Il giorno dopo “Annozero” si ridimensionano i ruoli di un certo Lavitola, un amico di Berlusconi, e di Vittorugo Mangiavillani, giornalista scrupoloso quanto onesto, che l’onorevole Bocchino aveva accusato delle peggiori nefandezze. Senza scuse. Anzi, si moltiplicano le maschere.
Il direttore del “Fatto”, di fronte alla testimonianza personale del ministro di Santa Lucia che la lettera è sua e la casa è di Tulliani, opina che il ministro non sia vero. È lo stesso che il giorno prima ergeva a Santa Lucia una National Printing Company, un vero e proprio Poligrafico dello Stato nell’isola montuosa e inabitabile – lui Padellaro, non il ministro. Mentre sul “Corriere della sera” Paolo Conti moltiplica l’audience e lo share di Santoro, da 4,2 a 4,9 milioni, e dal 16 a “quasi il 20 per cento”, per dire l’“Annozero” dei servizi una grande cosa. Che non ci sia un complotto?
Il “Manifesto”, che è nato con la controinformazione e ne è quindi specialista, sdegna la questione, riportandola alla politica: c’è un governo, o non più? E che fa Berlusconi, l’uomo del fare, che non sa nominare un ministro, né un presidnete della Consob, come pure sarebbe suo obbligo? E un presidente della Camera sarebbe da aggiungere che parla ogni giorno contro la maggioranza politica e contro il governo, e fonda contro di essi un partito, ma non lascia la carica super partes. Mentre su “Repubblica” e “Corriere della sera”, leader dell’opinione, cosa leggiamo? Pagine e pagine di gossip sulla casa di Montecarlo. Che non sia una forma di censura? La casa è un problema di etica, mentre ci sono dei fatti penali: i finti appalti dati dalla Rai alla suocera e al cognato, un affare da due milioni di euro. Ma di questo non si parla. Non interessano alla Procura, e nemmeno ai giornali, nemmeno per il gossip. Nemmeno a Santoro, per dire, che pure ce l’ha a morte col capo della Rai Masi, che di quegli appalti è stato tramite. Non si toccano gli appalti?
Non leggiamo invece e non vediamo nulla su Saint-Lucia, lo staterello caraibico dove le carte di Montecarlo sono seppellite. Nemmeno sul piano del gossip, di cui l’isola è ghiotta. Per essere stata francese ed essere francofona, benché di lingua inglese. Avere avuto due Nobel, un record ineguagliabile in rapporto ai cento o duecentomila suoi abitanti: l’economista sir Arthur Lewis, il primo nero a vincere il premio, e il poeta Derek Walcott, appassionato dantista. Celebrare ogni anno due grandi feste pubbliche della massoneria. Con un piede cioè nelle massonerie sia di Londra che di Parigi.
sabato 25 settembre 2010
L'empio è miglior officiante
Non ha bissato il “Codice da Vinci”, e tuttavia è altrettanto pacchiano, e insieme più avventuroso. Boston, la Svizzera e Roma sono scenari più accattivanti, o meno sfruttati, di Parigi, Londra e la Scozia? Ma più per una trovata che potrebbe sollevarlo dalla tribù indistinta dei colportisti: la figura del segretario del papa più credente e puro del papa, e il suo atto finale di contrizione. Quale Dan Brow potrebbe essere e dire a un confessore della chiesa risentita per le bestemmie del “Codice”. Una trovata di scuola, è facile essere miglior prete dei preti, ma efficace.
Dan Brown, Angeli e demoni
Dan Brown, Angeli e demoni
venerdì 24 settembre 2010
Non è più l’Italia dell’Olimpiade, è Milano
Non è il tipico ricordo che il salotto di Vespa vuole mieloso, né l’emozione di ospitare l’Olimpiade, evento eccezionale: l’Italia nel 1960 era veramente diversa. I fratelli D’Inzeo erano reduci dall’epurazione per fascismo, ma nessuno gliene faceva colpa. Nino Benvenuti, il più simpatico di tutti, era neofascista dichiarato. E quel Berruti che parlava di sé in terza persona? Emozionò tutti il salto di Valeri Brumel, uno di Mosca. Gli eroi dell’Olimpiade furono due neri, Wilma Rudolph e Abebe Bikila, lei reduce dalla poliomielite, lui poverissimo, beniamini di tutti senza supponenza e senza astio – c’era Cassius Clay e vinse, ma non era ancora la farfalla che sarà, sui suoi cento chili. Nessuna forma di quel livore che ora investe anche i vicini di casa civilissimi slavi, e i latinissimi rumeni. Lo scandalo di Fiumicino era emerso, ma nulla al confronto di quello che sarà ed è Malpensa: tutto politico, su piste fantasiose (la nebbia, i terreni cedevoli), senza i miliardi di perdite in capo allo scalo milanese. E bisogna pensare che l’Olimpiade si apriva, a fine agosto, ad appena un mese e mezzo dalla strage di Reggio Emilia il 7 luglio, che chiuse una settimana di manifestazioni con una diecina di morti, uccisi dalle forze dell’ordine.
Ma proprio per questo era un’altra Italia. Gli scontri e le uccisioni di Genova e Reggio Emilia, la peggiore crisi dell’Italia repubblicana, erano pur sempre un fatto politico, che la politica governava, seppure malissimo. L’Italia continuava a essere Italia, senza scomuniche né apostasie, e senza roghi. Non odiava gli ospiti, e non si odiava ogni giorno in pazza e al Parlamento, a ogni ora del giorno inventandosi veleni e infamie, sui nemici e anche sugli amici. Basta leggere del resto un giornale del 1960 e uno di oggi. Si entra in un diverso modo di fare l’informazione. La Rai all’epoca non avrebbe potuto dire il Vaticano un riciclatore di soldi, né un ministro concussore, senza un qualche fondamento, e ancora con rispetto per l’istituzione, mentre oggi è costretta a farlo, basta una denuncia anonima, e il Vaticano dire una mafia. Ma c’entra soprattutto un diverso modo di essere dell’Italia, che oggi è milanese.
C’è un momento preciso in cui l’Italia cambia pelle, e da paese solido, malgrado la sconfitta e la ricostruzione, e poi il terrorismo, diventa la palude di oggi, e si situa attorno al 1990. Questo è già un fatto storico. C’è un prima e c’è un dopo: il dopo è la caduta del Muro, i referendum di Segni, la Lega, Mani Pulite e Berlusconi. Due fatti romani e tre molto milanesi. L’effetto maggiore della caduta del Muro è stato di privare “Roma”, cioè la politica, del carisma di cui beneficiava, fosse pure dettato dalla paura. Col Pci finiva la politica, quindi tutti i partiti. Mani Pulite sarà stata l’avventura di alcuni giudici golpisti che invece di colpire la corruzione come affermavano, che a Milano semmai hanno rinfocolato, hanno completato l’opera. Affossando la politica e lo Stato. Segni incautamente ha dato l’avallo istituzionale all’antipolitica e all’antistato. Che si sono completati con l’abbattimento del potere economico residuo dello Stato nel nome della libertà e del mercato. Cioè, esplicitamente, di Milano: dell’oligarchia del denaro di cui Milano è sede e beneficiaria.
L’odio, il sospetto, la guerra di tutti contro tutti. Tutto questo sono – lo sono stati per ormai vent’anni – la Lega e Berlusconi. Cioè Milano. Inneschi di un’antipolitica che si dilata come in un “superiore” fuoco d’artificio. Si vede al paragone tra l’Olimpiade del 1960 e la piccola olimpiade che, senza le gare, sarà l’Expo 2015. Che Milano vive come una lotta di tutti contro tutti – le turpitudini nascondendo dietro il goffo paravento della ‘ndrangheta (Boccassini, ancora uno sforzo!). Le leggi si rifanno ogni sei mesi, non ce n’è mai una giusta. Per non disturbare gli affari. I dossier si moltiplicano ormai a cadenza che non lascia respiro: non basta la giornata per leggere tutte le “carte”. Chi è in affari lo vede ogni giorno: la denuncia continua, contro ogni atto della Pubblica Amministrazione, che raramente viene dall’onest’uomo, quasi sempre dall’affarista peggiore, uno ammanicato con i tribunali. L’odio viene dalla corruzione al potere.
Ma proprio per questo era un’altra Italia. Gli scontri e le uccisioni di Genova e Reggio Emilia, la peggiore crisi dell’Italia repubblicana, erano pur sempre un fatto politico, che la politica governava, seppure malissimo. L’Italia continuava a essere Italia, senza scomuniche né apostasie, e senza roghi. Non odiava gli ospiti, e non si odiava ogni giorno in pazza e al Parlamento, a ogni ora del giorno inventandosi veleni e infamie, sui nemici e anche sugli amici. Basta leggere del resto un giornale del 1960 e uno di oggi. Si entra in un diverso modo di fare l’informazione. La Rai all’epoca non avrebbe potuto dire il Vaticano un riciclatore di soldi, né un ministro concussore, senza un qualche fondamento, e ancora con rispetto per l’istituzione, mentre oggi è costretta a farlo, basta una denuncia anonima, e il Vaticano dire una mafia. Ma c’entra soprattutto un diverso modo di essere dell’Italia, che oggi è milanese.
C’è un momento preciso in cui l’Italia cambia pelle, e da paese solido, malgrado la sconfitta e la ricostruzione, e poi il terrorismo, diventa la palude di oggi, e si situa attorno al 1990. Questo è già un fatto storico. C’è un prima e c’è un dopo: il dopo è la caduta del Muro, i referendum di Segni, la Lega, Mani Pulite e Berlusconi. Due fatti romani e tre molto milanesi. L’effetto maggiore della caduta del Muro è stato di privare “Roma”, cioè la politica, del carisma di cui beneficiava, fosse pure dettato dalla paura. Col Pci finiva la politica, quindi tutti i partiti. Mani Pulite sarà stata l’avventura di alcuni giudici golpisti che invece di colpire la corruzione come affermavano, che a Milano semmai hanno rinfocolato, hanno completato l’opera. Affossando la politica e lo Stato. Segni incautamente ha dato l’avallo istituzionale all’antipolitica e all’antistato. Che si sono completati con l’abbattimento del potere economico residuo dello Stato nel nome della libertà e del mercato. Cioè, esplicitamente, di Milano: dell’oligarchia del denaro di cui Milano è sede e beneficiaria.
L’odio, il sospetto, la guerra di tutti contro tutti. Tutto questo sono – lo sono stati per ormai vent’anni – la Lega e Berlusconi. Cioè Milano. Inneschi di un’antipolitica che si dilata come in un “superiore” fuoco d’artificio. Si vede al paragone tra l’Olimpiade del 1960 e la piccola olimpiade che, senza le gare, sarà l’Expo 2015. Che Milano vive come una lotta di tutti contro tutti – le turpitudini nascondendo dietro il goffo paravento della ‘ndrangheta (Boccassini, ancora uno sforzo!). Le leggi si rifanno ogni sei mesi, non ce n’è mai una giusta. Per non disturbare gli affari. I dossier si moltiplicano ormai a cadenza che non lascia respiro: non basta la giornata per leggere tutte le “carte”. Chi è in affari lo vede ogni giorno: la denuncia continua, contro ogni atto della Pubblica Amministrazione, che raramente viene dall’onest’uomo, quasi sempre dall’affarista peggiore, uno ammanicato con i tribunali. L’odio viene dalla corruzione al potere.
I servizi di Santoro
L’onorevole Bocchino difende da Santoro la discutibile famiglia dei Tulliani, e accusa questo e quello, indisturbato. L’onorevole ha una morale diversa, superiore? Dice pure che la famiglia è accusata su carte false, volute da Berlusconi. Al quale darà il voto fra cinque giorni. È doppia anche la politica? E che il tutto è stato fabbricato da servizi segreti deviati. Mentre c’è un fiorire di “carte” su tutti i fronti, con raffronti grafologici, piste informatiche, ricostruzioni dettagliate di personalità così remote come il giornalista dell’Honduras e quello di Santo Domingo, e perfino una perizia sui caratteri tipografici e la carta intestata di Santa Lucia, esperita con una National Printing Co – a Santa Lucia? Da ultimo arrivata una telefonata dello “staff” del ministro di Santa Lucia. La telefonata non va in onda, e non si sa quindi chi parla: il capo di gabinetto? la donna delle pulizie? E come mai telefona proprio a Santoro? Dice però una cosa precisa, che "il ministro parlerà fra un mese". Cioè per i morti? Anzi ne dice due: che “il territorio è pieno di agenti russi, libici e italiani”. Che consentirà di fare un’altra puntata ghiotta di “Annozero”: gli agenti di Putin e Gheddafi sguinzagliati da Berlusconi contro Fini. Su un territorio che, lo spettatore non lo sa, ma è poco più di un recapito postale, grande due volte il Garda e meno abitata - anche se ha un governo, peraltro socialista, quindi antiberlusconiano. Ma di questo probabilmente nessuno ad “Annozero” è a conoscenza, la colpa è della geografia, dell’abolizione della geografia a scuola.
Il tutto in chiave minore, si vede (la trasmissione avrà solo quattro milioni di spettatori). E forse non per la modestia del parterre- il contrappunto è del solito leghista cui Santono fornisce un certificato di vivenza. La sensazione è che questa è vera roba di veri servizi segreti. Che la rappresentazione sia quindi triplice, maschere di maschere di maschere - e mancano soggetti del calibro della regina Elisabetta, capo di Stato di Santa Lucia, e del papa, di cui i religiosissimi africani che abitano l'isola sono fedeli. Le “carte” sono dettagliate, invasive, ubuescamente “enaurmi”, ed esplodono a ripetizione per non lasciar pensare. Detto a un pubblico che ama la controinformazione, ma sa da tempo ormai, dalla “Strage di Stato”, quindi da quarant’anni, che i dossier perfetti sono dei servizi segreti, per loro fini reconditi anche se combaciano con i nostri.
Il tutto in chiave minore, si vede (la trasmissione avrà solo quattro milioni di spettatori). E forse non per la modestia del parterre- il contrappunto è del solito leghista cui Santono fornisce un certificato di vivenza. La sensazione è che questa è vera roba di veri servizi segreti. Che la rappresentazione sia quindi triplice, maschere di maschere di maschere - e mancano soggetti del calibro della regina Elisabetta, capo di Stato di Santa Lucia, e del papa, di cui i religiosissimi africani che abitano l'isola sono fedeli. Le “carte” sono dettagliate, invasive, ubuescamente “enaurmi”, ed esplodono a ripetizione per non lasciar pensare. Detto a un pubblico che ama la controinformazione, ma sa da tempo ormai, dalla “Strage di Stato”, quindi da quarant’anni, che i dossier perfetti sono dei servizi segreti, per loro fini reconditi anche se combaciano con i nostri.
giovedì 23 settembre 2010
La pena di morte di Murdoch
Teresa Lewis, che non ha ucciso il marito, ed è ritenuta seminferma di mente, viene giustiziata negli Usa. Tutti concordi, tutti i giornali, tutti i giudici, dal primo alla Corte Suprema, e tutti i politici, fino al presidente. Sakineh invece, che ha ucciso il marito, non vogliamo che sia giustiziata in Iran. Double standard, come dice Ahmadinejad, doppiezza? L’Iran, è la nostra risposta, non è gli Stati Uniti. Ed è vero. Ma, appurato cos’è l’Iran di Ahmadinejad, cosa sono gli Usa?
Il 28 agosto il "Times" di Londra ha pubblicato una fotografia di Sakineh a volto scoperto. Poi si saprà che è un falso, che il volto è di una signora iraniana in Svezia. Libertà? Verità?
La pubblicazione della fotografia a volto scoperto sarebbe costata a Sakineh 99 frustata in prigione. Vero, falso? Lo dicono il figlio e il suo avvocato. E se fosse vero?
Il "Times" di Londra è di Murdoch, che in Italia figura paladino della democrazia ma non lo è, si sa, non vuole esserlo. Appena fu comprato da Murdoch, il “venerabile Times” cominciò a inventarsi le notizie. Anche sull’Iran. Nel 1980, nella guerra Iran-Iraq, la sua inviata a Teheran, Antonia H., s’inventava ogni paio di giorni cronache da prima pagina: dal fronte (che invece era lontano migliaia di km.), dalla prigione degli ostaggi americani, eccetera. Giornalismo?
L’inviata si presentava a Teheran, e firmava sul giornale, dove ebbe molte “aperture”, come Antonia H.. In realtà serviva da copertura, avendo passaporto australiano: gli articoli sensazionali li confezionava un inglese in età suo compagno di letto – un loro amplesso una mattina svegliò tutto l’Intercontinental. L’uomo non si faceva vedere in albergo, né al caffè né al ristorante, emergendo solo la sera, al piano interrato, per inviare il pezzo via telex (dettarlo per telefono era rischioso, spesso non si aveva la linea). E non dava confidenza, salvo che all’operatore. Doppiezza?
L’Iran non dava visti a giornalisti inglesi, dicendoli asserviti ai servizi segreti. Ma al telex le corrispondenze passavano in quattro copie, una per l’albergo e due per la censura, agli Esteri e all’Informazione. E l’operatore, rapido dattilografo ma certamente non un civile, si prestava a trascrivere lui stesso gli articoli dell’anonimo inglese. Giornalismo? Servizi?
Denunce e omissioni si elidono? Si assolvono?
Il 28 agosto il "Times" di Londra ha pubblicato una fotografia di Sakineh a volto scoperto. Poi si saprà che è un falso, che il volto è di una signora iraniana in Svezia. Libertà? Verità?
La pubblicazione della fotografia a volto scoperto sarebbe costata a Sakineh 99 frustata in prigione. Vero, falso? Lo dicono il figlio e il suo avvocato. E se fosse vero?
Il "Times" di Londra è di Murdoch, che in Italia figura paladino della democrazia ma non lo è, si sa, non vuole esserlo. Appena fu comprato da Murdoch, il “venerabile Times” cominciò a inventarsi le notizie. Anche sull’Iran. Nel 1980, nella guerra Iran-Iraq, la sua inviata a Teheran, Antonia H., s’inventava ogni paio di giorni cronache da prima pagina: dal fronte (che invece era lontano migliaia di km.), dalla prigione degli ostaggi americani, eccetera. Giornalismo?
L’inviata si presentava a Teheran, e firmava sul giornale, dove ebbe molte “aperture”, come Antonia H.. In realtà serviva da copertura, avendo passaporto australiano: gli articoli sensazionali li confezionava un inglese in età suo compagno di letto – un loro amplesso una mattina svegliò tutto l’Intercontinental. L’uomo non si faceva vedere in albergo, né al caffè né al ristorante, emergendo solo la sera, al piano interrato, per inviare il pezzo via telex (dettarlo per telefono era rischioso, spesso non si aveva la linea). E non dava confidenza, salvo che all’operatore. Doppiezza?
L’Iran non dava visti a giornalisti inglesi, dicendoli asserviti ai servizi segreti. Ma al telex le corrispondenze passavano in quattro copie, una per l’albergo e due per la censura, agli Esteri e all’Informazione. E l’operatore, rapido dattilografo ma certamente non un civile, si prestava a trascrivere lui stesso gli articoli dell’anonimo inglese. Giornalismo? Servizi?
Denunce e omissioni si elidono? Si assolvono?
Ombre - 62
Scontro fra titani napoletani alla Camera, Cosentino e Bocchino. Entrambi interessano alla Procura della loro capitale – forse su denuncia reciproca. Ma Cosentino deve difendersi, Bocchino è invece l’accusatore. Di quale giustizia?
Cronisti accorrono in massa a Messina, dove un altro ostetrici hanno litigato in sala parto. Si trovano davanti un primario che invece racconta loro, con dovizia di particolari, di come un mafioso aveva decretato che sua moglie dovesse partorire col cesareo. E di come un ostetrico era stato buttato a terra e pestato a sangue da un’altra famiglia che voleva anch’essa un cesareo. Ma ai cronisti non interessa: loro sono venuti per una lite tra ginecologi.
La Procura di Roma chiede al principato di Monaco i documenti dell’acquisto e l’affitto dell’appartamento del cognato di Fini. E li vede arrivare dopo due mesi, perché il principato li ha indirizzati alla Cassazione. È sempre colpa, insomma, delle poste.
In un soprassalto di attivismo, la Procura di Roma chiede a Monaco i titolari delle società proprietarie dell’appartamento del cognato. Che si sanno essere due società dei Caraibi. Questa volta è Roma a sbagliare l’indirizzo.
E le denunce dall’interno della Rai contro gli appalti ingiustificati ai nuovi congiunti di Fini, il cognato e la suocera? Quelle sono state portate a mano dagli avvocati.
In una domenica in cui gli arbitri non fischiano i rigori, l’Inter beneficia a Palermo per ben tre volte di questa misericordia. Ma i grandi giornali milanesi, “Gazzetta”, “Corriere”, hanno spazio solo per i rigori non fischiati agli altri, la Juventus eccetera. Il “Corriere della sera” dà anche spazio al presidente del Palermo, che dice l’Inter strapotente. Ma illustra in dettaglio, con foto, e accurate didascalie, i mancati rigori degli altri, la Juventus eccetera, non quelli dell’Inter.
Se non avessimo visto la partita non sapremmo mai cosa è successo. Anche perché nessuna Dda intercetta l’Inter per sapere come si compra le partite. È insomma inutile leggere i giornali. E bisogna anche rivedere le origini del capitalismo, se non sono le bugie e omissioni, insomma il peccato.
Tom Mockridge, l’uomo di Murdoch in Italia, scrive una lettera contro i monopoli televisivi, cioè contro la Rai e Mediaset. E il “Corriere della sera” gliela pubblica tal quale. Mezza pagina. Ecco dov’era la libertà d’espressione, con Murdoch. Che ha il 100 per cento del satellite, e fattura più di Mediaset e del della Rai.
Quando la Rai e Mediaset protestano, il “Corriere della sera” immortala un guasconissimo Mockridge con Al Gore, l’uomo di tutte le cause. Che perse le elezioni contro Bush per i sarcasmi delle tv e dei giornali di Murdoch, contro di lui.
Murdoch ha in Gran Bretagna il 40 per cento del mercato dei giornali, compresi i più venduti, “Times” e “News of the World”, e il 40 per cento del mercato tv. Ma i giornali liberali britannici, “Guardian”, “Independent”, non hanno sdegno che per l’Italia, qui c’è il vero monopolio. E non siamo sicuri nemmeno che Murdoch li finanzi.
Dal sole al vento, le energie alternative risultano, anche se a malincuore per l’apparato repressivo, il focolaio della corruzione, un vero e proprio trojajio, tanti sono i soldi pubblici, italiani ed europei, a disposizione: affaristi, sviluppatori, assessori, governatori, mafiosi, P 3, e comprese le anime candide, sin ruba anche senza volerlo. L’inutile eccita sempre il malaffare.
Il Milan perde sonoramente contro una neo promossa e Berlusconi dice che è colpa dell’arbitro comunista – un tempo si diceva cornuto, ora non si può. Anche Moratti si lamenta, non del proprio arbitro ma di quello della Roma, che non ha punito severamente la squadra di Totti. Non dicono però l’essenziale: ora che la Juventus è in disgrazia, chi paga gli arbitri contro le squadre milanesi? Il Chievo? Forse, il Catania, anzi sicuramente, lì c’è la mafia.
Ma il calcio ci unisce: la battuta di Berlusconi si segnala perché il campionato ne è indenne. Il calcio è unitario, lascia fuori comunisti e berluscones, i Travaglio, i Santoro, e gli odiosi distinguo della Lega. È l’unica “istituzione” unitaria – perfino la chiesa è divisa, piena di politicanti, seminatori di odio.
Ma, poi, perché i campionati li vince solo Milano? Forse per questo il calcio è indenne agli odi.
Cronisti accorrono in massa a Messina, dove un altro ostetrici hanno litigato in sala parto. Si trovano davanti un primario che invece racconta loro, con dovizia di particolari, di come un mafioso aveva decretato che sua moglie dovesse partorire col cesareo. E di come un ostetrico era stato buttato a terra e pestato a sangue da un’altra famiglia che voleva anch’essa un cesareo. Ma ai cronisti non interessa: loro sono venuti per una lite tra ginecologi.
La Procura di Roma chiede al principato di Monaco i documenti dell’acquisto e l’affitto dell’appartamento del cognato di Fini. E li vede arrivare dopo due mesi, perché il principato li ha indirizzati alla Cassazione. È sempre colpa, insomma, delle poste.
In un soprassalto di attivismo, la Procura di Roma chiede a Monaco i titolari delle società proprietarie dell’appartamento del cognato. Che si sanno essere due società dei Caraibi. Questa volta è Roma a sbagliare l’indirizzo.
E le denunce dall’interno della Rai contro gli appalti ingiustificati ai nuovi congiunti di Fini, il cognato e la suocera? Quelle sono state portate a mano dagli avvocati.
In una domenica in cui gli arbitri non fischiano i rigori, l’Inter beneficia a Palermo per ben tre volte di questa misericordia. Ma i grandi giornali milanesi, “Gazzetta”, “Corriere”, hanno spazio solo per i rigori non fischiati agli altri, la Juventus eccetera. Il “Corriere della sera” dà anche spazio al presidente del Palermo, che dice l’Inter strapotente. Ma illustra in dettaglio, con foto, e accurate didascalie, i mancati rigori degli altri, la Juventus eccetera, non quelli dell’Inter.
Se non avessimo visto la partita non sapremmo mai cosa è successo. Anche perché nessuna Dda intercetta l’Inter per sapere come si compra le partite. È insomma inutile leggere i giornali. E bisogna anche rivedere le origini del capitalismo, se non sono le bugie e omissioni, insomma il peccato.
Tom Mockridge, l’uomo di Murdoch in Italia, scrive una lettera contro i monopoli televisivi, cioè contro la Rai e Mediaset. E il “Corriere della sera” gliela pubblica tal quale. Mezza pagina. Ecco dov’era la libertà d’espressione, con Murdoch. Che ha il 100 per cento del satellite, e fattura più di Mediaset e del della Rai.
Quando la Rai e Mediaset protestano, il “Corriere della sera” immortala un guasconissimo Mockridge con Al Gore, l’uomo di tutte le cause. Che perse le elezioni contro Bush per i sarcasmi delle tv e dei giornali di Murdoch, contro di lui.
Murdoch ha in Gran Bretagna il 40 per cento del mercato dei giornali, compresi i più venduti, “Times” e “News of the World”, e il 40 per cento del mercato tv. Ma i giornali liberali britannici, “Guardian”, “Independent”, non hanno sdegno che per l’Italia, qui c’è il vero monopolio. E non siamo sicuri nemmeno che Murdoch li finanzi.
Dal sole al vento, le energie alternative risultano, anche se a malincuore per l’apparato repressivo, il focolaio della corruzione, un vero e proprio trojajio, tanti sono i soldi pubblici, italiani ed europei, a disposizione: affaristi, sviluppatori, assessori, governatori, mafiosi, P 3, e comprese le anime candide, sin ruba anche senza volerlo. L’inutile eccita sempre il malaffare.
Il Milan perde sonoramente contro una neo promossa e Berlusconi dice che è colpa dell’arbitro comunista – un tempo si diceva cornuto, ora non si può. Anche Moratti si lamenta, non del proprio arbitro ma di quello della Roma, che non ha punito severamente la squadra di Totti. Non dicono però l’essenziale: ora che la Juventus è in disgrazia, chi paga gli arbitri contro le squadre milanesi? Il Chievo? Forse, il Catania, anzi sicuramente, lì c’è la mafia.
Ma il calcio ci unisce: la battuta di Berlusconi si segnala perché il campionato ne è indenne. Il calcio è unitario, lascia fuori comunisti e berluscones, i Travaglio, i Santoro, e gli odiosi distinguo della Lega. È l’unica “istituzione” unitaria – perfino la chiesa è divisa, piena di politicanti, seminatori di odio.
Ma, poi, perché i campionati li vince solo Milano? Forse per questo il calcio è indenne agli odi.
mercoledì 22 settembre 2010
La calata dei guelfi sconquassa Unicredit
Il ritorno del guelfismo, contro l'"impero". La fine dell’equivoco che Milano coltiva della Lega buona amministratrice. L’uscita di Hvb e Bank Austria: tedeschi e austriaci non vogliono essere annegati nella gestioe unitaria. La fine della banca europea, anche i polacchi e i croati vorranno contare. Il ritiro dei libici, che nom mettono i soldi dove non sono graditi. Lo sfascio dei delicati equilibri del sistema Mediobanca (Generali, Telecom Italia, Rizzoli-Corriere della sera): al contestato fronte Libia-Ben Ammar sono legati i soci francesi che hanno assicurato stabilità nell’ultimo decennio, e tutti sono legati a Geronzi. In una ristrutturazione che deve portare alla fuoriuscita di molti dipendenti, specie su Roma. Con la possibile fine delle fortune politiche di tutto il centro-destra nel Lazio e al Nord, Unicredit è un caso Alitalia moltiplicato per dieci: l’azionariato diffuso del gruppo bancario è stimato in 500 mila persone, di cui 400 mila in Italia, a fronte dei 40 mila dell’Alitalia, che hanno appena sborsato uno dei sette miliardi di aumento di capitale nell’ultimo anno e mezzo.
Sono tutti esplosivi, e tutti negativi, gli scenari che la cacciata di Profumo apre. Non per l’uomo, che certamente è sostituibile, ma per il perché e il come, indegni di una banca. Tanto meno della prima banca in Italia, in Austria e nell’Est Europa, e della seconda in Germania. Si può anche vederla nell’altro modo, che la politica si riprende la banca, la vecchia politica dei piccoli potentati democristiani, padani, austriaci, bavaresi, ma non è una soluzione che possa stare sul mercato: il riassetto della governance interna avrebbe dovuto avere un altro iter e un’altra conclusione che l’affermazione dei “diritti” delle fondazioni. Cinque ore solo per un comunicato, peraltro breve e sgrammaticato, dalle otto all’una e mezza di notte, danno la misura dell’abisso in cui i nuovi vecchi padroni hanno precipitato la banca.
Lo scenario politico è condizionato al grado di lucidità dell'opposizione, quindi può anche rientrare. La scomparsa dei patrimoni d'altra parte non è una novità a Milano. Ma la politica comincia a pagare per questo, dalla Parmalat in poi, e l'operazione Unicredit è di una gravità assoluta. Basta immaginare i consiglieri delle fondazioni coi denti aguzzi, e gli artigli già sul malloppo: i Palenzona, Calandra Bonaura, Li Calzi, l’indagato Biasi sotto i baffi di Castelletti, per sapere cosa in realtà è successo. Con l’abbrivo della Banca d’Italia di Mario Draghi. Per lasciare la banca più grande senza management: il presidente non può gestire la banca, ci sono regolamenti che non lo consentono - anche se il “gesuita” Draghi finge d’ignorarli, e lascia scrivere il contrario (Rampl tra l’altro dovrebbe governare assistito dai vicepresidenti, cioè anche da Bengdara, il governatore della Banca di Libia...).
Lo spettacolo è unico, ma di insipienza e incapacità: cacciare l’amministratore senza averne un altro, l’amministratore della più grande e più composita banca, uno che è riuscito a pagare il dividendo anche nella crisi. E la protervia: tutti hanno brindato e brindano, anche se perderanno gli utili e intaccheranno il capitale. “Ora finalmente posso contare”, gongola da Palermo un professor Puglisi, non altrimenti noto che come presidente della Fondazione Banco di Sicilia. E da Verona il sindaco. Che non conta nulla, la Lega è sempre più un bluff. Ma si chiarisce la natura delle fondazioni, sempre e solo politiche. Facendo giustizia delle autorappresentazioni liberali e liberistiche che le fondazioni esibiscono, soprattutto fastidiose quelle di Guzzetti e dei suoi giornali milanesi. Sono un soggetto confessionale anzi, come lo ha sancito con sentenza della Corte costituzionale l’allora giudice Zagrebelsky, uno dei santoni del nuovo guelfismo.
Sono tutti esplosivi, e tutti negativi, gli scenari che la cacciata di Profumo apre. Non per l’uomo, che certamente è sostituibile, ma per il perché e il come, indegni di una banca. Tanto meno della prima banca in Italia, in Austria e nell’Est Europa, e della seconda in Germania. Si può anche vederla nell’altro modo, che la politica si riprende la banca, la vecchia politica dei piccoli potentati democristiani, padani, austriaci, bavaresi, ma non è una soluzione che possa stare sul mercato: il riassetto della governance interna avrebbe dovuto avere un altro iter e un’altra conclusione che l’affermazione dei “diritti” delle fondazioni. Cinque ore solo per un comunicato, peraltro breve e sgrammaticato, dalle otto all’una e mezza di notte, danno la misura dell’abisso in cui i nuovi vecchi padroni hanno precipitato la banca.
Lo scenario politico è condizionato al grado di lucidità dell'opposizione, quindi può anche rientrare. La scomparsa dei patrimoni d'altra parte non è una novità a Milano. Ma la politica comincia a pagare per questo, dalla Parmalat in poi, e l'operazione Unicredit è di una gravità assoluta. Basta immaginare i consiglieri delle fondazioni coi denti aguzzi, e gli artigli già sul malloppo: i Palenzona, Calandra Bonaura, Li Calzi, l’indagato Biasi sotto i baffi di Castelletti, per sapere cosa in realtà è successo. Con l’abbrivo della Banca d’Italia di Mario Draghi. Per lasciare la banca più grande senza management: il presidente non può gestire la banca, ci sono regolamenti che non lo consentono - anche se il “gesuita” Draghi finge d’ignorarli, e lascia scrivere il contrario (Rampl tra l’altro dovrebbe governare assistito dai vicepresidenti, cioè anche da Bengdara, il governatore della Banca di Libia...).
Lo spettacolo è unico, ma di insipienza e incapacità: cacciare l’amministratore senza averne un altro, l’amministratore della più grande e più composita banca, uno che è riuscito a pagare il dividendo anche nella crisi. E la protervia: tutti hanno brindato e brindano, anche se perderanno gli utili e intaccheranno il capitale. “Ora finalmente posso contare”, gongola da Palermo un professor Puglisi, non altrimenti noto che come presidente della Fondazione Banco di Sicilia. E da Verona il sindaco. Che non conta nulla, la Lega è sempre più un bluff. Ma si chiarisce la natura delle fondazioni, sempre e solo politiche. Facendo giustizia delle autorappresentazioni liberali e liberistiche che le fondazioni esibiscono, soprattutto fastidiose quelle di Guzzetti e dei suoi giornali milanesi. Sono un soggetto confessionale anzi, come lo ha sancito con sentenza della Corte costituzionale l’allora giudice Zagrebelsky, uno dei santoni del nuovo guelfismo.
Quelle facce un po’ così
Per un navigatore è una sorpresa, non se ne vedono più. Non così concentrate. Non al vertice della più grande banca italo-germanica: si rovescia la civiltà dell’immagine e la storia, e questa vaga cultura pop metropolitana, di superficie, urbana, levigata, indistinta, che fa il millennio. Facce un po' così, verrebbe dire, alla Paolo Conte, se fossero simpatiche. Sono le facce, una ventina, del consiglio d’amministrazione Unicredit che tanto sconquasso hanno provocato. Tutte odorano, anche se non è possibile, di culatello, baccalà, weisswürstel, cibi robusti, e dell’umidità della bassa, delle lagune, dei boschi alpini. Anche le biografie, che la fotina aziona, fanno impressione: sembra che queste persone, pure in età, non siano mai uscite dal paese, anche solo in gita, da Treviso, per dire, a Malo. Il trionfo della provincia - ecco cos'era la garnde multinazionale, un accozzaglia di paesoni.
Tra essi ce ne sono tre o quattro che hanno una personalità e uno status ben metropolitani: Manfred Bischoff, della Daimler, l’ex ministro delle Finanze tedesco e consulente del Vaticano Theo Waigel, lo stesso presidente Rampl. Ma non mutano l’impressone generale di questa che pure dovrebbe essere la prima multinazionale bancaria, col 60 per cento del capitale collocato all’estero, una cosa da fantascienza. Perfino il rappresentante, peraltro italianissimo, di Allianz riporta al bar della piazza. Un po’ è l’effetto delle fototessere, che tutto riducono alla faccia. Ma, quando Unicredit sarà dissolta, e il lutto delle perdite elaborato, bisognerà rifare la storia di chi sta facendo la storia in Italia. Si dichiari pure futurista come è ora la moda.
Tra essi ce ne sono tre o quattro che hanno una personalità e uno status ben metropolitani: Manfred Bischoff, della Daimler, l’ex ministro delle Finanze tedesco e consulente del Vaticano Theo Waigel, lo stesso presidente Rampl. Ma non mutano l’impressone generale di questa che pure dovrebbe essere la prima multinazionale bancaria, col 60 per cento del capitale collocato all’estero, una cosa da fantascienza. Perfino il rappresentante, peraltro italianissimo, di Allianz riporta al bar della piazza. Un po’ è l’effetto delle fototessere, che tutto riducono alla faccia. Ma, quando Unicredit sarà dissolta, e il lutto delle perdite elaborato, bisognerà rifare la storia di chi sta facendo la storia in Italia. Si dichiari pure futurista come è ora la moda.
Soldati come il parmigiano, era cattolico
Due testi teatrali di Soldati adolescente, rappresentati in collegio, due testi “inutili”. Se non per documentare la precocità di Soldati, l’iperletterarietà di uno scrittore ritenuto svagato e occasionale, pieni come sono di echi e rimandi. E salvarlo dai suoi amici brillanti alla Garboli, essi sì svagati: “Soldati è uno scrittore dell’Ottocento, con anima di uno scrittore del Novecento”. Il Novecento si conferma “da rifare”, ma non per l'ovvia discendenza dall’Ottocento (e dal Settecento, e dal Seicento…). Se un testo altrettanto mediocre che “Il procuratore di giudea” di A. France fa invece parte della grande letteratura, pregiato da Sciascia e dagli esoteristi in Francia, benché antisemita, mentre il ragazzo Soldati deve giustificarsi.
Il bello della pubblicazione è il lavoro di contestualizzazione che ne fa Giacomo Jori – questa è la vera narrazione. Dettagliato nei più remoti recessi, e suggestivo. Ma anch’esso, nell’essenziale, al di qua delle censure del secolo passato. “Occorrerà cogliere meglio la cultura religiosa donde discendono, nel loro dissimulato engagement, i titoli, i testi, del Soldati maturo, La confessione (1955), La messa dei villeggianti (1958), El paseo de Gracia (1986)”, conclude Jori. Ma intende: Soldati si giustifichi. Eppure Soldati non sarebbe, non è, un’eccezione, è uomo di fede a suo modo Manzoni, e uomo di fede a suo modo Leopardi, che pure era un mangiapreti – Soldati lo dice bene nel racconto “Natale giansenista” che Jori richiama: “Manzoni credeva di credere ma in fondo non credeva, era soprattutto superstizioso e temeva l’inferno. Leopardi, al contrario, credeva di non credere e invece credeva”.
Singolare anche che, dovendo ammettere la religiosità di uno scrittore, si debba sempre connotarla di protestantesimo (anche se esercitata, nel caso, dai gesuiti…). È come per il capitalismo: Lutero è meglio del papa. Senza essere protestanti. Così, per la sudditanza ormai connaturata Sud-Nord: anche il parmigiano tra un po’ sarà inferiore al parmesan?
Mario Soldati, La madre di Giuda, Pilato, Aragno, pp. XLIX, 111 , con ill., € 12
martedì 21 settembre 2010
Però, essere comunisti era bello
Giuseppe Leuzzi
La recensione più vera di questo libro di cose viste vittorughiane è nella foto con cui il “Corriere della sera” ne ha illustrato domenica l’anticipazione da parte di Paolo Franchi. Vi si vedono Mario Pirani, Sandro Curzi e Italo Calvino nei loro trent’anni, splendere a un qualche convegno sovietico – con le solite tre compagne multirazziali. Quella foto è una storia, e l’interpretazione della storia stessa: come si poteva essere comunisti negli anni Cinquanta, senza nuvole né tanfi di zolfo, in allegria, con fiducia, leali e onesti. Che insomma la storia non era segnata. Pirani non privilegia la storia in questa narrazione, non ne fa la critica, ma mantiene qua e là, retrospettivamente, uno sguardo inorridito: “come ha potuto succedere”. Il suo stesso titolo riecheggia la condanna di Furet, “Il passato di un’illusione”. Ma c’era un tempo anche per quello, come c’è nella sua sorridente prosa per i tanti eventi che hanno riempito la sua vita privata e professionale. La giovinezza spensierata, le peripezie della guerra, l’amore per Barbara Spinelli. E il lavoro in Nord Africa come ambasciatore di Mattei, specie per e attorno agli algerini alla fine della guerra d’indipendenza, la direzione del “Globo”, la direzione dell’“Europeo”, nella tana, questa sì sulfurea, della Rizzoli di Tassan Din, l’incontro con Scalfari e la fondazione di “Repubblica”.
Alle soglie di “Repubblica” Pirani si ferma. Mentre poteva essere il capitolo più interessante, cioè attuale: cosa doveva essere e cosa è il giornale. E con esso questo ventennio sconclusionato di pretesa Seconda Repubblica, che è un argomento su cui invece più volte ritorna con fastidio, e di cui il giornale è protagonista. È stata, ed è, scena di troppe indecenze, questa “rivoluzione all’italiana”, il riassetto politico propiziato e cavalcato da Mani Pulite. Pirani se ne dice qua e là è indignato, pur nella misura che è la sua cifra, ma si tratta di un fenomeno ormai durevole, i cui presupposti andranno rivisti.
Ha indole serena, Pirani. Sempre garbato, quale i lettori di “Repubblica” lo apprezzano. O l’equilibrio coltiva, per sua intima saggezza. E tale è la sua prosa. Che apparentemente evita la storia canonica, lasciandola sullo sfondo: lui preferisce soffermarsi sui particolari minimi, le cosiddette scene di vita vissuta. È l’esito dell’ironia, seppure lieve, dello sguardo sempre curioso, e quindi partecipe, ma distaccato. Ma ne ricava una diversa forma simpaticamente aneddotica, dando spessore a persone e cose di rilievo trascurate, le tante donne di Altiero Spinelli, la sua famiglia cioè, e il lavoro dentro l’Eni, o a particolari che potrebbero sembrare irrilevanti, una scelta professionale, la costituzione di un gruppo redazionale. Da giornalista che non ambisce ad altro titolo. E tuttavia con forte piglio narrativo.
Mario Pirani, Poteva andare peggio. Mezzo secolo di ragionevoli illusioni, Mondadori, pp. 430, € 20
La recensione più vera di questo libro di cose viste vittorughiane è nella foto con cui il “Corriere della sera” ne ha illustrato domenica l’anticipazione da parte di Paolo Franchi. Vi si vedono Mario Pirani, Sandro Curzi e Italo Calvino nei loro trent’anni, splendere a un qualche convegno sovietico – con le solite tre compagne multirazziali. Quella foto è una storia, e l’interpretazione della storia stessa: come si poteva essere comunisti negli anni Cinquanta, senza nuvole né tanfi di zolfo, in allegria, con fiducia, leali e onesti. Che insomma la storia non era segnata. Pirani non privilegia la storia in questa narrazione, non ne fa la critica, ma mantiene qua e là, retrospettivamente, uno sguardo inorridito: “come ha potuto succedere”. Il suo stesso titolo riecheggia la condanna di Furet, “Il passato di un’illusione”. Ma c’era un tempo anche per quello, come c’è nella sua sorridente prosa per i tanti eventi che hanno riempito la sua vita privata e professionale. La giovinezza spensierata, le peripezie della guerra, l’amore per Barbara Spinelli. E il lavoro in Nord Africa come ambasciatore di Mattei, specie per e attorno agli algerini alla fine della guerra d’indipendenza, la direzione del “Globo”, la direzione dell’“Europeo”, nella tana, questa sì sulfurea, della Rizzoli di Tassan Din, l’incontro con Scalfari e la fondazione di “Repubblica”.
Alle soglie di “Repubblica” Pirani si ferma. Mentre poteva essere il capitolo più interessante, cioè attuale: cosa doveva essere e cosa è il giornale. E con esso questo ventennio sconclusionato di pretesa Seconda Repubblica, che è un argomento su cui invece più volte ritorna con fastidio, e di cui il giornale è protagonista. È stata, ed è, scena di troppe indecenze, questa “rivoluzione all’italiana”, il riassetto politico propiziato e cavalcato da Mani Pulite. Pirani se ne dice qua e là è indignato, pur nella misura che è la sua cifra, ma si tratta di un fenomeno ormai durevole, i cui presupposti andranno rivisti.
Ha indole serena, Pirani. Sempre garbato, quale i lettori di “Repubblica” lo apprezzano. O l’equilibrio coltiva, per sua intima saggezza. E tale è la sua prosa. Che apparentemente evita la storia canonica, lasciandola sullo sfondo: lui preferisce soffermarsi sui particolari minimi, le cosiddette scene di vita vissuta. È l’esito dell’ironia, seppure lieve, dello sguardo sempre curioso, e quindi partecipe, ma distaccato. Ma ne ricava una diversa forma simpaticamente aneddotica, dando spessore a persone e cose di rilievo trascurate, le tante donne di Altiero Spinelli, la sua famiglia cioè, e il lavoro dentro l’Eni, o a particolari che potrebbero sembrare irrilevanti, una scelta professionale, la costituzione di un gruppo redazionale. Da giornalista che non ambisce ad altro titolo. E tuttavia con forte piglio narrativo.
Mario Pirani, Poteva andare peggio. Mezzo secolo di ragionevoli illusioni, Mondadori, pp. 430, € 20
Spiacevole, la scienza della letteratura
Il fine della letteratura – della poesia – è il piacere, opina Barthes già nel 1967 sul “Times” letterario (“Dalla scienza alla letteratura”, che introduce questa raccolta). Ma ha scritto centinaia, migliaia, di pagine inutili, spiacevoli. Sullo scrivere lettere. sul pieno che è il vuoto. E il vuoto che è il pieno. La diatesi. E lo shifter? Questo, è vero, è di Jakobson. Fra le diatribe ormai stucchevoli sui quattro moschettieri, Flaubert, Proust, Balzac, con un pizzico di Stendhal – più l’onnipresente Sollers. Fra testi certo memorabili (qui “La morte dell’autore”, “Il neutro”, “Brillat-Savarin”), ma per far rimpiangere il tempo perduto. La linguistica cosa lascia? I socioletti acratici. Alla fine l’aveva detto lui stesso nel 1973 in conferenza ai lunedì letterari italiani: “Non conosciamo bene né la fisica, né la dialettica, né la strategia di ciò che chiamerò la nostra logosfera”. Resta vero ciò che era vero: “La linguistica della connotazione… non è ancora costituita”.
Roland Barthes, Il brusio della lingua
Roland Barthes, Il brusio della lingua
lunedì 20 settembre 2010
Si parla di Profumo, ma Bazoli mira a Geronzi
“I libici non c’entrano, ce li ha contro perché non li ha”, cioè non li paga: è sprezzante il commento in Unicredit all’assurda crociata dei maggiori giornali contro Alessandro Profumo. Non nuova, periodica. Quella in corso prende a pretesto la presenza dei libici nel capitale, di cui la Banca d’Italia attende come da routine che precisino la consistenza delle quote. Chiedendo che Profumo ne fermi la crescita. Cosa che, evidentemente, non può fare.
Una crociata che finirà come le altre nel nulla, dopo un po’ di malevolenza, e di speculazioni. Le dimissioni di Profumo sono l'ultima cosa che Milano si attende, più facile è che domani Profumo chieda lui agli altri soci della banca presenti in cda che precisino le loro riserve. E tuttavia questa volta c’è di più: la crociata si proietta nell’eterno rimescolamento della finanza milanese, con Bazoli-Intesa in concorrenza con Profumo-Unicredit sulle eterne questioni di Mediobanca e Generali, e quindi di Cesare Geronzi (che peraltro dell'ingresso dei libici nel capitale di Unicredit è stato ed è il promotore).
Profumo non parla. Come i libici. La gente di denaro sa che è inutile parlare. Il vice presidente Farhat Bengdara, rappresentante di uno dei due fondi libici, dirà giovedì che non ha intenzione di crescere nel capitale. Cosa del resto che tutti già sanno. Ma che non fermerà la speculazione, o la fermerà, a prescindere. Il vero conflitto, non dissimulato, è quello scatenato da Bazoli contro Geronzi, di cui Profumo è parafulmine.
La battaglia del “Corriere della sera” di Bazoli è tanto inconsistente quanto arcigna. Mette in campo la Lega, ma nessuno in banca sa nemmeno cos’è la Lega. Né ha altri argomenti, a parte appunto gli inconsapevoli libici, e un articolo della “Sueddeutsche Zeitung”. Ma li agita ogni giorno. Non dice che la “Sueddeutsche” è socialista, quindi nemica di Hvd, la banca acquisita nel 2005 da Profumo, che era un feudo cristiano-sociale. Dà voce alle fondazioni, da sempre indecise se cacciare l'eretuco Profumo, il manager anti-inciucio, o continuare a godersene i dividendi. Senza dire che le fondazioni sono confessionali. E mette il presidente Dieter Rampl, ex Hvb, contro Profumo, mentre i due possono solo stare in piedi insieme. Gli argomenti insomma non ci sono. Ma Bazoli non ha perso nessuna battaglia per il potere, e in trent’anni ne ha scatenate molte. Su Generali Bazoli ha fatto molte mosse che poi si è rimangiate, ma sempre guadagnando un millimetro.
Una crociata che finirà come le altre nel nulla, dopo un po’ di malevolenza, e di speculazioni. Le dimissioni di Profumo sono l'ultima cosa che Milano si attende, più facile è che domani Profumo chieda lui agli altri soci della banca presenti in cda che precisino le loro riserve. E tuttavia questa volta c’è di più: la crociata si proietta nell’eterno rimescolamento della finanza milanese, con Bazoli-Intesa in concorrenza con Profumo-Unicredit sulle eterne questioni di Mediobanca e Generali, e quindi di Cesare Geronzi (che peraltro dell'ingresso dei libici nel capitale di Unicredit è stato ed è il promotore).
Profumo non parla. Come i libici. La gente di denaro sa che è inutile parlare. Il vice presidente Farhat Bengdara, rappresentante di uno dei due fondi libici, dirà giovedì che non ha intenzione di crescere nel capitale. Cosa del resto che tutti già sanno. Ma che non fermerà la speculazione, o la fermerà, a prescindere. Il vero conflitto, non dissimulato, è quello scatenato da Bazoli contro Geronzi, di cui Profumo è parafulmine.
La battaglia del “Corriere della sera” di Bazoli è tanto inconsistente quanto arcigna. Mette in campo la Lega, ma nessuno in banca sa nemmeno cos’è la Lega. Né ha altri argomenti, a parte appunto gli inconsapevoli libici, e un articolo della “Sueddeutsche Zeitung”. Ma li agita ogni giorno. Non dice che la “Sueddeutsche” è socialista, quindi nemica di Hvd, la banca acquisita nel 2005 da Profumo, che era un feudo cristiano-sociale. Dà voce alle fondazioni, da sempre indecise se cacciare l'eretuco Profumo, il manager anti-inciucio, o continuare a godersene i dividendi. Senza dire che le fondazioni sono confessionali. E mette il presidente Dieter Rampl, ex Hvb, contro Profumo, mentre i due possono solo stare in piedi insieme. Gli argomenti insomma non ci sono. Ma Bazoli non ha perso nessuna battaglia per il potere, e in trent’anni ne ha scatenate molte. Su Generali Bazoli ha fatto molte mosse che poi si è rimangiate, ma sempre guadagnando un millimetro.
Il Nobel dei rifiuti viennesi
Libro sdrucito, che si tiene con spilli “scandalosi”, insomma porno, per il finale naturalmente “memorabile”, insomma alla Krafft-Ebing, che a Vienna è un po’ d’ordinanza: il quarantenne rinsecchito, dominato dalla madre, che diventa una quarantenne resta soggetto ancora da sceneggiare. Le trecento pagine sono molto costruite, e si vede, ma maldestramente o di malavoglia, la vera violenza è questa dell’autrice contro il lettore, con una prosa minore alla Bernhard, e svogliati calchi di vari passi celebri, di Kafka, di Rilke, del “Viaggio d’inverno” di Müller musicato da Schubert. “Il suo hobby preferito è tagliuzzarsi il corpo”, si precisa a metà narrazione della protagonista Erika, divaricando le gambe davanti “allo specchio da barba, a ingrandimento”, partendo “da dove il bosco della donna attende l’ascia in silenzio”.
L’autrice è premio Nobel “per il flusso melodico di voci e controvoci in romanzi e testi teatrali, che con estremo gusto linguistico rivelano l’assurdità dei cliché sociali e il loro potere”. Ma questo non ne è il capolavoro? Il sentore di autobiografia può avere aiutato, per la prurigine: come la sua Erika, Elfriede Jelinek ha insegnato musica, ha vissuto con la madre, ha avuto un padre demente. Anche la madre del romanzo, è tanto assurda che non sembra inventata. O ha aiutato la biografia, la biografia “giusta”, che sembra trabordare sull’opera: la polemica contro Haider, la militanza nel partito Comunista, e un sentore di Olocausto (un padre figlio di un ebreo battezzato, benché “di madre austriaca” dice Reitani nella postfazione – ma non bisognerebbe dire “di una madre cattolica”, o cristiana?). Fatto sta che l’opera è stata coronata con cadenza triennale a fine millennio: nel 1998 col premio Büchner, il massimo per la lingua tedesca, nel 2001 con la palma d’oro a Cannes per l’adattamento cinematografico, e nel 2004 col Nobel. Luigi Reitani, che il romanzo glorifica come un poderoso “maelstrom sociale”, vuole Erika “un rifiuto espulso… che galleggia nell’indifferenza”. Che è un’immagine, involontariamente?, acconcia.
Elfriede Jelinek, La pianista, SE Remainder, pp. 312, € 9,50
L’autrice è premio Nobel “per il flusso melodico di voci e controvoci in romanzi e testi teatrali, che con estremo gusto linguistico rivelano l’assurdità dei cliché sociali e il loro potere”. Ma questo non ne è il capolavoro? Il sentore di autobiografia può avere aiutato, per la prurigine: come la sua Erika, Elfriede Jelinek ha insegnato musica, ha vissuto con la madre, ha avuto un padre demente. Anche la madre del romanzo, è tanto assurda che non sembra inventata. O ha aiutato la biografia, la biografia “giusta”, che sembra trabordare sull’opera: la polemica contro Haider, la militanza nel partito Comunista, e un sentore di Olocausto (un padre figlio di un ebreo battezzato, benché “di madre austriaca” dice Reitani nella postfazione – ma non bisognerebbe dire “di una madre cattolica”, o cristiana?). Fatto sta che l’opera è stata coronata con cadenza triennale a fine millennio: nel 1998 col premio Büchner, il massimo per la lingua tedesca, nel 2001 con la palma d’oro a Cannes per l’adattamento cinematografico, e nel 2004 col Nobel. Luigi Reitani, che il romanzo glorifica come un poderoso “maelstrom sociale”, vuole Erika “un rifiuto espulso… che galleggia nell’indifferenza”. Che è un’immagine, involontariamente?, acconcia.
Elfriede Jelinek, La pianista, SE Remainder, pp. 312, € 9,50
domenica 19 settembre 2010
Newman seppellito con l’amico
La pedofilia scaccia l’omofilia? Nessuno ha ricordato, neppure tra gli antipapisti che girano per Londra travestiti da papa offrendo preservativi, che il cardinale Newman che papa Ratzinger beatifica aveva un amico, Ambrose St. John, un oratoriano. Di famiglia baronale ma non bello, a giudicare dai medaglioni, col quale fu in intimità tutta la vita, a partire da Oxford, dal college Christ Church di Orxford. Abitarono a lungo insieme, e con lui il cardinale, il cui motto era “Cor ad cor loquitur”, il cuore parla al cuore, volle essere seppellito. In ricordo di Ambrose, che gli era premorto di quindici anni, il cardinale scrisse: “Ho sempre pensato che il lutto più grande fosse quello di un marito o di una moglie, ma non riesco a credere che ce ne sia uno maggiore, o un dolore più profondo, del mio”.
Nulla di scandaloso evidentemente, all’epoca l’omosessualità era punita per legge. E nulla di scandaloso per la chiesa, che ha concluso positivamente lo scrupoloso processo di beatificazione. Inciderà anche il ritratto che Benedetto XVI ne ha fatto ai giornalisti sull’aereo che lo portava a Edimburgo: “Newman è soprattutto un uomo moderno che ha vissuto tutto il problema della modernità, che ha vissuto anche l’agnosticismo, il problema dell’impossibilità di conoscere Dio, di credere. Un uomo che è stato tutta la sua vita in cammino, per lasciarsi trasformare dalla verità in una ricerca di grande sincerità e di grande disponibilità di conoscere”. E tuttavia colpisce che nulla sia stato rilevato in quella relazione di pruriginoso, dai media che vivono di gossip, nonché dagli antipapi e dagli ateisti. Più che l’elogio tappabocche del papa intellettuale, non sarà che, come per la moneta, un peccato più grave scaccia quello meno grave? Che ora che c'è sotto mano il peccato di pedofilia si dimentica quello di omofilia.
Benché, certo, il peccato sia sempre il sesso. A conferma della nota tesi di Kierkegaard che l’ossessione del sesso è stata introdotta dal cristianesimo, pretendendo di esorcizzarla. Specie nei paesi anglosassoni, è da aggiungere, a opera degli avvocati, una miniera, gli attivisti civili, gli antipapisti e gli ateisti.
Nulla di scandaloso evidentemente, all’epoca l’omosessualità era punita per legge. E nulla di scandaloso per la chiesa, che ha concluso positivamente lo scrupoloso processo di beatificazione. Inciderà anche il ritratto che Benedetto XVI ne ha fatto ai giornalisti sull’aereo che lo portava a Edimburgo: “Newman è soprattutto un uomo moderno che ha vissuto tutto il problema della modernità, che ha vissuto anche l’agnosticismo, il problema dell’impossibilità di conoscere Dio, di credere. Un uomo che è stato tutta la sua vita in cammino, per lasciarsi trasformare dalla verità in una ricerca di grande sincerità e di grande disponibilità di conoscere”. E tuttavia colpisce che nulla sia stato rilevato in quella relazione di pruriginoso, dai media che vivono di gossip, nonché dagli antipapi e dagli ateisti. Più che l’elogio tappabocche del papa intellettuale, non sarà che, come per la moneta, un peccato più grave scaccia quello meno grave? Che ora che c'è sotto mano il peccato di pedofilia si dimentica quello di omofilia.
Benché, certo, il peccato sia sempre il sesso. A conferma della nota tesi di Kierkegaard che l’ossessione del sesso è stata introdotta dal cristianesimo, pretendendo di esorcizzarla. Specie nei paesi anglosassoni, è da aggiungere, a opera degli avvocati, una miniera, gli attivisti civili, gli antipapisti e gli ateisti.
Canfora e l’inutilità della filologia
Ottocento pagine sul nulla, il filologo questa volta si è superato. Anche se la suspense è quella dell’editore: perché ha stampato, diffuso, pubblicizzato tale seguito d’insensatezze. Non c’è il papiro. Ovvero c’è, ma non si cos’è. Non c’è la politica, se non l’antifascismo di maniera. Non c’è la politica accademica. Ovvero sì, ma è l’unica cosa che c’è: il baronato e il killeraggio dei concorsi a cattedra. Una miseria che non fa scandalo.
Un esercizio di bravura, non per nulla Canfora è probabilmente il miglior narratore degli ultimi venti o trenta anni (“La biblioteca scomparsa”, “La biblioteca del patriarca”, “Il comunista senza partito”, “La lista di Andocide, “Giulio Cesare”, ”La sentenza”). Ma paradossalmente, il giallo sostanzia l’inutilità della filologia, se è superficiale, opportunistica, indigente nelle sue punte migliori. Cratippo o Teopompo? Che non si sa chi sono...
Luciano Canfora, Il papiro di Dongo
Un esercizio di bravura, non per nulla Canfora è probabilmente il miglior narratore degli ultimi venti o trenta anni (“La biblioteca scomparsa”, “La biblioteca del patriarca”, “Il comunista senza partito”, “La lista di Andocide, “Giulio Cesare”, ”La sentenza”). Ma paradossalmente, il giallo sostanzia l’inutilità della filologia, se è superficiale, opportunistica, indigente nelle sue punte migliori. Cratippo o Teopompo? Che non si sa chi sono...
Luciano Canfora, Il papiro di Dongo
Se non c’è complotto non c’è storia
"Nero petrolio”, un documentario di Rai Uno, ripropone cinquant’anni di oscuri e feroci complotti per l’oro nero. Da Matteotti a Pasolini, due delitti epocali – una buona storia ha bisogno di punti di riferimento solidi. Giacomo Matteotti aveva scoperto la vendita truffaldina dei diritti di ricerca del petrolio italiano a una Sinclair Oil americana, e per questo Mussolini ne ordinò l’assassinio. Lo spiega “con lucidità”, dice il “Corriere della sera”, lo storico Mauro Canali. Mentre un poeta, Gianni D’Elia, e una signora Ruffini, criminologa, si dicono certi che Pasolini fu ucciso per il romanzo “Petrolio”. Per “il famoso appunto 21 (Lampi sull’Eni)”, dice sempre il “Corriere”, che sarebbe scomparso – di cui un altro eminente filologo, Marcello Dell’Utri ha annunciato tempo fa il ritrovamento, ma poi non ce lo ha fatto leggere (in realtà l’appunto è travasato nel romanzo pubblicato, un poco pasoliniano uso della cronaca, nella forma di un pettegolezzo raccolto nel salotto, presumibilmente, della Astaldi). Pasolini sarebbe stato ucciso su ordine di Eugenio Cefis, successore di Mattei all’Eni.
Canali ci ha abituato alle sorprese, scavando negli archivi, dei comunisti che erano fascisti, e viceversa, e degli italiani che erano tutti spie. Scavando negli archivi dell’Ovra, che per statuto è bugiarda, come ogni polizia segreta. Ma neppure l’Ovra sarebbe riuscita a farci credere che Cefis abbia ordinato a Pelosi di assassinare Pasolini – che non scrisse la parte petrolifera di “Petrolio” perché non riuscì a scriverla, ne aveva avuto il tempo. È pure vero che la realtà di Cefis, e del fascismo, è molto più romanzesca di un assassinio. Non è complottarda, e anzi è bene in vista, questo è il punto. Ma se non c’è complotto non c’è storia, non da ora in Italia, dai tempi di Catilina.
Questo forse spiega la mancata unità, o maturazione del paese, il mancato senso della nazione così forte altrove, in Europa perfino nelle nazioni etnica mente divise, Gran Bretagna e Spagna, oltre che in Francia o nella giovane Germania: la mancanza del senso della storia. Indotta dalla povertà della storia nazionale. Tanto piena è di buchi: trascuratezze, omissioni, ipocrisie, anche contro l’evidenza. L’uso della storia è documentato da Gordon Wood in crescita esponenziale nel dopoguerra, insieme con la crescita degli studi accademici e delle cattedre. Wood l’ha calcolato per gli Usa, ma l’Italia non sarà molto indietro. Cosa manca allora? Manca un disciplinare, come per il vino, e ogni prodotto di largo consumo.
Canali ci ha abituato alle sorprese, scavando negli archivi, dei comunisti che erano fascisti, e viceversa, e degli italiani che erano tutti spie. Scavando negli archivi dell’Ovra, che per statuto è bugiarda, come ogni polizia segreta. Ma neppure l’Ovra sarebbe riuscita a farci credere che Cefis abbia ordinato a Pelosi di assassinare Pasolini – che non scrisse la parte petrolifera di “Petrolio” perché non riuscì a scriverla, ne aveva avuto il tempo. È pure vero che la realtà di Cefis, e del fascismo, è molto più romanzesca di un assassinio. Non è complottarda, e anzi è bene in vista, questo è il punto. Ma se non c’è complotto non c’è storia, non da ora in Italia, dai tempi di Catilina.
Questo forse spiega la mancata unità, o maturazione del paese, il mancato senso della nazione così forte altrove, in Europa perfino nelle nazioni etnica mente divise, Gran Bretagna e Spagna, oltre che in Francia o nella giovane Germania: la mancanza del senso della storia. Indotta dalla povertà della storia nazionale. Tanto piena è di buchi: trascuratezze, omissioni, ipocrisie, anche contro l’evidenza. L’uso della storia è documentato da Gordon Wood in crescita esponenziale nel dopoguerra, insieme con la crescita degli studi accademici e delle cattedre. Wood l’ha calcolato per gli Usa, ma l’Italia non sarà molto indietro. Cosa manca allora? Manca un disciplinare, come per il vino, e ogni prodotto di largo consumo.
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