, non di questo mondo da talk show e antipolitica ossessiva che ci perseguita. Del resto, in questa età che Ferroni dice “senza storia” Merini ha vissuto ben più felicemente che negli anni Ottanta, per non dire degli anni del manicomio, e dell’adolescenza-giovinezza dissipata, e forse sfruttata. La raccolta “Satire e poesie” milanesi degli anni Ottanta che apre il volumetto è ben più acre del realismo del Porta che Ferroni evoca.
Alda Merini sarà l’autrice più vissuta dagli italiani, anche se non letta – certo meno di Faletti o Giordano. Ma, poi, prende un intero scaffale della libreria, seppure in diecine di volumetti sparsi, e perfino con Albatros le edicole, forse non è vero che la poesia non vende – quante storie non dovranno essere rifatte dell’Italia! “Elettroshock” è la riedizione di un vecchio Millelire che avviò il revival, “Le parole di Alda Merini” del 1991, e del successivo, dieci anni dopo, “Ringrazio sempre chi mi dà ragione”, che ne consacrava la figura in immagini e aforismi.
Alda Merini, Le madri non cercano il paradiso, Albatros, pp.54, € 4,90
Come polvere o vento, Manni, pp. 104, € 12
Elettroshock, Stampa Alternativa, pp.102, €12
domenica 1 agosto 2010
Se Fini è un vuoto a perdere
La rivolta di Fini, o la fine del Pdl, sembra drammatica, ma non lo è. Altre rivolte, di Casini, Follini, Buttiglione, dello stesso Fini, nonché di Bossi, per non dire delle innumerevoli scissioni a sinistra, sono state ininfluenti. Non hanno mai migliorato la politica, e non l’hanno peggiorata. Nel senso che la politica non è peggiorabile, essendo venuta meno l’azione di governo che la giustifica e nobilita. Ecco, queste sollevazioni deprimono una funzione di governo già depressa (frazionata, ricattata, insterilita). E cioè la democrazia: un governo è necessario alla democrazia, chiunque lo sa, è per questo che ogni tanto votiamo. Senza migliorare in alcun modo il diritto al dissenso, anzi screditandolo.
Si prenda Fini, le sue dichiarazioni d’intenti. Si prenda cioè per buono, anche se ha dato ampiamente prove di non dissimulata ipocrisia. Dice che vuole rigenerare la destra, riportarla a nobili ideali, alla giustizia, alla moralità, alla democrazia interna eccetera. Ma non fa che antagonizzarla. Mentre tratta con Casini, fa sapere che tratta con Casini. Fa l’occhiolino alla sinistra – cioè a Bersani, posto che Bersani sia la sinistra. E regge i “suoi” con mano ferrea, da ducetto quale si sogna. Per creare un Grande Centro, che è tutto ciò che l’uomo di destra aborre. E finirla col bipolarismo, l’unica maniera di avere un qualche governo che rispetti il voto. Uno stratega senza tattica, o un tattico senza strategia. Proprio l’uomo su cui chi vota secondo coscienza non può fare affidamento.
Si può anche dire che, in questa Seconda Repubblica, né gli alleati di Prodi né quelli di Berlusconi, pur dissentendo fino all’eterna crisi, hanno migliorato la funzione di governo, né si sono proposti di farlo. Bertinotti, Fini, Folli, Casini, Buttiglione (l’unica eccezione è Mastella, eh sì) hanno una sola proposta al loro attivo. Vent’anni di politica e di governo e non una sola “cosa” per cui questi si ricordino. Salvo attestarsi sul facile moralismo della legalità. Di cui nessuno si priva, neanche i pluriomicidi, ancorché convertiti alla teologia. Che poi è la schiena spezzata al cabotaggio golpista dei giudici (certo, pensare che Fini e Casini facciano i moralisti, con gli emissari che si ritrovano, dà i brividi). Si potrebbe cioè dire questa ginnastica politica irrilevante. E questo dice: Fini non è il conte di Montecristo, la sua Seconda Repubblica è quella saprofitica, impiantata sul bisogno di governabilità da cinici golpisti alla Borrelli, alla Scalfaro, a uso di personale carriera e con lo scopo primario di impedirla.
Per il Parlamento, e quindi per la democrazia, la “sceltà di libertà” di Fini è allora come liberarsi dalla zavorra, dei tanti vuoti a perdere che ingombrano la spesa quotidiana. Di un Bocchino di cui non si capiva fino a ieri a che titolo infiorettasse ogni tg del suo ghigno. Dello specialista in viaggi Urso. Della killerandreottiana Bongiorno – con la quale tra l’altro il governo potrebbe liberarsi con beneficio dei disegni di riforma della giustizia, i giudici sono violenti. Il carrierismo camuffato di dissidenza è stato ed è il cancro della Repubblica, del buon governo, di qualsiasi governo, sia pure dell’ordinaria amministrazione. Pesa ancora sui conti pubblici l’alt di Fini a una vendita d’immobili da parte del Tesoro perché i sottufficiali dell’Aeronautica di Roma trovavano più conveniente (non) pagare il modesto canone piuttosto che riscattare l’alloggio, al 40 per cento di sconto.
Ci saranno ora più processi contro Berlusconi e i suoi. Da parte delle Procure dove il presidente in doppiopetto ha le mai in pasta, Pescara, Napoli, Roma e Firenze (ma qui ci sono perplessità, i procuratori non vogliono marciare con Quattrocchi, benché altrettanto “laici” che i Procuratore Capo). E più condanne dai giudici di Milano, uomini - e donne - d’un pezzo come l’inflessibile presidente. Ci saranno vendette, e questo è l’uomo, un (ex) fascista: sotto il doppiopetto niente.
Politicamente Fini colpisce Berlusconi nella sua riserva segreta, la governabilità, ma che dire? Ci costringe ad augurarci che non succeda. “È la fine del decisionismo”, si congratula con Fini Bertinotti, e non sa che è, è stata, la fine sua e della sinsitra. Il problema con Fini, si dice, è che non è la prima volta, ma non sarà l'ultima.
Si prenda Fini, le sue dichiarazioni d’intenti. Si prenda cioè per buono, anche se ha dato ampiamente prove di non dissimulata ipocrisia. Dice che vuole rigenerare la destra, riportarla a nobili ideali, alla giustizia, alla moralità, alla democrazia interna eccetera. Ma non fa che antagonizzarla. Mentre tratta con Casini, fa sapere che tratta con Casini. Fa l’occhiolino alla sinistra – cioè a Bersani, posto che Bersani sia la sinistra. E regge i “suoi” con mano ferrea, da ducetto quale si sogna. Per creare un Grande Centro, che è tutto ciò che l’uomo di destra aborre. E finirla col bipolarismo, l’unica maniera di avere un qualche governo che rispetti il voto. Uno stratega senza tattica, o un tattico senza strategia. Proprio l’uomo su cui chi vota secondo coscienza non può fare affidamento.
Si può anche dire che, in questa Seconda Repubblica, né gli alleati di Prodi né quelli di Berlusconi, pur dissentendo fino all’eterna crisi, hanno migliorato la funzione di governo, né si sono proposti di farlo. Bertinotti, Fini, Folli, Casini, Buttiglione (l’unica eccezione è Mastella, eh sì) hanno una sola proposta al loro attivo. Vent’anni di politica e di governo e non una sola “cosa” per cui questi si ricordino. Salvo attestarsi sul facile moralismo della legalità. Di cui nessuno si priva, neanche i pluriomicidi, ancorché convertiti alla teologia. Che poi è la schiena spezzata al cabotaggio golpista dei giudici (certo, pensare che Fini e Casini facciano i moralisti, con gli emissari che si ritrovano, dà i brividi). Si potrebbe cioè dire questa ginnastica politica irrilevante. E questo dice: Fini non è il conte di Montecristo, la sua Seconda Repubblica è quella saprofitica, impiantata sul bisogno di governabilità da cinici golpisti alla Borrelli, alla Scalfaro, a uso di personale carriera e con lo scopo primario di impedirla.
Per il Parlamento, e quindi per la democrazia, la “sceltà di libertà” di Fini è allora come liberarsi dalla zavorra, dei tanti vuoti a perdere che ingombrano la spesa quotidiana. Di un Bocchino di cui non si capiva fino a ieri a che titolo infiorettasse ogni tg del suo ghigno. Dello specialista in viaggi Urso. Della killerandreottiana Bongiorno – con la quale tra l’altro il governo potrebbe liberarsi con beneficio dei disegni di riforma della giustizia, i giudici sono violenti. Il carrierismo camuffato di dissidenza è stato ed è il cancro della Repubblica, del buon governo, di qualsiasi governo, sia pure dell’ordinaria amministrazione. Pesa ancora sui conti pubblici l’alt di Fini a una vendita d’immobili da parte del Tesoro perché i sottufficiali dell’Aeronautica di Roma trovavano più conveniente (non) pagare il modesto canone piuttosto che riscattare l’alloggio, al 40 per cento di sconto.
Ci saranno ora più processi contro Berlusconi e i suoi. Da parte delle Procure dove il presidente in doppiopetto ha le mai in pasta, Pescara, Napoli, Roma e Firenze (ma qui ci sono perplessità, i procuratori non vogliono marciare con Quattrocchi, benché altrettanto “laici” che i Procuratore Capo). E più condanne dai giudici di Milano, uomini - e donne - d’un pezzo come l’inflessibile presidente. Ci saranno vendette, e questo è l’uomo, un (ex) fascista: sotto il doppiopetto niente.
Politicamente Fini colpisce Berlusconi nella sua riserva segreta, la governabilità, ma che dire? Ci costringe ad augurarci che non succeda. “È la fine del decisionismo”, si congratula con Fini Bertinotti, e non sa che è, è stata, la fine sua e della sinsitra. Il problema con Fini, si dice, è che non è la prima volta, ma non sarà l'ultima.
Se Napolitano s’inchina a Capaldo
Fa impressione Napolitano, che pure conosce i giudici, sulla risibile vicenda della P 3 che non fa ridere nessuno, nemmeno gli eventuali trinariciuti dispersi nella giungla. Fa impressione che un presidente della Repubblica, e uno con un passato politico di prim’ordine, si riduca allo scemenzario piccolo-borghese, “rubbeno” – sarà l’aria infetta del Quirinale? Perché un fatto è certo: l’unica riforma della giustizia la possono fare i giudici, cioè il Csm, cioè il Presidente della Repubblica che presiede il Csm. Cioè, la riforma della giustizia è improcrastinabile: dei carichi di lavoro, le procedure, i controlli di capacità e produttività. Ma la possono fare solo i magistrati. Hanno finora cortocircuitato vent’anni di tentativi di riforma, ghigliottinando la stessa politica, e “in questo senso non c’è salvezza senza i magistrati”: i giudici sono golpisti, altro che conflitto tra poteri , ma invincibili – facendo anche comodo ai “Financial Times”, agli “Economist” e ai “Wall Street Journal”, cioè ai loro non tanto oscuri consigliori e padroni.
Solo un presidente della Repubblica eletto per sette anni e inamovibile può smuoverli. Napolitano sembrava poterlo fare, che non aveva cavalcato il “lungo golpe” del 1992-94. E al nuovo Csm l’ha anche detto. Ma con appelli di questo stile: “la terzietà del Csm”, “regole deontologiche” e “il rispettoso equilibrio tra i poteri”. Dando poi addosso alla politica: “all’operare di squallide consorterie”, e a “fenomeni di corruzione e di trame inquinanti che turbano e allarmano”. Un presidente della Repubblica allineato su un magistrato che non ha mai lavorato in vita sua, e che all’improvviso decreta che i Mokbel e i Carboni sono il “terzo livello” dell’Italia, di Fastweb, Telecom, Finmeccanica, e del governo, tutto ciò è ridicolo. Il giudice Capaldo può dirselo, come se lo dice, da sé in tv, ma un presidente della Repubblica? Fosse stato un teatrino kierkegaardiano, il presidnete davanti al Csm avrebbe rimesso in scena "Timori e tremori".
Solo un presidente della Repubblica eletto per sette anni e inamovibile può smuoverli. Napolitano sembrava poterlo fare, che non aveva cavalcato il “lungo golpe” del 1992-94. E al nuovo Csm l’ha anche detto. Ma con appelli di questo stile: “la terzietà del Csm”, “regole deontologiche” e “il rispettoso equilibrio tra i poteri”. Dando poi addosso alla politica: “all’operare di squallide consorterie”, e a “fenomeni di corruzione e di trame inquinanti che turbano e allarmano”. Un presidente della Repubblica allineato su un magistrato che non ha mai lavorato in vita sua, e che all’improvviso decreta che i Mokbel e i Carboni sono il “terzo livello” dell’Italia, di Fastweb, Telecom, Finmeccanica, e del governo, tutto ciò è ridicolo. Il giudice Capaldo può dirselo, come se lo dice, da sé in tv, ma un presidente della Repubblica? Fosse stato un teatrino kierkegaardiano, il presidnete davanti al Csm avrebbe rimesso in scena "Timori e tremori".
A quando il romanzo del cronista giudiziario?
Goffredo Buccini dice sul “Corriere della sera” che intercettazioni, spiate, foto rubate, pedinamenti in camera da letto e al bagno fanno “quasi un nuovo romanzo pop”. È garantista pure lui, c’è qualcuno che non lo è, e quindi dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Le intercettazioni sono troppe? Sì e no. Sono diffamanti? Sì e no. Ma tra il cerchio e la botte il cuore suo e del giornale di Milano batte per il cerchio (o per la botte?): “Dal «Di Pietro mi ha sbancato», di Chicchi Pacini Battaglia, all’estate delle attricette nei colloqui tra Berlusconi e il direttore generale della Rai, Saccà; dalle «porcellone Doc» dell’allora portavoce di Fini, Salvatore Sottile, ai «furbetti del quartierino» di Ricucci, è difficile negare che tante frasi pur confuse, spesso irrilevanti penalmente, abbiano almeno offerto agli italiani uno squarcio alternativo alle verità da dispaccio d’agenzia e ufficio stampa di questo (quasi) ventennio”. E, certo, uno di fronte al ventennio arretra. Ma l’onesto giornalista non dice che lui di queste cose prospera. Che più intercettazioni si fanno, siano pure contro ogni decenza, anzi meglio, fossero pure contro i giudici e i capitani che ora si premurano d’informarlo, più il giudiziario gode: fa le prime pagine, diventa caposervizio e inviato.
Il passo successivo del romanzo potrebbe essere che, il cronista giudiziario essendo diventato un personaggio, mettiamo alla Corona, o meglio la cronista, se ne pubblichino le intercettazioni. Sperando che vendano – perché potrebbe anche succedere che a quel punto i giornali se ne freghino, si perda cioè, direbbe Napolitano, “l’ampia risonanza nell’opinione pubblica”.
Iscriviti a:
Post (Atom)