sabato 13 novembre 2010

Londra e Parigi alleate per tagliare la spesa militare

Sarkozy e Cameron si sono garantiti contro le proteste per i tagli che faranno alle spese militari, specie alla marina e al nucleare, e nulla più. A parte questo sottinteso sono solo un gesto, non nuovo, i trattati per la cooperazione nella difesa firmati a Londra martedì. Firmati con enfasi, e presentati ai media con spreco di richiami a Waterloo e poi all’Entente e all’Alleanza, con l’inevitabile “fine di mille anni di guerra civile europea”, sono la constatazione di due debolezze. A fronte delle quali propongono soluzioni inattuabili.
I due governi partono dal presupposto che i loro bilanci militari sono il 45 per cento di tutta la spesa per la difesa dell’Unione europea. Il che è vero. E dall’esigenza, altrettanto reale, di ridurre le spese militari. Anche perché, altra ovvietà, il mondo è cambiato, molto rapidamente, e molto radicalmente da quando i due paesi erano delle potenze, delle potenze reali con interessi globali. Oggi tutta l’Europa nell’insieme è un giocatore di poco peso, e anzi un gregario, nell’arena internazionale: nel Medio Oriente, in Afghanistan, in Iran, in Africa, e negli stessi rapporti con la Russia, per quanto riguarda l’Ucraina, la Cecenia, l’Ossezia e il Caucaso nell’insieme. L’abbandono da parte europea di ogni ambizione di politica estera e della difesa comune è stato plateale l’anno scorso con la scelta della baronessa Ashton a rappresentarla, al posto dei tanti candidati di buona consistenza politica, tra essi d’Alema – una scelta dopo la quale non si è mai più sentito parlare di politica estera e militare europea.
I trattati anglo-francesi di Londra sono una constatazione delle reciproche debolezze, e in questo punto hanno un senso. La relazione speciale di Londra con gli Usa, di cui ancora Tony Blair s’illudeva, si è dimostrata vuota in Iraq e in Afghanistan: la Gran Bretagna è per gli Usa una provincia del mondo come tutte le altre. La Francia, non da ora, ha constatato che le possibilità di una difesa comune europea sono zero, tutti i progetti sono abortiti, benché spesso accompagnati da impegni e perfino trattati. Già da oltre un anno un anno fa ha voluto che le forze armate francesi reintegrassero dopo 43 anni il dispositivo militare della Nato.
I trattati potranno portare al risparmio di un po’ di combustibile. L’intento di coordinare le rispettive marine in modo da tenere in mare solo una portaerei a volta sembra realizzabile. E così l’unificazione dei test nucleari in un’unica struttura. Anche perché non ci sono test nucleari in vista. Gli apparati relativi all’armamento nucleare potranno però essere dimezzati. Meno realizzabile invece l’impegno alla creazione di brigate comuni, specie per gli interventi “umanitari” fuori dell’Europa: non ci sarà mai un soldato inglese agli ordini di un francese, caporale o generale, e viceversa. Queste brigate dovevano essere costituite già in base agli accordi di Saint-Malo, i trattati fotocopia di quelli di Londra firmati nel 1998 da Blair con Chirac (http://www.antiit.com/2008/11/la-guerra-umanitaria-leuropa-senza.html). In vista di una forza europea di pronto intervento, è vero, di cui si è perfino parlato poco.

Giornalisti, mafiosi esterni

Su “Repubblica” Attilio Bolzoni prende l’onesta testimonianza di Giovanni Conso sulla sospensione del 41 bis nel 1993, la rivolta, e ritesse la trama del mafioso più forte e bravo dello Stato. Lui come Francesco La Licata della “Stampa”- il confidente di Ciancimino figlio nel libro “Don Vito” di Feltrinelli, che resterà a marchio dell’infamia di questi anni. Due che sanno di che si tratta, Bolzoni e La Licata: sanno chi è Ciancimino figlio e sanno perché accusa, lui mafioso accertato, lo Stato.
Ognuno è quello che vuol essere, anche concorrente in associazione mafiosa. Ma fa lo stesso impressione vedere “Repubblica” e “La Stampa” schierati per la mafia in questa folle corsa a dimostrare che Giuliano Amato, Conso, Mancino, i prefetti, i carabinieri volevano “fare la pace” con la mafia, e magari hanno ordinato l’assassinio di Falcone e Borsellino. Sì, c’è l’odio contro Berlusconi: si accredita Ciancimino figlio come testimone veritiero contro lo Stato perché poi tutto quello che dirà contro Berlusconi diventerà automaticamente vero. Ma non è così che funzionano le cose: questo è vero e proprio concorso in associazione mafiosa, non esterno. Col compito specifico di magnificare la mafia.
I ruoli sono ribaltati a Palermo. Non è la prima volta, sono almeno trent'anni che la giustizia è combattuta dal Palazzo di Giustizia, e non si saprebbe dolersene per la città, dato che non mostra di volersene liberare. Anche se questa assurda giustizia ha fatto tanti morti, Costa, Chinnici, Falcone, Borsellino tra i tanti. Ma fa male vedere grandi giornali e giornalisti turlupinati da magistrati di poca virtù come Ingroia. Che furbo tiene a galla Ciancimino figlio senza esporsi con patenti di autenticità, mentre lo vende come buono ai giornalisti. Dispiace per il giornalismo, che sia sceso a questi livelli. Per l’odio-di-sé-meridionale forse più che per l’antiberlusconismo prospettivo. Un odio-di-sé che a questo punto non è più autocritico, è solo spregevole – l’antiberlusconismo prospettivo è una copertura per andare in prima pagina: il giornalista vuole solo andare in prima pagina, e a questo fine contrabbandare il Sud che il Nord vuole è il meno.

giovedì 11 novembre 2010

Da Fini a Fini, il golpe continua

Che un presidente della Camera provochi la crisi del governo eletto e sciolga il Parlamento dice tutto sulla natura della crisi. In un regime costituzionale vero ciò equivale a un golpe, seppure senza gli sceriffi in armi. Ma questo è inutile ricordarlo ai tanti legulei e scienziati politici, che imperversano sui giornali e nelle televisioni, e ai tanti custodi della legalità repubblicana, dal Quirinale in giù. Il fatto è che Fini ci ha preso gusto nel 1992 col golpe dei giudici allora neo fascisti, i procuratori Cordova e Di Pietro, e ci riprova con gusto: è la sua Italia.
Diverso è il giudizio altrove in Europa. In Germania la cancelliera Merkel e il presidente del Bundestag si sono rifiutati di ricevere Fini. E un tentativo di viaggio a Bruxelles dello stesso alla presidenza dell’Unione europea è abortito sul nascere. I regimi costituzionali moderni sono nati dal Lungo Parlamento, che si oppose a Londra a metà Seicento allo scioglimento perseguito dal re.
Ma non c’è solo Fini, c’è l’ideologia della crisi con cui i padroni del paese, nei giornali e nelle proprietà dei giornali, perseguono l’obiettivo dichiarato di avere governi deboli. Anche quando sono eletti con una larga preferenza dell’elettorato. In Inghilterra un voto diviso dà comunque campo a un governo stabile, in Italia un voto plebiscitario, per tre elezioni di seguito, una nazionale e due regionali, si rovescia con i Woodcock e i Fini.
Fino a quando? Fino a quando si potranno fare governi come quelli di Scalfaro, manovrati a prescindere dal voto. Napolitano potrebbe non ripetere quell’esperienza, avendo lunga e onesta esperienza della politica. Ma non è detto, la sindrome Scalfaro è forte, o sarà l'età, o l'aria infetta del Quirinale: come Scalfaro nel 1994, anche Napolitano ce la sta mettendo tutta per sabotare la legge di stabilità. Anche se l'Italia rischia il declassamento del debito -tanto più ora che l'Irlanda sta rilanciando la speculazione. Mentre sui giornali e nelle tv nessuno dei professoroni che fanno l’opinione ha detto o scritto una sola parola sulla gravità dell’iniziativa di Fini. E questo conduce a un’altra, più inquietante, prospettiva. Vige la vulgata che l’Italia è un paese allo sbando perché berlusconiano: farfallone cioè, consumista, inetto. Mentre l’inverso è vero: il paese lotta da quasi vent’anni contro l’antipolitica – ma è golpismo – che lo affligge.
Un minimo di riflessione dice che Fini non può fare il leader della sinistra, nessuno lo seguirebbe. Non può fare nemmeno l’alleato, lo seguirebbero i gregari in cerca di posto. Oggi sarebbe solo un indipendente di sinistra, l’ultimo, fuori tempo massimo, cui il partito garantisce l’elezione e basta, poi taccia – ammesso che il Partito possa ancora garantire un’elezione, in quell'area le cose vanno di fretta. Ma sul suo versante, seppure farfallone e inetto, ci sono i clercs: i depositari della verità e dell’opinione. I professori. Che sono gli stessi che hanno messo in profonda crisi l’università e tutti gli studi, con spese folli e il piccolo potere dei baronaggi, cioè della scelta mediocre dei nuovi professori. Ma sono inamovibili, e fanno da baluardo al partito della crisi. Insieme con i giudici e gli altri strenui difensori dei micro privilegi “costituzionali”. L'Italia di Fini è questa.

Contro l'evasione esibita, fisco di quartiere

Girano Suv imponenti da 100 mila euro in su nei paesi scompaginati tra le buche in Calabria, nell’entroterra napoletano, al Tiburtino Terzo a Roma. Con spreco di carburante, assicurazione, gomme. Si stappano bottiglie da cento euro nei bar e i ristoranti dei paesi più remoti della Calabria e della Sicilia, da parte di ragazzotti senza mestiere né reddito conosciuto. Si moltiplicano ovunque i porticcioli turistici, ma sempre indietro sulla domanda, che si aggira già sul milione di posti barca. Si montano sempre più scuderie in ogni angolo d’Italia, con tre e quattro cavalli, i figli di famiglia e anche chi la famiglia non ce l’ha. Stili di vita che richiedono spese per centinaia di migliaia di euro, l’anno.
L’Italia è un paese ricco, e quindi non c’è scandalo. Se non fosse che il fisco non lo sa. L’Agenzia delle Entrate si fa valere come un’organismo coi fiochi e sempre si magnifica, meglio dei carabinieri, mentre non lo è. Perché le basterebbe aprire gli occhi, uscendo per un momento dai modelli e i software di cui l’ha oberata Visco, e i loro assurdi automatismi, per cogliere la realtà. Basterebbe poco, pochissimo, in uomini e tempo, per battere la famigerata evasione. Un agente-consulente-informatore o due in ognuno degli ottomila Comuni italiani, che solo si limitassero a una passeggiata di tanto in tanto per le strade del paese, e nelle città uno-due per quartiere, darebbero un quadro immediatamente aggiornato dei redditi veri degli italiani. Venti-trentamila agenti del fisco in tutto - magari pagati a premio, per accertamento convalidato. Roba di un anno-due, per impostare gli schedari e lanciare i controlli incrociati. Perché l'evasione, in Italia, è esibita, che ci stanno a raccontare che è imprendibile?

Il Grande Fratello al femminile

Quale che sia l’onorabilità di Berlusconi, c’è un’organizzazione che compila dossier contro di lui, il Grande Fratello che tutto vede e ascolta? La domanda va riproposta dopo che la giudice Fiorillo è uscita allo scoperto sulla storia di Ruby. Una giudice non tranquilla, anzi molto pasionaria, per così dire. Che si è messa contro il Procuratore capo di Milano e il ministero dell’Interno. Con dichiarazioni eccitate ai giornalisti che stavano in attesa al suo tribunale per un caso italo-tedesco di affidamento di minori. E con un ricorso impresentabile al Csm, giusto per fare scena. Un’uscita allo scoperto che fa balenare due orrende ipotesi. Che sia stata lei dietro le indiscrezioni (in via confidenziale dapprima al “Corriere della sera”), anonime e non molto congruenti ma giudicate attendibilissime dai giornali. Lei e non imprecisati agenti di polizia come era stato fatto dire. L’altra ipotesi è che la giudice sapesse già tutto di questa Ruby, che evidentemente non è stata per lei una minorenne fra le tante da sistemare ogni giorno. Lo sapeva come lo sapevano i carabinieri che l’avevano fermata a Genova dopo il viaggio lampo a Segrate con accompagnatore anonimo? Oppure, peggio, la memoria le è venuta tardi, dato che in un primo momento diceva giustamente “non ricordo”, nulla di eccezionale? E le è venuta a opera di chi, su promessa o minaccia di che?
C’è una filiera femminile di giudici contro Berlusconi: non vogliono che trombi, dicono che è immorale, e non si può obiettare. Ma perché agire da Spectre, sottotraccia, col veleno, e dicendo bugie? Non è invece storia da Spectre la gestione dei servizi e della sicurezza da parte di D’Alema, che presiede la commissione parlamentare che se ne occupa. L’ex fautore del paese “normale” non ha fatto nulla dal letto di Putin in qua per capire come mai tanti soldi spesi per proteggere i politici non servono a niente. Ora convoca Berlusconi a “difendersi”, senza paura del ridicolo. Con la convocazione D’Alema tenta d’infilarsi nella crisi, di far girare il suo nome. Ma questo dimostra che si è ridotto a poco: la “vecchia guardia” mostra infine tutti i suoi limiti.

Le partite? Le vincono gli arbitri

L’arbitro Morganti decide da solo il derby Lazio-Roma e il campionato. Sbagliando tre volte, tutt’e tre a vantaggio della Roma. Ma è giudicato l’arbitro migliore. Ha la claque? Ce l’ha, tra i giornalisti. Interessata? Naturalmente sì. Ma i giornalisti non decidono le partite, mentre gli arbitri sì. Perché di questo si tratta: un errore è possibile anche a un arbitro italiano, ma non tre a favore di una sola squadra. E che errori: rigori evidenti non dati, rigori viziati dati. Il signor Morganti il giorno dopo si “promuove”, tanto è sicuro della sua immunità, se non dei meriti acquisiti.
Tre giorni dopo il signor Banti fa vincere alla stessa maniera il Milan a danno del Palermo. Sempre impunito. Vogliono indurci alla paranoia? Il presidente del Palermo, Zamparini, dice che i padroni del vapore devono vincere per prendersi una quota maggiore dei diritti tv. Cioè dà per scontato che gli arbitri facciano vincere le partite come vogliono – e devono.
Ora, l’arbitro in Italia è sempre “venduto”. Ma pare proprio che sia vero. Si ricordano ancora le partite di Collina, “il miglior arbitro del mondo”, che era legato al Milan, senza vergogna. Come Concetto Lo Bello, altro “miglior arbitro del mondo”, che di questi legami si vantava in Parlamento quarant’anni fa – allora gli arbitri non si “vendevano” per poco.
P.S. Una settimana dopo il signor Rizzoli, altro grande arbitro italiano, decide lui Juventus-Roma, riscrivendo all’istante il regolamento, sulle ammonizioni, i rigori, il recupero.

mercoledì 10 novembre 2010

Fu la Siria a far scoprire l’esplosivo iraniano a G.Tauro

È stata la Siria a far scoprire alle autorità italiane il carico di sette tonnellate di esplosivo Rdx, destinate al movimento Hezbollah in libano, il 22 settembre nel porto di transito di Gioia Tauro, sulla nave portacontainer “Finland”, del gruppo armatoriale svizzero Msc, Mediterranean Shipping Company. La notizia, che se vera disegna un nuovo scacchiere del Medio Oriente, è suffragata da un ampio reportage che la giornalista libanese Hula el Husseini ha pubblicato sul giornale saudita di Londra “Asharq el Awsat”, ed è ritenuta credibile dai servizi segreti israeliani - se non è stata da essi originata. La Siria non sosterrebbe più Hezbollah in Libano, non nella sua attuale dipendenza dall’Iran. E conseguentemente non sosterrebbe più neanche l’opzione nucleare iraniana.
Questi i fatti. È stata una fonte siriana a segnalare ai servizi italiani il carco in transito a Gioia Tauro. Le informazioni di questa fonte siriana erano state raccolte a Damasco, al ministero siriano della Difesa. L’esplosivo era fornito e spedito dalle Guardie Rivoluzionarie iraniane. Può servire da munizionamento per due missili di media gittata, l’M-302, che arriva a 150 km, e l’M-60, che arriva a 250 km, trasportando una testata di cinque quintali.
Una settimana prima Damasco aveva ufficiosamente protestato con Hezbollah per l’accoglienza troppo calorosa riservata ad Ahmadinejad, il primo ministro iraniano. E con Teheran per l’invio in Libano di un contingente di Guardie Rivoluzionarie. Dopo il sequestro dell’esplosivo a Gioia Tauro, i media siriani hanno accreditato l’ipotesi che sia stata una “polizia antimafia” italiana a operare la scoperta, insinuando che l’Iran e le sue Guardie Rivoluzionarie siano legate alla mafia.
L’episodio di Gioia Tauro può essere solo un richiamo al rispetto delle diverse sfere d’influenza. Ma potrebbe anche avere avviato un divorzio tra la Siria e l’Iran. La Siria è più che mai interessata alla pace con Israele, ed è impegnata a ottenere l’appoggio saudita nell’inchiesta internazionale (araba) sull’assassinio del primo ministro libanese Rafik Hariri nel 2005. In ogni caso non intende cedere a nessuno il protettorato informale sul Libano.

Berlusconi al bis, cerca voti per i sottosegretariati

La crisi pilotata - “non apro la crisi al buio” di Berlusconi - significa un reincarico a Berlusconi. Il presidente del consiglio non ha il potere di dimettere i ministri. Né Berlusconi si aspetta che i finiani si dimettano: lo vorrebbe la chiarezza ma non la ragione politica, seppure quella contorna di Fini. Ma non ha abbandonato la speranza di raccogliere la diecina di voti che gli manca alla Camera tra gli stessi finiani e altrove. Facendosi forte degli svantaggi di una legislatura dimezzata (previdenziali e d’investimento elettorale). E della possibilità di offrire posti al governo, tra i sottosegretariati e anche ai ministeri, invece dei finiani (quattro ministri e diciotto sottosegretari: il 50 per cento dei finiani sono al potere).
Un iter, va rilevato per inciso, che conferma la superiorità morale, oltre che politica, della Prima Repubblica su questa Seconda (proclamata dalle terze file dei vecchi partiti, da Scalfaro a Occhetto, con la forza d’attacco di magistrati della levatura di Di Pietro). Quando De Mita, segretario della Democrazia Cristiana, si oppose alla legalizzazione delle tv di Berlusconi fece dimettere i cinque ministri della sua corrente dal governo e non abbatté il governo. Che, presieduto da Andreotti, cooptò altri titolari dei dicasteri e andò avanti.
La crisi è certa. I finiani sono già al lavoro da lunedì in tutti i centri piccoli e grandi, specie al Sud, per creare sezioni e associazioni e preparare candidature. Ma il governo tremontiano di stabilità, dei conti pubblici e delle elezioni, cui la presidenza della Repubblica mostrava di volersi aggrappare, è ora una subordinata. La prima mano toccherà a Berlusconi. Che appare sempre indeciso ai suoi sull’opportunità di tornare al voto oppure di assicurare un governo. La prima ipotesi gli ritorna insistente dopo che a Perugia Fini ha mostrato una decisa caratura “radicale” alla Pannella, destinata quindi a lasciarlo senza voti. Ma è stato convinto a immolarsi sul piano della governabilità. Scaricando il suo maniacale ego sulle cose da fare: gli interventi per gli alluvionati, per l’università e la ricerca scientifica, il patrimonio culturale, la stabilità del debito, il controllo e il contrasto dell’immigrazione illegale. Nonché sulla riforma del costo del lavoro, che potrebbe essere un grimaldello presso molti dei fautori del Terzo polo.

martedì 9 novembre 2010

Memoria di Répaci, nel lungo oblio

Un monumento alla (vana)gloria. Uno scrittore e un’artista che è stato al centro della vita culturale per mezzo secolo, che Salerno documenta con testi e lettere dello stesso Répaci e con uno sfavillante corredo d’immagini, in un’edizione curata con lusso, e subito dimenticato. Non trascurato, cancellato. Benché Rubbettino ne vada ripubblicando le opere, molte a cura dello stesso Salerno, altre di altri studiosi e critici militanti calabresi, Pedullà, Morace, Tuscano. Salerno ha anche raccolto per Rubbettino, in un altro omaggio editoriale di prestigio, le dediche a Répaci dei tanti libri della sua biblioteca, donata alla casa della cultura di Palmi, insieme con la ricca collezione d'arte: c’è di che trasecolare, tanta è la stima che esse testimoniano. È dunque questo grande libro un monumento anche all’ingratitudine?
Répaci è stato un personaggio scomodo. Sia come scrittore, per il paradigma di forza, istinto, vitalismo nel quale racchiude le sue narrazioni. Sia come organizzatore culturale, attivissimo, sempre entusiasta, e quasi furioso. Fu giornalista, critico letterario, critico d’arte e musicologo, pittore, editore. Inventò e portò a prestigio il premio Viareggio, come documenta il corredo di foto che illustra il volume. Fu antesignano inventore di un premio poi perento, il Firenze per l’ecologia, negli anni 1950. Ma era un impolitico. Radicato nel socialismo, ma troppo orgoglioso per accedere a compromessi, sia pure la premiazione di un libro o di un autore, che non si nega a nessuno. Lo sgomento che questo importante libro ingenera è che non si sa se dare torto a una persona onesta e a un autore comunque ragguardevole, oppure a tutto il resto, che lo ha obliterato.
Poi c’è la Calabria. Che Salerno qui mette all’inizio del volume, con la foto della madre, oberata di figli e disgrazie e sempre forte, e il ricordo del terremoto del 1908. Ma che Répaci sentì sempre in tutte le sue fibre, nel carattere, e cui fa riferimento in quasi tutte le sue opere, benché ne sia partito quando aveva appena dieci anni, ritenendo questa radice “un privilegio”. Costituì perfino una raccolta di pitture di grande valore, Modigliani, Guercino eccetera, negli anni 1950-1960 per poterne arricchire “il paese natale”, spiega già nel 1966 ne “Il caso Amari”. Un altro Répaci in un’altra regione avrebbe avuto un’altra storia: approfondimenti, considerazione, e magari, perché no, un uso estensivo della sua figura e delle opere. Ma la Calabria, regione benedetta da Dio, direbbe Répaci, non ha memoria, non che se ne curi.
Santino Salerno, Leonida Répaci, una lunga vita nel secolo breve, Rubbettino, pp. 253, € 24

I conti amari di un campione della Resistenza

Pasquale Tuscano, che ha firmato la riedizione di questo racconto a sfondo noir del 1966 dice Répaci “l’ultimo discendente del byronismo calabrese”. Che è molto efficace, il byronismo calabrese. Répaci avrebbe gradito, autore irruento e muscolare, benché tutto letteratura. Questo libro è poi specialmente byroniano, tutto pieno dell’autore. “Il caso Amari” è noto e viene riproposto come un pamphlet contro l’intellighentzia nella quale Répaci era vissuto e viveva. E in questa veste ne soffre, probabilmente: passati i vent’anni dalla morte dell’autore che Répaci stendhalianamente si dava perché i suoi libri fossero capiti e letti, ciò non è avvenuto, per questo e per gli altri suoi testi. Mentre, depurato dei malumori, “Il caso Amari” è un libro brillante e piacevole di autocoscienza: attraverso le 32 testimonianze, poi divenute 33 e infine, a sorpresa, 34, più una scia di lettere, sorta di appunti postumi in vita, Répaci si storicizza in Amari-Répaci.
Alla soglia dei settant’anni lo scrittore si ferma a guardarsi. Come personaggio e, di più, come persona. Senza cattiverie in realtà contro altri letterati. Ma inquieto e qualche volta cattivo con se stesso: si assolve dalla rigidità politiche, “carrista” nel 1956, stalinista per sempre, ma capisce di non capire le donne, attorno alle quali non sa che sfarfalleggiare. Il famoso catalogo delle debolezze dei migliori scrittori del secondo Novecento, qui a p. 75 (“Moravia un narratore lassativo….”), che lo stesso Tuscano mette in bocca a Répaci, è fatto dire al personaggio più screditato dei 34, l’autore, in questo caso una donna, che non ha talento e dice che tutti gli altri non ne hanno. L’invettiva è svolta come una bouffonnerie, lepida e ben calibrata.
È un autoritratto che Répaci mette in scena, pittore egli stesso non del tutto dilettante, in forma di diorama e quasi caleidoscopico, delineandosi con rapide pennellate, alcune lusinghiere, altre no. Anche se a fini assolutori: vede i suoi spigoli ma non li ammorbidisce. L’uomo al centro della vita letteraria, l’organizzatore culturale per eccellenza della Prima Repubblica, dal premio Viareggio al premio Firenze per l’ecologia, il fautore primo e più costante dell’insegnamento della Resistenza nelle scuole, si scopre in dissidio con tutto il suo mondo. E non si emenda: Amari-Répaci è uno il cui viso non si gira “per guardarsi alle spalle ma (è) piantato ben sul collo per guardare davanti a sé”. Uno che “non era comunista ma ragionava come un comunista da vent’anni. Il suo estremismo apparteneva a un’altra generazione”, quella del massimalismo socialista, nella prima guerra e subito dopo. Un sentimento politico molto meridionale, bisogna aggiungere, sempre al confine con l’utopia e quindi impolitico. Che Répaci condivide, per dire, con Concetto Marchesi, qui portato ad esempio d’intransigenza morale, altro stalinista a vita – senza però essere stato fascista, come il latinista.
Un libro atipico che è un piccolo colpo di genio. È anche un catalogo delle varie specie di letterati, e di lettori di libro, alcuni caratterizzati (la donna facile il cui orgasmo è non darla, l’editore, invadente e remoto, la donna che vorrebbe ma dice sempre no…). L’invenzione di 33 ottimi nomi, 34 col morto, è una performance unica.
Leonida Répaci, Il caso Amari, Rubbettino, pp.186, € 11

lunedì 8 novembre 2010

Tremonti e non Draghi a capo del governo di stabilità

Sarà un governo tecnico e non politico, quello del Presidente, se Fini riuscirà ad abbattere Berlusconi. E sarà Tremonti l’incaricato, non Draghi. L’obiettivo è di prevenire ogni manovra destabilizzante dei mercati, che hanno da ormai un anno abbandonato il tentativo di speculare sul debito pubblico italiano ma stanno ora drizzando le orecchie. Il presidente della Repubblica ha ben presente questo rischio, che può concretizzarsi a breve, in occasione della manovra di correzione del bilancio. Tremonti, molto apprezzato in Europa e dal “Financial Times”, dà più affidamento al Quirinale per portare in porto la correzione di bilancio che si rende necessaria, Mentre Draghi rischia di creare pericolose reazioni di rigetto nella ex maggioranza, da lui contestata quasi quotidianamente.
Sarà Tremonti a gestire dunque le elezioni. Il governo tecnico si rende comunque necessario perché non ci sono maggioranze alternative al centro-destra di Berlusconi. Il presidente Napolitano, che finora ha più volte puntellato con discrezione il governo, non è sorpreso dal suo dissolvimento, data l’inconsistenza politica dei suoi leader, la cui ultima manifestazione è aprire la crisi al momento del voto obbligato sulla stabilità finanziaria e il contenimento del debito. Ritiene a questo punto necessario un intervento di supplenza, per evitare che il debito italiano inneschi una crisi i cui esiti sarebbero catastrofici. Ma con un governo tecnico o di emergenza, di brevissima durata.

Il centro-sinistra di Fini va al voto perdente

Un altro, un politico qualsiasi, avrebbe steso lui la rete che il non eccelso Fini sta stendendo. Con una semplice mossa, un programma di governo per la seconda metà della legislatura che attraesse l’opposizione, l’Udc e il Pd: fuori la giustizia, introvabile, dentro il federalismo, la legge elettorale,la riforma del fisco e del costo del lavoro. Che da sola, quest’ultima, equivarrebbe a una riforma da tutti benedetta del mercato del lavoro. Berlusconi no. Non per pregiudizio ideologico, che non ne ha, benché sbeffeggi i “comunisti”, ma per la sua passione plebiscitaria. Che è l’unica forma della politica che gli piace: non il governo, ma il gradimento, la popolarità, e il voto. Che però non è detto che lo condanni.
Fini d’altra parte non vuole Berlusconi, e Berlusconi non vuole Fini. Non ci può essere un governo Fini-Casini-Berlusconi. Fini s’immagina, e gli vengono suggerite, formula fantasiose, che tutte farebbero a meno dei voti di Berlusconi. Ma sono niente più di fantasie, poiché non hanno i numeri: se anche si mettessero insieme tutti i voti non di Bossi-Berlusconi non è detto che avrebbero la maggioranza alla Camera, per i tanti mal di pancia, e non l’avrebbero comunque al Senato. Senza contare che Di Pietro vede in Fini un concorrente, e sta già lavorando contro di lui – non tutti i giudici sono per Fini.
Un governo di Fini peraltro non può fare niente: non il federalismo, non la legge elettorale, non la riforma del fisco e del costo del lavoro. Nella sua nuova maggioranza ipotizzabile, di centro-sinistra, non c’è concordia su nessuno di questi pun ti. Sarebbe insomma il governo del personaggio, che è il niente personalizzato. L’unico effetto di questa sua avanzata nel vuoto dovrebbe quindi essere di gestire le elezioni, con un governo nominato ma bocciato dal Parlamento.
Le elezioni saranno dunque necessarie. Almeno questo Fini sembra saperlo. Insieme con la nota legge che chi provoca elezioni anticipate le perde. Dunque, sta lavorando alle elezioni senza darlo a vedere. Come fece Scalfaro con Dini, col suo golpe prolungato concluso con le elezioni del 1996. Ma Napolitano non è Scalfaro e non consentirà a Fini di traccheggiare per un anno e mezzo, per capitalizzare la riconosciuta incapacità di Berlusconi di fare l’opposizione.
Si deve votare dunque presto. E l’esito del voto a caldo è incerto: Berlusconi non parte perdente. Fini ha il sostegno dei giudici. Ma in campagna elettorale non possono scovare altre escort, sono solo ottomila voti – ammesso che siano tutti per lui. Ha i grandi giornali e Murdoch. Che però già ne ridono: si sa che gli interessi che fanno i media lavorano contro un “vincente”, qualsiasi esso sia, che non vogliono una leadership politica, un governo. Ha Vendola, ma non avrà il Pd. Che non è più Veltroni, Franceschini, Bindi, e presto non sarà più D’Alema, Bersani, Finocchiaro: i voti, residui, sono dei rottamatori. Mentre avrà ferocemente contro, più che i molli berlusconiani, la Lega. Cioè il Nord, da Trieste, dalla “sua” Trieste, a Cuneo.
Tutto ciò che Fini vuole, consultazioni, verifiche, programmi, magari con la lotta alla droga di rumoriana memoria, è roba che non porta voti e anzi li allontana: il Nord sarà feroce con questo tipo di politica. Mentre le due grandi aree elettorali del Sud, la Campania e la Sicilia, si presentano perdenti per il centro-sinistra di Fini: i guasti di Bassolino e Russo Jervolino sono incolmabili, il milazzismo attorno a Lombardo si è sfarinato prima di decollare.

La formula Fini in Sicilia, triste presagio

Se la Sicilia prefigura, some pretende, i modelli politici italiani, Fini ha già fatto flop a Palermo. Uno dei tanti vanti della Sicilia è di prefigurare gli assetti nazionali con le sue ingegnerie politiche. Anche Sciascia, che pure è un cervello politico, ci ha creduto. I monocolori, con la destra, con la sinistra, il centro, il pentapartito, il compromesso, il golpe giudiziario, il berlusconismo, la Sicilia si è sempre illusa di averli inventati. Gli storici non se ne sono interessati, e quindi non sappiamo se la pretesa è vera. Ma il precedente non è buono per Fini. Perché quello che lui vuole fare Raffaele Lombardo l’ha già fatto, lasciando Berlusconi per mettersi con Casini e il Pd, ed è subito fallito. E questa è la seconda volta che la Sicilia fallisce la sua missione nazionale: analoga polpetta aveva commigliato Silvio Milazzo mezzo secolo fa, con analogo risultato. Si vede che la ricetta, benché sciliana, proprio non funziona: uno di destra che si mette a capo della sinistra.
Lombardo è fallito anche perché, bisogna dire, non è Fini: è uno che non si sa come prendeva i voti, e ora si sa. Ma pure Fini è uno che non si sa come prende i voti. Cioè si sa come li ha presi, sulla spalla di Berlusconi, ma non si sa se li riprenderà. Anzi, si sa che non li riprenderà. Il che, rigirando la frittata, potrebbe anche essere di beneficio, per la sua futura statura di statista: gli eviterebbe di tentare un governo che non sta in nessun libro, il centro-sinistra del neo fascismo - si è sempre detto che (ex) comunisti e (ex) fascisti erano speculari, ma lo dicevano i reazionari.
Anzi, a proposito, non c’è solo il tardo milazzismo di Lombardo, Fini stia in guardia se vuole salvare il doppiopetto anche per un altro motivo. I commentatori dei grandi giornali lo illudono che reazionario, fascista, comunista, centro-sinistra, sinistra, destra, sono concetti perenti, che la società moderna è una composta, una melassa, un polpettone. Non è vero. Se così fosse Berlusconi ne sarebbe il re incontestato, e invece non lo è. Figurarsi i sottopancia di Berlusconi e le sue creature politiche.

domenica 7 novembre 2010

Elogio della sporcizia

L’igiene porta alla pulizia, morale, religiosa, politica, etnica. Arcigni censori tengono il mondo pulito con grandi varechinate, lasciandosi dietro campi desolati. È l’ideologia del Novecento che perdura: fare piazza pulita.
È una storia, quella contemporanea, quella contemporanea dell’ex Occidente (Europa, Usa) che nasce dall’asepsi del dottor Semmelweiss. La quale aveva fini igienici e terapeutici. Ma è troppo bella, e anche semplice: chi non ha altro da dire, in politica, nelle idee, perfino negli affari, se ne ammanta utilmente. Senza però, questo è il punto, che il mondo sia più pulito. L’igiene è una sorta di copertura da cane rabbioso, senza altra virtù che la potenza dell’urlo e la minaccia del morso. E senza benefici se non, chissà, per il cane stesso.
L’Italia di dopo Mani Pulite, di dopo la questione morale della capitale morale, è più corrotta di prima. Anche molto più di prima, la corruzione sembra incontenibile. Si vada indietro di vent’anni e si troveranno molti codici etici aziendali, era la moda, in aziende dove invece si combattevano senza limiti e senza esclusione di colpi lotte terribili, anche fratricide, tra gli Agnelli nella Fiat per esempio, nella Rizzoli Corriere della sera di Cuccia, in Mediobanca dopo Cuccia.
Ma sempre i puri e duri hanno tralignato. Lutero. Calvino. Cromwell. Tanti rivoluzionari ammazzapopolo. Robespierre con la ghigliottina. Stalin, Mao, Pol Pot. Tra serbi, croati, bosniaci eccetera non si saputo ultimamente chi era più puro. Nel fango dell’antisemitismo s’incontra anche lo sfacelo morale dell’uomo buono: Céline, papa Paolo IV Carafa. E non si richiama esplicitamente all'igiene l'eugenetica, come già l'antisemitismo? E dunque che pensarne? Che un po’ d’impudicizia e incontinenza, se non di sporcizia, è utile se non attraente: protegge la bontà, e aiuta una qualche forma d’intelligenza.

La modernità di Ballard campanelliana, senza testa

È il noir dello shopping, “cerimonia collettiva di affermazione”. In luoghi suburbani dove “la più alta esigenza spirituale” è una stazione di servizio “su una strada a scorrimento veloce” e un garage di dieci piani, che tuttavia esprimono “un senso di comunità più profondo di quello di una chiesa di qualsivoglia confessione”. La cifra ballardiana dell’universo concentrazionario, e anzi carcerario, seppure qui di un carcere modello, confluisce nella follia quale ricetta, contro la noia, l’inazione, l’emarginazione.
La modernità si può dire in quattro battute. Il consumismo è equalizzatore e socializzante: è un’“ideologia di redenzione…, quando funziona estetizza la violenza”. “La democrazia è soltanto un servizio pubblico, come la luce e il gas”. “È il consumismo a darci la misura dei nostri valori. Il consumismo è sincero e ci insegna che ogni merce ha un codice a barre”. “Il grande sogno dell’Illuminismo, cioè che la ragione e l’egoismo razionale un giorno avrebbero trionfato, ha portato direttamente al consumismo dei nostri giorni”. Le cose e noi, i due mondi non sono separati.
Scandito così, è il digest del Millennio, benché d'impostazione campanelliana - certo accidentale: anche le cose ci comandano. Non più di dieci righe di questo romanzo di trecento pagine condensano la “civiltà” europea oggi, dopo essere state a lungo “americane”. Si può dire anche il romanzo del berlusconismo, ammesso che ce ne sia uno, del vuoto a perdere. Ma di più del dipietrismo, di chi protesta ma non sa per che. Della politica assente perché l’impolitica è improduttiva, al più un esercizio di snobistico rifiuto – lo snobismo dei sanculottes.
Ma l’Italia sarebbe un adattamento minore, al solito confuso. Questo “Regno a venire” si potrebbe invece studiare a Scienze Politiche, è un manuale attendibile di Storia delle idee o di Scienza della politica, oltre che una storia a sorpresa di violenze. È il manifesto reale dell’antipolitica, di una umanità sazia e indifferente, paranoica perciò, a partire dalla famiglia: i coniugi, i figli, i padri. Inquietante però: tanto modernismo invera la filosofia tradizionalista, di Guénon che lo disse una Grande Congiura, del Gabriel Marcel di “Essere e avere”. Gli oggetti si animano, le persone diventano gli oggetti che adorano, come in qualsiasi transfert religioso, ma quanto ristretto. Ballard ci mette del suo, che alla fine, del romanzo e della vita, lega la libertà al fascismo. Il “ritorno alla normalità” alla fine del romanzo è la tv che dà consigli per la casa e organizza gruppi di lettura: “Quando la gente comincia a infervorarsi parlando di romanzi ogni speranza di libertà è morta”, ghigna lo scrittore: “L’unica vera possibilità di una repubblica fascista era svanita insieme ai completi da uomo e le moquette e i tappeti a metà prezzo”.
J.C.Ballard, Regno a venire, Feltrinelli, pp. 293, € 9,50