Né Berlusconi né i suoi si sono mostrati particolarmente interessati alla compravendita di deputati per rifare la maggioranza. Ottenuta la possibilità di sfangarla ancora per un mese, puntano alle elezioni in febbraio o marzo. Bossi non è solo, anche Berlusconi è sicuro di rivincerle. Per di più liberandosi, dopo Casini, anche di Fini: tutto il Nord e (quasi) tutto il Sud, con l’esclusione forse della Puglia, lo rivoterebbe.
È un paradosso, ma non troppo, degli ultimi sviluppi. Il governo tecnico, o di minoranza, o di emergenza, insomma il ribaltone, ammesso che Di Pietro vada a votare con Fini (a “reggergli la candela”, come dice l’ex giudice), è prerogativa del presidente della Repubblica. E Napolitano non vuole passare come l’altro presidente che scioglie le Camere quando vuole. Ma sa anche che, se non ci sarà più fra un mese il governo Berlusconi, non ci potrà essere il governo tecnico o di emergenza, senza Berlusconi. Cioè, non c’è alternativa, a meno che Berlusconi non decida di attivarsi con la compravendita.
E qui interviene l’altro paradosso, che si corrobora e si eternizza, quello della sinistra vittima della sua stessa propaganda - che è una maniera per dire che è rappresentata da incapaci: con tutto l'odio e il disprezzo per Berlusconi, incapaci di opporgli una benché minima mossa. La campagna contro la compravendita porterà alle elezioni fra tre mesi. Che è ciò che la sinistra assolutamente non dovrebbe fare: affrontare una campagna elettorale divisa in una diecina di pezzi, dato che rientrerà in gioco la sinistra cosiddetta alternativa. Con un partito Democratico in piena bagarre – mai partito ha sentito così forte il peso dei localismi. E con un Centro polimorfo, Fini-Casini-Rutelli, che potrebbe non mordere nell’area berlusconiana, e quindi non portare voti, mentre pone sicuramente problemi di desistenze e apparentamenti, seppure informali.
Una sinistra peraltro che, con la comparsata di Fini e Bersani da Fazio, due povere veline seccagne, è in realtà succube del modo di essere dello spettacolo. Che tutto risolve in una sghignazzata, eccetto il voto. Delle manifestazioni continue, senza nerbo, rituali, prima la scuola, poi la Fiom, poi magari la Cgil, poi le insegnanti della scuola. E delle primarie. Un totem adottato nell’americanizzazione veltroniana affrettata del partito Democratico, ma senza regole e senza succo: le vincono solo le minoranze, normalmente più organizzate. Costo del lavoro? Mercato del lavoro? Produttività? Concorrenzialità? Perequazione della previdenza? Politiche dell’immigrazione? Sprechi e inefficienze della Pubblica Amministrazione? Sono cose che farebbero crollare la audience.
sabato 20 novembre 2010
Come Dell’Utri si è fatto Berlusconi
Un giudice che condanna un senatore per mafia, non in concorso esterno, proprio come mafioso integrale, si suppone che sia certo. Non che ci impieghi centocinquanta giornate e 641 pagine, “Guerra e pace”, per motivare la sua condanna, quante ne ha richieste il dottor Dell’Acqua. E che motivazione: “proteggere” Berlusconi a Milano, tramite la mafia… E chi minacciava Berlusconi? Trentacinque anni fa. Un giudice che consente ai giornali d’intitolare: “Berlusconi sfruttato per vent’anni da Dell’Utri doppiogiochista”. Che sembra troppo, anche se in armonia col sentire siculo, che Palermo domina il mondo. Un’altra verità ci dev’essere, che il giudice per prudenza avrà tenuto nascosta.
Anti.it, l’ occhio della verità, la sa tutta e la racconterà. Ma per il necessario riserbo la presenterà in forma di apologo. Il dottor Dell’Acqua formalmente dà per vero ciò che racconta un pentito, Francesco Di Carlo, uno che era in carcere in Inghilterra e per uscirne pensò di diventare pentito in Italia. Prima dicendo la verità su uno spinoso caso italo-inglese, quello del banchiere Calvi. Poi, non avendone ottenuto beneficio, dicendo la verità su Berlusconi. In un primo momento rivelò che Berlusconi trafficava cocaina, era al centro del traffico con i narcos colombiani. Infine scoprì, lui non siciliano, che la mafia rende di più, essendo cosa siciliana. Ma Di Carlo è l’uomo dello schermo del dottor Dell’Acqua - allo stesso modo lo stesso giudice ha utilizzato Spatuzza, in una tstimonianza spettacolare in giro per l'Italia, con corteo di televisioni e giornalisti, e ora lo dice inattendibile (Spatuzza cliente del caffé Doney a Roma effettivamente è poco credibile: i camerieri avrebbero subito chiamato il 112). La verità è questa.
C’è una faglia nel discorso di Ciancimino figlio – che non si può chiamare collaborazione, lui è uno pulito, come anti.it e forse di più guardiano della verità. O si può pensare che una cosa non gli sia riuscita, anche se gestisce i giudici di mezza Sicilia: trovare un legame di sangue, se non di vera e propria associazione mafiosa, tra Dell’Utri e suo padre, il sindaco mafioso Ciancimino vero, che facedo costruire Palermo, con la mafia, è diventato miliardario, in euro. Più di Dell'Utri. Ciancimino figlio non ci ha pensato? Ci pensi, si divertirà altri vent’anni. Una cuginanza non è difficile da trovare a Palermo. Perché, sennò, che ci faceva Dell’Utri a Milano?
Dell’Utri è andato a Milano per agganciare Berlusconi. I due giovanotti erano delle perfette nullità nel 1970, ma la mafia aveva bisogno di occupare l’etere, e formare un proprio picciotto in doppiopetto per occupare la presidenza del consiglio, i media, l’editoria, le assicurazioni, e insomma allargarsi. L’etere libero ancora non c’era nel 1970, ma la mafia previdente occupava le posizioni. Dunque, disse Dell’Utri agli altri picciotti a Palermo e allo zio o cugino Ciancimino: “Vado a Milano, dove c’è un fesso…”. Poi, giacché si è trovato lì, con la mano sinistra, perché i siciliani sono un po’ come Dio, annoiati, ha portato il mercato pubblicitario da mille a dodicimila miliardi, l’anno. Poi, stanco della pubblicità, ha creato il maggiore partito politico dell’Italia. Nel quale la mafia non è voluta entrare perché è racée, ha orrore dei partiti di plastica…
Per ricapitolare. Dell’Utri è il consigliori del Ciancimino vero, il padre, di cui gestisce l’inafferrabile patrimonio tra i Caraibi e l’Estremo Oriente, con le mafie locali. Un lontano cugino. Spedito a controllare Milano con la corda corta della cocaina, di cui è 9606
impunito sniffatore. Ciancimino figlio non lo dice, non ancora, perché spera di recuperare il patrimonio, ma lo sa – come pure i giudici.
La prova maestra che Dell’Utri è il capo di Cosa Nostra, seppure subordinatamente a Ciancimino prima e a Provenzano e Ciancimino figlio poi, è però un’altra: che non va a donne. Un uomo serio non va a donne. Ma di questo non si può appunto parlare, perché… Insomma, e se Dell’Utri è gay? Ora, tutto si può dire della mafia, ma non che è politicamente scorretta: di queste cose non parla.
E così, l'avrete capito da soli, l’Assise d’Appello di Palermo ha fatto un’ottima sentenza che la Cassazione dovrà cassare.
Anti.it, l’ occhio della verità, la sa tutta e la racconterà. Ma per il necessario riserbo la presenterà in forma di apologo. Il dottor Dell’Acqua formalmente dà per vero ciò che racconta un pentito, Francesco Di Carlo, uno che era in carcere in Inghilterra e per uscirne pensò di diventare pentito in Italia. Prima dicendo la verità su uno spinoso caso italo-inglese, quello del banchiere Calvi. Poi, non avendone ottenuto beneficio, dicendo la verità su Berlusconi. In un primo momento rivelò che Berlusconi trafficava cocaina, era al centro del traffico con i narcos colombiani. Infine scoprì, lui non siciliano, che la mafia rende di più, essendo cosa siciliana. Ma Di Carlo è l’uomo dello schermo del dottor Dell’Acqua - allo stesso modo lo stesso giudice ha utilizzato Spatuzza, in una tstimonianza spettacolare in giro per l'Italia, con corteo di televisioni e giornalisti, e ora lo dice inattendibile (Spatuzza cliente del caffé Doney a Roma effettivamente è poco credibile: i camerieri avrebbero subito chiamato il 112). La verità è questa.
C’è una faglia nel discorso di Ciancimino figlio – che non si può chiamare collaborazione, lui è uno pulito, come anti.it e forse di più guardiano della verità. O si può pensare che una cosa non gli sia riuscita, anche se gestisce i giudici di mezza Sicilia: trovare un legame di sangue, se non di vera e propria associazione mafiosa, tra Dell’Utri e suo padre, il sindaco mafioso Ciancimino vero, che facedo costruire Palermo, con la mafia, è diventato miliardario, in euro. Più di Dell'Utri. Ciancimino figlio non ci ha pensato? Ci pensi, si divertirà altri vent’anni. Una cuginanza non è difficile da trovare a Palermo. Perché, sennò, che ci faceva Dell’Utri a Milano?
Dell’Utri è andato a Milano per agganciare Berlusconi. I due giovanotti erano delle perfette nullità nel 1970, ma la mafia aveva bisogno di occupare l’etere, e formare un proprio picciotto in doppiopetto per occupare la presidenza del consiglio, i media, l’editoria, le assicurazioni, e insomma allargarsi. L’etere libero ancora non c’era nel 1970, ma la mafia previdente occupava le posizioni. Dunque, disse Dell’Utri agli altri picciotti a Palermo e allo zio o cugino Ciancimino: “Vado a Milano, dove c’è un fesso…”. Poi, giacché si è trovato lì, con la mano sinistra, perché i siciliani sono un po’ come Dio, annoiati, ha portato il mercato pubblicitario da mille a dodicimila miliardi, l’anno. Poi, stanco della pubblicità, ha creato il maggiore partito politico dell’Italia. Nel quale la mafia non è voluta entrare perché è racée, ha orrore dei partiti di plastica…
Per ricapitolare. Dell’Utri è il consigliori del Ciancimino vero, il padre, di cui gestisce l’inafferrabile patrimonio tra i Caraibi e l’Estremo Oriente, con le mafie locali. Un lontano cugino. Spedito a controllare Milano con la corda corta della cocaina, di cui è 9606
impunito sniffatore. Ciancimino figlio non lo dice, non ancora, perché spera di recuperare il patrimonio, ma lo sa – come pure i giudici.
La prova maestra che Dell’Utri è il capo di Cosa Nostra, seppure subordinatamente a Ciancimino prima e a Provenzano e Ciancimino figlio poi, è però un’altra: che non va a donne. Un uomo serio non va a donne. Ma di questo non si può appunto parlare, perché… Insomma, e se Dell’Utri è gay? Ora, tutto si può dire della mafia, ma non che è politicamente scorretta: di queste cose non parla.
E così, l'avrete capito da soli, l’Assise d’Appello di Palermo ha fatto un’ottima sentenza che la Cassazione dovrà cassare.
venerdì 19 novembre 2010
Letture - 45
letterautore
Autore – Per metà è il suo critico. Che sarebbe J.Roth senza Magris, Canetti senza Calasso, Kafka senza Brod?
Civile, letteratura - Di letteratura civile, di cui sempre si lamenta l’assenza, l’Italia è spoglia giusto negli ultimi trenta-quarant’anni, dalla morte di Pasolini. Si fa ora letteratura per vendere, sui generi che sul mercato tirano, semplificati alla lettura, il giallo, il noir, il fantasy, l’internazionale (il vecchio Salgari), il minimale. Ma prima si può dire che c’è solo letteratura civile. Più vicini a noi, nell’Ottocento: Parini, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Pellico, Carducci, Verga. Nel primo Novecento: Pascoli, D’Annunzio, Croce. Negli anni del fascismo, i più fertili: Montale, Gramsci, Gobetti,Carlo Rosselli, Silone, Alvaro, Lussu, Borgese, Vittorini, ancora Croce. Nel secondo dopoguerra: l’invadente neo realismo, Pasolini, Calvino, ancora Vittorini, perfino Gadda, Brancati, Flaiano, Loganesi, Piovene, Carlo Levi, Arbasino, il Gruppo ’63. Soffoca e muore col Sessantotto: il Sessantotto ha prodotto un alcolismo rapido, presto cirrosi.
Se se ne sente la mancanza ciò è dovuto alla sua ineffettualità. Non c’è un “J’accuse” risolutivo alla Zola in tutta la letteratura italiana, né un Proust che da solo modella la civiltà, se non la storia - impone un mondo, che in sé è crepuscolare, e anzi squallido (nulla a che vedere con i superbi salotti del Settecento, del Seicento). È la società italiana refrattaria? No, è anzi troppo corriva, succube come si vede perfino dei surrogati televisivi. È la letteratura civile insufficiente: bolsa, retorica, lagnosa, anche degli emigrati e dei proscritti – nulla che si avvicini al “Doktor Faustus” o ai saggi di Thomas Mann.
Cultura – Scrive Montale a proposito di Ezra Pound e degli altri americani esiliati volontari in Europa – tra essi Eliot, Hemingway, Henry James, Henry Miller, Gertrude Stein… : “I nostri futuristi erano ignoranti ma saturi di cultura implicita, Pound e compagni erano invece colti, ma ricchi di una cultura da abregé, da corsi accelerati, da scuole serali”.
Implicita cioè “materiale” (Braudel). C’è una cultura per accumulo. Un contadino toscano, Pacciani incluso, ha più modo e riferimenti culturali (echi, tradizioni, vita di relazione) di un bracciante pugliese. Ma gli americani non ne sono sprovvisti, al contrario, hanno fatto e stanno nuovamente facendo grande conto della tradizione.
Ma davvero Montale crede all’americano (Hemngway, Steinbeck, Fulkner) naïf dell’approssimazione vittoriniana (pavesiana?)? Più probabilmente crede alla cultura libresca per accumulo – di cui peraltro gli americani non difettano, Pound è ottimo lettore di Dante, di Properzio, di Cavalcanti. Ma quella è erudizione. La cultura è sempre un movimento in avanti. Non necessariamente da scattista, anche da fondista, anche da marciatore. Non necessariamente movimentista, e con ottimi risultati anche conservatrice. Ma non masturbatoria in surplace.
La cultura è un passo in avanti, inarrestabile. Perché anzitutto è essere vivi. La tradizione e l’erudizione non vivono per se stesse.
D’Annunzio – Cavalli sauri, cani levrieri, seterie, bric-à-brac, profumi: l’armamentario è al gusto del demi-monde parigino, delle lionnes, del Secondo Impero. Un po’ attardato dunque. È per questo che sa di polveroso – che l’avrebbe atterrito. Come la politica, atteggiata: il passaggio a sinistra, l’interventismo, l’aviazione, Fiume.
Diario – Predisposizione di nodi (intrecci) per non uscirne – non uscire dalla rappresentazione di se stessi, che non è propriamente conoscenza. Moltiplica i piani (è il metodo della psicanalisi) per non arrivavate allo scoperto. Che forse non interesserebbe a nessuno: il privato va romanzato, bisogna saperlo raccontare, cioè organizzare.
Don Giovanni – Cacciatore di fiche, lo dice Anaïs Nin. Cacciatore: quindi inesausto, insaziabile.
Da legare alla cultura patriarcale? Maschile, forse, quella che lega amore e morte l’amore si estingue nel momento in cui si realizza, quando è inteso come caccia, si è innamorati fino a quando il desiderio è vivo, cioè non è arrivato a soddisfazione. Per poi rinascere: la cultura del fare.
Con una debolezza, non propriamente patriarcale. È l’insoddisfazione che nasce dalla soddisfazione del desiderio. Un quetzcoatl interrotto. Il desiderio ha una caduta di tensione quando si realizza: l’evento è sempre inferiore alle attese (succedeva anche nei vecchi fidanzamenti, non dongiovanneschi, che duravano dieci anni, si compivano quando non c’era più materia). Le rilancia, certo, ma troppi avanzamenti comportano troppe cadute, si diventa così scontenti e nervosi.
Einaudi – Fra Giulio e il padre Luigi c'è un abisso. E tuttavia Einaudi, per la cultura italiana, è Giulio, che non aveva idee, se non, quasi tutte, sbagliate. Eccetto quella dell’organizzazione imprenditoriale, del mercato. E ancora: vendere idee ala maniera di Giulio Einaudi, in cui cioè non si crede, è puro prossenetismo: è mettere le idee col culo di fuori, per farle un attimo più attraenti, quell’attimo che cattura la spesa.
Endecasillabo - È ritmo, una misura che si ricrea, differente e costante. Trascina instancabilmente, è narrativo – il flusso del dire.
Giallo – Il suo primo e principale ingrediente è l’enigma (rompicapo, puzzle, mistero). La sua prima formulazione è la Sfinge – e Oreste.
Heidegger – Hannah Arendt che gli rimane fedele – rimane fedele a un uomo donnaiolo e sgradevole – non è la filosofa, né l’intellettuale, né l’ebrea succube: è la “buona moglie” tedesca di Stendhal. Non c’è altra spiegazione: benché colta e impegnata, e sensibile al corteggiamento, è fedele, al primo amore e all’amore considerato come una virtù in se stesso, “qualcosa di mistico”.
Indiscrezione – Rovina la sorpresa. L’Italia, che già al tempo d Stendhal aveva un gusto particolare per l’indiscrezione, con cui spogliava generali, ministri, sovrani, e signore, è per questo un paese sena meraviglia. Quindi senza spirito d’avventura e senza romanzo Senza passione anche, checché ne pensasse Stendhal: si fa ammuina (passione e intelligenza fanno capolino negli intervali, una forma di resistenza. L’Italia, cioè Milano e Roma, allora come ora.
Il pettegolezzo è stato qui molto prima del gossip. Specie nelle dispute letterarie, da Foscolo ad Arbasino. Il pettegolezzo anticipa, e avvilisce, la sorpresa. È un dato “genetico” – caratteriale, della lunga durata della storia? Oppure un quetzalcoatl svegliato a un certo momento e che da allora si mangia la coda? Questo potrebbe essere materia di un romanzo storicizzato, ora che il pettegolezzo è un fatto mondiale, con il ritorno alla cultura orale in un contesto di simultaneità.
Informazione – l proprio dell’informazione è dei servizi segreti. Dei professionisti, cioè, del silenzio e della dissimulazione. O della simulazione.
Intellettuale – Se è comunista, anche democrat, è prevedibilissimo: per lui sta tutto scritto, per gli economisti tutti, specie del lavoro, per gli storici e per i letterati, anche per Asor Rosa o Cacciari, perfino per Canfora. Da qui il senso di uneasiness che essi danno. E la marginalità politica della cultura nella Repubblica. Che più spesso è impoverimento della cultura stessa, come si vede all’università e negli studi umanistici negli ultimi decenni (filosofia, critica letteraria, storia, antropologia, sociologia): dovendo costituire una biblioteca non si saprebbe che tenere, poco.
Proust – La bellezza proustiana sa di Breughel. Anzi di Bosch. Quando è riposata fa intravedere Manet, e solo salva le principesse mamme.
letterautore@antiit.eu
Autore – Per metà è il suo critico. Che sarebbe J.Roth senza Magris, Canetti senza Calasso, Kafka senza Brod?
Civile, letteratura - Di letteratura civile, di cui sempre si lamenta l’assenza, l’Italia è spoglia giusto negli ultimi trenta-quarant’anni, dalla morte di Pasolini. Si fa ora letteratura per vendere, sui generi che sul mercato tirano, semplificati alla lettura, il giallo, il noir, il fantasy, l’internazionale (il vecchio Salgari), il minimale. Ma prima si può dire che c’è solo letteratura civile. Più vicini a noi, nell’Ottocento: Parini, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Pellico, Carducci, Verga. Nel primo Novecento: Pascoli, D’Annunzio, Croce. Negli anni del fascismo, i più fertili: Montale, Gramsci, Gobetti,Carlo Rosselli, Silone, Alvaro, Lussu, Borgese, Vittorini, ancora Croce. Nel secondo dopoguerra: l’invadente neo realismo, Pasolini, Calvino, ancora Vittorini, perfino Gadda, Brancati, Flaiano, Loganesi, Piovene, Carlo Levi, Arbasino, il Gruppo ’63. Soffoca e muore col Sessantotto: il Sessantotto ha prodotto un alcolismo rapido, presto cirrosi.
Se se ne sente la mancanza ciò è dovuto alla sua ineffettualità. Non c’è un “J’accuse” risolutivo alla Zola in tutta la letteratura italiana, né un Proust che da solo modella la civiltà, se non la storia - impone un mondo, che in sé è crepuscolare, e anzi squallido (nulla a che vedere con i superbi salotti del Settecento, del Seicento). È la società italiana refrattaria? No, è anzi troppo corriva, succube come si vede perfino dei surrogati televisivi. È la letteratura civile insufficiente: bolsa, retorica, lagnosa, anche degli emigrati e dei proscritti – nulla che si avvicini al “Doktor Faustus” o ai saggi di Thomas Mann.
Cultura – Scrive Montale a proposito di Ezra Pound e degli altri americani esiliati volontari in Europa – tra essi Eliot, Hemingway, Henry James, Henry Miller, Gertrude Stein… : “I nostri futuristi erano ignoranti ma saturi di cultura implicita, Pound e compagni erano invece colti, ma ricchi di una cultura da abregé, da corsi accelerati, da scuole serali”.
Implicita cioè “materiale” (Braudel). C’è una cultura per accumulo. Un contadino toscano, Pacciani incluso, ha più modo e riferimenti culturali (echi, tradizioni, vita di relazione) di un bracciante pugliese. Ma gli americani non ne sono sprovvisti, al contrario, hanno fatto e stanno nuovamente facendo grande conto della tradizione.
Ma davvero Montale crede all’americano (Hemngway, Steinbeck, Fulkner) naïf dell’approssimazione vittoriniana (pavesiana?)? Più probabilmente crede alla cultura libresca per accumulo – di cui peraltro gli americani non difettano, Pound è ottimo lettore di Dante, di Properzio, di Cavalcanti. Ma quella è erudizione. La cultura è sempre un movimento in avanti. Non necessariamente da scattista, anche da fondista, anche da marciatore. Non necessariamente movimentista, e con ottimi risultati anche conservatrice. Ma non masturbatoria in surplace.
La cultura è un passo in avanti, inarrestabile. Perché anzitutto è essere vivi. La tradizione e l’erudizione non vivono per se stesse.
D’Annunzio – Cavalli sauri, cani levrieri, seterie, bric-à-brac, profumi: l’armamentario è al gusto del demi-monde parigino, delle lionnes, del Secondo Impero. Un po’ attardato dunque. È per questo che sa di polveroso – che l’avrebbe atterrito. Come la politica, atteggiata: il passaggio a sinistra, l’interventismo, l’aviazione, Fiume.
Diario – Predisposizione di nodi (intrecci) per non uscirne – non uscire dalla rappresentazione di se stessi, che non è propriamente conoscenza. Moltiplica i piani (è il metodo della psicanalisi) per non arrivavate allo scoperto. Che forse non interesserebbe a nessuno: il privato va romanzato, bisogna saperlo raccontare, cioè organizzare.
Don Giovanni – Cacciatore di fiche, lo dice Anaïs Nin. Cacciatore: quindi inesausto, insaziabile.
Da legare alla cultura patriarcale? Maschile, forse, quella che lega amore e morte l’amore si estingue nel momento in cui si realizza, quando è inteso come caccia, si è innamorati fino a quando il desiderio è vivo, cioè non è arrivato a soddisfazione. Per poi rinascere: la cultura del fare.
Con una debolezza, non propriamente patriarcale. È l’insoddisfazione che nasce dalla soddisfazione del desiderio. Un quetzcoatl interrotto. Il desiderio ha una caduta di tensione quando si realizza: l’evento è sempre inferiore alle attese (succedeva anche nei vecchi fidanzamenti, non dongiovanneschi, che duravano dieci anni, si compivano quando non c’era più materia). Le rilancia, certo, ma troppi avanzamenti comportano troppe cadute, si diventa così scontenti e nervosi.
Einaudi – Fra Giulio e il padre Luigi c'è un abisso. E tuttavia Einaudi, per la cultura italiana, è Giulio, che non aveva idee, se non, quasi tutte, sbagliate. Eccetto quella dell’organizzazione imprenditoriale, del mercato. E ancora: vendere idee ala maniera di Giulio Einaudi, in cui cioè non si crede, è puro prossenetismo: è mettere le idee col culo di fuori, per farle un attimo più attraenti, quell’attimo che cattura la spesa.
Endecasillabo - È ritmo, una misura che si ricrea, differente e costante. Trascina instancabilmente, è narrativo – il flusso del dire.
Giallo – Il suo primo e principale ingrediente è l’enigma (rompicapo, puzzle, mistero). La sua prima formulazione è la Sfinge – e Oreste.
Heidegger – Hannah Arendt che gli rimane fedele – rimane fedele a un uomo donnaiolo e sgradevole – non è la filosofa, né l’intellettuale, né l’ebrea succube: è la “buona moglie” tedesca di Stendhal. Non c’è altra spiegazione: benché colta e impegnata, e sensibile al corteggiamento, è fedele, al primo amore e all’amore considerato come una virtù in se stesso, “qualcosa di mistico”.
Indiscrezione – Rovina la sorpresa. L’Italia, che già al tempo d Stendhal aveva un gusto particolare per l’indiscrezione, con cui spogliava generali, ministri, sovrani, e signore, è per questo un paese sena meraviglia. Quindi senza spirito d’avventura e senza romanzo Senza passione anche, checché ne pensasse Stendhal: si fa ammuina (passione e intelligenza fanno capolino negli intervali, una forma di resistenza. L’Italia, cioè Milano e Roma, allora come ora.
Il pettegolezzo è stato qui molto prima del gossip. Specie nelle dispute letterarie, da Foscolo ad Arbasino. Il pettegolezzo anticipa, e avvilisce, la sorpresa. È un dato “genetico” – caratteriale, della lunga durata della storia? Oppure un quetzalcoatl svegliato a un certo momento e che da allora si mangia la coda? Questo potrebbe essere materia di un romanzo storicizzato, ora che il pettegolezzo è un fatto mondiale, con il ritorno alla cultura orale in un contesto di simultaneità.
Informazione – l proprio dell’informazione è dei servizi segreti. Dei professionisti, cioè, del silenzio e della dissimulazione. O della simulazione.
Intellettuale – Se è comunista, anche democrat, è prevedibilissimo: per lui sta tutto scritto, per gli economisti tutti, specie del lavoro, per gli storici e per i letterati, anche per Asor Rosa o Cacciari, perfino per Canfora. Da qui il senso di uneasiness che essi danno. E la marginalità politica della cultura nella Repubblica. Che più spesso è impoverimento della cultura stessa, come si vede all’università e negli studi umanistici negli ultimi decenni (filosofia, critica letteraria, storia, antropologia, sociologia): dovendo costituire una biblioteca non si saprebbe che tenere, poco.
Proust – La bellezza proustiana sa di Breughel. Anzi di Bosch. Quando è riposata fa intravedere Manet, e solo salva le principesse mamme.
letterautore@antiit.eu
Il mondo com'è - 49
astolfo
Antipolitica - Ha fatto il suo tempo, tutto lo indica, dopo vent’anni inconcludenti. Se era il segno di un’epoca, del consumismo, della disattenzione, del marketing, ha fallito – o allora l’epoca non è tale (ma lo è, il consumismo è ben vivo e durevole, è l’antipolitica italiana che non è niente). La vecchia politica si era anchilosata al morso stretto di giganteschi apparati di partito, nazionali e locali (i federali…). I segretari di partito contavano più dei capi di governo, e i segretari di federazione ben più dei parlamentari e dei ministri espressi localmente. L’ha sostituita la politica dei talk show. Un teatrino sorridente, ghignante, beato di sé, sempre dal lato giusto della faccia, ma ripetitivo, inconcludente, e anche insulso, di attori di terz’ordine. Agli ordini di piccoli mattatori di cui il prototipo e il principe è Santoro, che non è il mignolo di un Gassmann o di un Sordi. Tutti peraltro fatti con lo stampino, Fazio, Floris, Santoro, Lerner, o le vestali fuori orario Annunziata, Dandini, Berlinguer. Mentre Vespa è relegato verso la mezzanotte, e gli altri all’alba. Per non dire dei loro comici, stupefacenti: tutti da centralismo democratico, ma di tipo brezneviano, se la Rai li mandasse al mercato andrebbero a ruba, come il berretto verde con la stella rossa del presidente Mao. Il loro pubblico è lo stesso, che ogni sera trasmigra da un condottiero all’altro: quattro-cinque milioni di persone, quanto bastano al giochino auditel, ma sono il 10 per cento degli elettori e non spostano, cioè sono sempre gli stessi – buona parte dei quali sono peraltro di destra, stanno lì per “rosicare” e indignarsi.
I segni di stanchezza, se non di un rovesciamento, sono numerosi. La legge elettorale toscana, assunta da Berlusconi per il voto politico nazionale, ha tentato il rovesciamento di forza della tendenza, rimettendo al centro i partiti. Che però non sanno essere altro che centralismo democratico. Ora si ripropone la preferenza, per salvare qualcosa dell’uninominale, della scelta diretta del rappresentante parlamentare col voto. Ma più potrebbe pesare la rivolta generazionale. Mentre si “vede” sempre più il bluff dell’informazione, in questi anni al di sotto di ogni minima deontologia: si vede nel calo persistente delle vendite prima che della credibilità.
Capitalismo – Viene identificato con il mercato, ma c’è confusione: più spesso va contro il mercato.
Il problema delle sue origini è tipico dell’Ottocento, e riguarda la “giustificazione” della borghesia ormai dominante in Europa - con la riforma napoleonica die codici, la monarchia di luglio, le riforme costituzionali, le cancellazioni dei rotten boroughs – e del liberalismo politico. In questo senso evolve nei paesi latini (v. in Francia Groethuysen), con qualche eco in Germania, in senso anticattolico e pro-Riforma, o pro-ebraismo, nei quali le massonerie trovavano libero spazio sotto forma di libero pensiero. Ma l’accumulazione non è un fatto protestante, o ebraico. Anhe la lbertà politica, malgrado un secolo e mezzo di reazione al modernismo, e quindi di forte tradizionalismo, non è meno cattolica.
La polemica anticattolica nasce in ambiente libero pensatore soprattutto in senso antigesuitico, contro cioè le posizioni di potere che i gesuiti avevano prima della rivoluzione e tentarono di ricreare dopo, attraverso la formazione dei giovani e la guida spirituali dei principi, e delle principesse. È una polemica politica, che nulla ha a che fare con l’accumulazione.
È (però) vero che il tradizionalismo, quando non l’oscurantismo, della Chiesa nell’Ottocento la mettono fuori della modernità, e cioè del capitalismo. Recupererà a fine secolo con la mutualità, col decentramento amministrativo, e in campo creditizio e assisten ziale. La mutualità sociale sarà dei socialiusti, e i cattolici la copoano, non hnno difficoltà a farla propria. Quella bacnaria invece, e finanziaria, sarà un’innovazione cattolca, lungo l’asse Olanda-Belgio,Germania meridionale-Austria-Italia del Nord-Est.
È stato, è, una forma di rottura della tradizione. Che è l’equilibrio sociale e psicologico, di valori progressivamente messi a punto, o senso della misura. Ma a fini prevalentemente di profitto, e quindi conservatore. Anche quando patrocina e impone il cambiamento. L’età del capitalismo è l’età della solitudine, sotto forma di individualismo. Della nevrosi cioè e dell’alienazione. Della violenza anche senza freni, contro se stessi e ogni altro, nel mondo e in famiglia, anche in forme non dissennate, oppure quiete.
Il cattolicesimo, in un certo senso, l’ha interpretato meglio, se non domato, perché riesce a far convivere tradizione e capitalismo, perfino tradizione e mercato.
Si accomoda a tutto, al lusso e alla prodigalità come all’avarizia. Nessuna novità lo scoraggia. Solo il rifiuto della novità. Cioè, non il rifiuto, che è anch’esso un progetto (che affare la tradizione), ma l’abbandono, l’incuria. Si dice conservatore e lo è, nel senso che vuole conservata la proprietà, ma ha bisogno di novità, di cambiare costantemente. Vuole il laissez faire ma non sopporta il laissez aller: vuole iniziativa – in politica cioè leadership. È però, al suo interno, eversivo – come la mafia: costantemente morto e rinascente.
Democrazia Cristiana - È, è stata, cattolica ma non clericale. Nella sanità, nella scuola non ha mai protetto le clini che e le scuole religiose, salvo che nel primo centro-sinistra di Moro. Gli ordini religiosi e i vescovi rientrano nella sanità e nella scuola, e conquistano il nuovo importantissimo Terzo settore, della socialità, con D’Alema e Berlsuconi. È stata, è, il partito del democraticismo radicale. Anzi totale, poiché sommerge ogni altro soggetto o istanza. Dapprima con l’edilizia abitativa: il sacco di Roma coi nuovi quartieri negli anni 1950, la deturpazione di Firenze con le sopraelevazioni consentite negli anni 1950-1960, e con l’abusivismo successivamente dilagante al Sud, con le migliorate condizioni di reddito, non governato e anzi stimolato, in Campania, in Calabria, a Palermo, Agrigento, Messina. Poi con il “posto”: il diritto a una retribuzione anche in assenza di prestazione o competenze specifiche, un “salario dì ingresso” che poi diventa a vita. Ed è tuttora la norma, il posto senza lavorare, malgrado i tornelli e i controlli dei carabinieri, negli uffici giudiziari e delle stesse forze dell’ordine (allo sportello non c’è mai nessuno), e in quelli locali (regionali, provinciali, comunali: chiunque deve fare una pratica lo sa). Prodi ne ha fatto il capolavoro nel 1996 con i lavoratori socialmente utili, che hanno gravato le casse dei Comuni di frotte di senza mestiere nullafacenti, per di più insoddisfatti del “misero” trattamento.
Potere – Se ne può indebolire l’autorità, dice Tocqueville, in due modi: attaccandolo nel suo stesso principio (l’anarchia) o frazionandone l’esercizio. Ma c’è un terzo modo: misconoscerlo nei fatti, disobbedendo sotto la parvenza della legalità. È Mani Pulite.
Vienna – È la Terra di Mezzo della fantasy. E la dilettazione della nostalgia. La Vienna degli Asburgo non era quella che vuole la vulgata, da Magris a Arbasino e ai leghisti, dagli ebrei esuli a Schorske e Toulmin. Chi poteva scappava. Chi restava si sentiva in trappola: non c’era buongoverno, e non c’era lealtà. Il celebrato spirito viennese non è Johann Strauss e il concerto di Capodanno, ma uno sofisticato, cosmopolita, multinazionale. Specie per la minoranza ebraica, che vi costituì un focolare d’eccellenza, nelle arti, la musica, nel pensiero, la poesia anche, il più vivace e memorabile. Se non che l’antisemitismo era altrettanto forte, e durevole - ancora dopo la guerra, Ingeborg Bachmann può dirlo sentito e partecipato ("Tre sentieri per il lago"). Grande centro musicale, gratificato dell’orecchio perfetto, che però esercitava ed esercita un incongruo colonialismo in Europa. C’erano certo delle idee, ma ce n’erano dappertutto. Vienna è il luogo degli “Ultimi giorni dell’umanità” di Karl Kraus, “stazione meteorologica della fine del mondo”, in questo enorme (abnorme), come l’autore degli “Ultimi giorni” stessi. E il mondo non va peggio senza Vienna.
Si può dirla anche in breve. Wittgenstein che esce di sala, a un concerto, per non ascoltare la “Salome” di Strauss. Le riserve di Popper su tutto ciò che è viennese. La ferocia di Karl Kraus, che peraltro vi era isolato. La fuga di Roth. La capitale della nostalgia, della grande Austria Felix, si reggeva per un terzo della sue finanze sul Lombardo-Veneto, che aveva avuto cura di annettersi nel 1815 al concerto delle potenze, un territorio che era forse un ventesimo di tutto il glorioso impero, e una popolazione che non era più di un settimo-un sesto del totale: davvero provvida?
La Grande Vienna è una brillantissima operazione editoriale. In sé è non più di quanto ne dice Ingeborg Bachmann alla p. 1 de “Il caso Franza”: “Si può dimostrare che Vienna c’è, anche se non si riesce a coglierla con una sola parola perché Vienna è qui sulla carta e la città di Vienna è continuamente altrove e cioè a 48° 14’’ e 54’’ latitudine nord e a 16° 21’’ e 42’’ longitudine est”. Vienna, Magris potrebbe dire come di Trieste, “multiculturale, crocevia e crogiolo di civiltà diverse, è insieme una realtà e un mito ingannevole”. Ma c’è di più.
“Vienna” è la ricostituzione (l’invenzione della tradizione) di un’equidistanza tra Est e Ovest al tempo della “guerra civile” del Novecento, dal 1914 al 1989. Un desiderio di tirarsene fuori, fuori dallo scontro, fuori dalla miseria morale, fuori anche dalla violenza. Quanti coltelli (odi, revanscismi, vendette) nella Mitteleuropa vera. Come Claudio Magris testimonia a Praga, per esempio, in “Praga al quadrato” (ora nella raccolta “Alfabeti”), che la Mitteleuropa dice “grandezza vissuta nella fine e anzi quale fine”. Ma a Vienna, si direbbe, ben più che a Praga, città della Resistenza, molteplice: un Anschluss che fu un tripudio, con un referendum plebiscitario, e una moltitudine poi di willing executioners, carnefici volenterosi, di ebrei e assimilati, dopo l’antifascismo di Dollfuss, con i lager per tutti, chiunque avesse una idea politica.
L’idea però piace, l’ipostasi del Centro, dell’aureo medio, un piccolo paradiso della zona grigia. Anche nei valori vantati: sobrietà, Witz, piccoli amori, spassionati. Che non sono quelli della Vienna storica, arrogante, classista (razzista), anche intollerante. Di cui Joseph Roth diceva: “È la capitale delle illimitate impossibilità” – del Paese, è vero, “delle possibilità illimitate”. E non sono quelli degli scrittori, Ransmayr, Bernhard, soprattutto delle scrittrici, figlie di nazisti professi, Ingeborg Bachmann, le due Nobel Jelinek e Helga Mueller (emigrata questa in Germania, ma ex Cacania, provenendo dal Banato, in Romania al confine con l'Ungheria).
Il fascino è forte. Anche a Parigi, alla conferenza di pace dopo la seconda guerra: l’Austria hitleriana entusiasta fu onorata quale vittima del suo piccolo grande figlio. C’è una Radetzskystrasse in ogni città e paese della Mitteleuropa, che i trentini e i giuliani ancora rimpiangono, molti lombardi e qualche veneto. Ma per un motivo: “L’interesse per la cultura asburgica, che assume talora anche toni stucchevoli e ripetitivi, è dovuto anzitutto all’intensità con cui essa ha vissuto una caduta che è ancora la nostra”, spiega in sintesi Magris, in “Itaca e oltre”: “L’immagine che essa ha dato al mondo è anche il nostro ritratto; un ritratto elusivo, lievemente inautentico e perciò fedele all’inautenticità della quale siamo intessuti”. Un ritratto forse vero ma del falso cioè, e falsamente imposto nel nome inappellabile della crisi, mentre era molto locale: nazionalista, e più delle piccole patrie che imperiale, antisemita, provinciale. “La civiltà asburgica è di moda perché ha posto in evidenza l’irrealtà che ha investito il mondo”, ancora Magris. No, l’irrealtà di cui essa ha investito il mondo:l’irrealtà è solo occidentale, europea, centro-europea, frutto di quattro generazioni suicide, nella due guerre che ha dichiarato e nella guerra fredda lunga mezzo secolo, senza perdite ma ugualmente devastante.
L’esito forse non di malvagità ma d’incapacità, di una limitazione. Del pesante gusto fine secolo (in realtà secondo Ottocento) degli scaloni, del mobilio pesante e delle polche, che può essere bonario e domestico ma non è raffinato. Di una civiltà danubiana che in realtà è un mondo alpestre, allegramente contadino ma non liberamente fluviale – si confrontino i walzer e le marce di Johann Strauss con la leggerezza di Beethoven, che vi indulgeva quasi quotidianamente, come passatempo: l’acqua del Reno è un’altra, o le sue rive diversamente popolate. Un mondo, al meglio, pacioso e provinciale, di storie patrie, cioè locali, di notabilato, e di erudizione quale addizione alla distinzione, con l’ambizione non innocua al quieto vivere, ordinato, ripetitivo.
Heimito von Doderer fa stato, riferisce Magris, di una tradizione antidealistica del pensiero mitteleuropeo. Ma pur sempre di una tradizione, che invece non vi è né univoca né consolidata. E comunque la tradizione di un mondo funzionariale, è questo che è tipicamente asburgico, per dovere e propensione, che diventa più uggioso e sciocco quanto più si fa filosofia e escatologia. Mentre volentieri, nel culto della Mitteleuropa, viene definita “asburgica ed ebraica”, e allora tradizione non è, molti ebrei avrebbero difficoltà a dirla propria, se non per riflesso tribale. La “tradizione absurgica”, se ce n’è una, è di Joseph Roth e Schnitzler, puro Novecento, la nostalgia , la compassione. Musil è l’opposto, algido deposito di sensi di colpa. Più in sintonia con la verità – a parte il fatto che era uno isolato, isolatissimo. L’Austria era andata alla guerra con allegria, e l’ha combattuta con decisione – non si può imputare Caporetto solo ai generali italiani – e con capacità, malgrado l’incredibile voltafaccia italiano. E quando l’ha persa non ha perso del tutto, non prima della seconda grande guerra con relativa sconfitta, ogni idea di grandezza: non solo il Tirolo tutto, anche il Banato e i Sudeti la Repubblica Austriaca prometteva nel 1918 di portare alla madrepatria tedesca.
astolfo@antiit.eu
Antipolitica - Ha fatto il suo tempo, tutto lo indica, dopo vent’anni inconcludenti. Se era il segno di un’epoca, del consumismo, della disattenzione, del marketing, ha fallito – o allora l’epoca non è tale (ma lo è, il consumismo è ben vivo e durevole, è l’antipolitica italiana che non è niente). La vecchia politica si era anchilosata al morso stretto di giganteschi apparati di partito, nazionali e locali (i federali…). I segretari di partito contavano più dei capi di governo, e i segretari di federazione ben più dei parlamentari e dei ministri espressi localmente. L’ha sostituita la politica dei talk show. Un teatrino sorridente, ghignante, beato di sé, sempre dal lato giusto della faccia, ma ripetitivo, inconcludente, e anche insulso, di attori di terz’ordine. Agli ordini di piccoli mattatori di cui il prototipo e il principe è Santoro, che non è il mignolo di un Gassmann o di un Sordi. Tutti peraltro fatti con lo stampino, Fazio, Floris, Santoro, Lerner, o le vestali fuori orario Annunziata, Dandini, Berlinguer. Mentre Vespa è relegato verso la mezzanotte, e gli altri all’alba. Per non dire dei loro comici, stupefacenti: tutti da centralismo democratico, ma di tipo brezneviano, se la Rai li mandasse al mercato andrebbero a ruba, come il berretto verde con la stella rossa del presidente Mao. Il loro pubblico è lo stesso, che ogni sera trasmigra da un condottiero all’altro: quattro-cinque milioni di persone, quanto bastano al giochino auditel, ma sono il 10 per cento degli elettori e non spostano, cioè sono sempre gli stessi – buona parte dei quali sono peraltro di destra, stanno lì per “rosicare” e indignarsi.
I segni di stanchezza, se non di un rovesciamento, sono numerosi. La legge elettorale toscana, assunta da Berlusconi per il voto politico nazionale, ha tentato il rovesciamento di forza della tendenza, rimettendo al centro i partiti. Che però non sanno essere altro che centralismo democratico. Ora si ripropone la preferenza, per salvare qualcosa dell’uninominale, della scelta diretta del rappresentante parlamentare col voto. Ma più potrebbe pesare la rivolta generazionale. Mentre si “vede” sempre più il bluff dell’informazione, in questi anni al di sotto di ogni minima deontologia: si vede nel calo persistente delle vendite prima che della credibilità.
Capitalismo – Viene identificato con il mercato, ma c’è confusione: più spesso va contro il mercato.
Il problema delle sue origini è tipico dell’Ottocento, e riguarda la “giustificazione” della borghesia ormai dominante in Europa - con la riforma napoleonica die codici, la monarchia di luglio, le riforme costituzionali, le cancellazioni dei rotten boroughs – e del liberalismo politico. In questo senso evolve nei paesi latini (v. in Francia Groethuysen), con qualche eco in Germania, in senso anticattolico e pro-Riforma, o pro-ebraismo, nei quali le massonerie trovavano libero spazio sotto forma di libero pensiero. Ma l’accumulazione non è un fatto protestante, o ebraico. Anhe la lbertà politica, malgrado un secolo e mezzo di reazione al modernismo, e quindi di forte tradizionalismo, non è meno cattolica.
La polemica anticattolica nasce in ambiente libero pensatore soprattutto in senso antigesuitico, contro cioè le posizioni di potere che i gesuiti avevano prima della rivoluzione e tentarono di ricreare dopo, attraverso la formazione dei giovani e la guida spirituali dei principi, e delle principesse. È una polemica politica, che nulla ha a che fare con l’accumulazione.
È (però) vero che il tradizionalismo, quando non l’oscurantismo, della Chiesa nell’Ottocento la mettono fuori della modernità, e cioè del capitalismo. Recupererà a fine secolo con la mutualità, col decentramento amministrativo, e in campo creditizio e assisten ziale. La mutualità sociale sarà dei socialiusti, e i cattolici la copoano, non hnno difficoltà a farla propria. Quella bacnaria invece, e finanziaria, sarà un’innovazione cattolca, lungo l’asse Olanda-Belgio,Germania meridionale-Austria-Italia del Nord-Est.
È stato, è, una forma di rottura della tradizione. Che è l’equilibrio sociale e psicologico, di valori progressivamente messi a punto, o senso della misura. Ma a fini prevalentemente di profitto, e quindi conservatore. Anche quando patrocina e impone il cambiamento. L’età del capitalismo è l’età della solitudine, sotto forma di individualismo. Della nevrosi cioè e dell’alienazione. Della violenza anche senza freni, contro se stessi e ogni altro, nel mondo e in famiglia, anche in forme non dissennate, oppure quiete.
Il cattolicesimo, in un certo senso, l’ha interpretato meglio, se non domato, perché riesce a far convivere tradizione e capitalismo, perfino tradizione e mercato.
Si accomoda a tutto, al lusso e alla prodigalità come all’avarizia. Nessuna novità lo scoraggia. Solo il rifiuto della novità. Cioè, non il rifiuto, che è anch’esso un progetto (che affare la tradizione), ma l’abbandono, l’incuria. Si dice conservatore e lo è, nel senso che vuole conservata la proprietà, ma ha bisogno di novità, di cambiare costantemente. Vuole il laissez faire ma non sopporta il laissez aller: vuole iniziativa – in politica cioè leadership. È però, al suo interno, eversivo – come la mafia: costantemente morto e rinascente.
Democrazia Cristiana - È, è stata, cattolica ma non clericale. Nella sanità, nella scuola non ha mai protetto le clini che e le scuole religiose, salvo che nel primo centro-sinistra di Moro. Gli ordini religiosi e i vescovi rientrano nella sanità e nella scuola, e conquistano il nuovo importantissimo Terzo settore, della socialità, con D’Alema e Berlsuconi. È stata, è, il partito del democraticismo radicale. Anzi totale, poiché sommerge ogni altro soggetto o istanza. Dapprima con l’edilizia abitativa: il sacco di Roma coi nuovi quartieri negli anni 1950, la deturpazione di Firenze con le sopraelevazioni consentite negli anni 1950-1960, e con l’abusivismo successivamente dilagante al Sud, con le migliorate condizioni di reddito, non governato e anzi stimolato, in Campania, in Calabria, a Palermo, Agrigento, Messina. Poi con il “posto”: il diritto a una retribuzione anche in assenza di prestazione o competenze specifiche, un “salario dì ingresso” che poi diventa a vita. Ed è tuttora la norma, il posto senza lavorare, malgrado i tornelli e i controlli dei carabinieri, negli uffici giudiziari e delle stesse forze dell’ordine (allo sportello non c’è mai nessuno), e in quelli locali (regionali, provinciali, comunali: chiunque deve fare una pratica lo sa). Prodi ne ha fatto il capolavoro nel 1996 con i lavoratori socialmente utili, che hanno gravato le casse dei Comuni di frotte di senza mestiere nullafacenti, per di più insoddisfatti del “misero” trattamento.
Potere – Se ne può indebolire l’autorità, dice Tocqueville, in due modi: attaccandolo nel suo stesso principio (l’anarchia) o frazionandone l’esercizio. Ma c’è un terzo modo: misconoscerlo nei fatti, disobbedendo sotto la parvenza della legalità. È Mani Pulite.
Vienna – È la Terra di Mezzo della fantasy. E la dilettazione della nostalgia. La Vienna degli Asburgo non era quella che vuole la vulgata, da Magris a Arbasino e ai leghisti, dagli ebrei esuli a Schorske e Toulmin. Chi poteva scappava. Chi restava si sentiva in trappola: non c’era buongoverno, e non c’era lealtà. Il celebrato spirito viennese non è Johann Strauss e il concerto di Capodanno, ma uno sofisticato, cosmopolita, multinazionale. Specie per la minoranza ebraica, che vi costituì un focolare d’eccellenza, nelle arti, la musica, nel pensiero, la poesia anche, il più vivace e memorabile. Se non che l’antisemitismo era altrettanto forte, e durevole - ancora dopo la guerra, Ingeborg Bachmann può dirlo sentito e partecipato ("Tre sentieri per il lago"). Grande centro musicale, gratificato dell’orecchio perfetto, che però esercitava ed esercita un incongruo colonialismo in Europa. C’erano certo delle idee, ma ce n’erano dappertutto. Vienna è il luogo degli “Ultimi giorni dell’umanità” di Karl Kraus, “stazione meteorologica della fine del mondo”, in questo enorme (abnorme), come l’autore degli “Ultimi giorni” stessi. E il mondo non va peggio senza Vienna.
Si può dirla anche in breve. Wittgenstein che esce di sala, a un concerto, per non ascoltare la “Salome” di Strauss. Le riserve di Popper su tutto ciò che è viennese. La ferocia di Karl Kraus, che peraltro vi era isolato. La fuga di Roth. La capitale della nostalgia, della grande Austria Felix, si reggeva per un terzo della sue finanze sul Lombardo-Veneto, che aveva avuto cura di annettersi nel 1815 al concerto delle potenze, un territorio che era forse un ventesimo di tutto il glorioso impero, e una popolazione che non era più di un settimo-un sesto del totale: davvero provvida?
La Grande Vienna è una brillantissima operazione editoriale. In sé è non più di quanto ne dice Ingeborg Bachmann alla p. 1 de “Il caso Franza”: “Si può dimostrare che Vienna c’è, anche se non si riesce a coglierla con una sola parola perché Vienna è qui sulla carta e la città di Vienna è continuamente altrove e cioè a 48° 14’’ e 54’’ latitudine nord e a 16° 21’’ e 42’’ longitudine est”. Vienna, Magris potrebbe dire come di Trieste, “multiculturale, crocevia e crogiolo di civiltà diverse, è insieme una realtà e un mito ingannevole”. Ma c’è di più.
“Vienna” è la ricostituzione (l’invenzione della tradizione) di un’equidistanza tra Est e Ovest al tempo della “guerra civile” del Novecento, dal 1914 al 1989. Un desiderio di tirarsene fuori, fuori dallo scontro, fuori dalla miseria morale, fuori anche dalla violenza. Quanti coltelli (odi, revanscismi, vendette) nella Mitteleuropa vera. Come Claudio Magris testimonia a Praga, per esempio, in “Praga al quadrato” (ora nella raccolta “Alfabeti”), che la Mitteleuropa dice “grandezza vissuta nella fine e anzi quale fine”. Ma a Vienna, si direbbe, ben più che a Praga, città della Resistenza, molteplice: un Anschluss che fu un tripudio, con un referendum plebiscitario, e una moltitudine poi di willing executioners, carnefici volenterosi, di ebrei e assimilati, dopo l’antifascismo di Dollfuss, con i lager per tutti, chiunque avesse una idea politica.
L’idea però piace, l’ipostasi del Centro, dell’aureo medio, un piccolo paradiso della zona grigia. Anche nei valori vantati: sobrietà, Witz, piccoli amori, spassionati. Che non sono quelli della Vienna storica, arrogante, classista (razzista), anche intollerante. Di cui Joseph Roth diceva: “È la capitale delle illimitate impossibilità” – del Paese, è vero, “delle possibilità illimitate”. E non sono quelli degli scrittori, Ransmayr, Bernhard, soprattutto delle scrittrici, figlie di nazisti professi, Ingeborg Bachmann, le due Nobel Jelinek e Helga Mueller (emigrata questa in Germania, ma ex Cacania, provenendo dal Banato, in Romania al confine con l'Ungheria).
Il fascino è forte. Anche a Parigi, alla conferenza di pace dopo la seconda guerra: l’Austria hitleriana entusiasta fu onorata quale vittima del suo piccolo grande figlio. C’è una Radetzskystrasse in ogni città e paese della Mitteleuropa, che i trentini e i giuliani ancora rimpiangono, molti lombardi e qualche veneto. Ma per un motivo: “L’interesse per la cultura asburgica, che assume talora anche toni stucchevoli e ripetitivi, è dovuto anzitutto all’intensità con cui essa ha vissuto una caduta che è ancora la nostra”, spiega in sintesi Magris, in “Itaca e oltre”: “L’immagine che essa ha dato al mondo è anche il nostro ritratto; un ritratto elusivo, lievemente inautentico e perciò fedele all’inautenticità della quale siamo intessuti”. Un ritratto forse vero ma del falso cioè, e falsamente imposto nel nome inappellabile della crisi, mentre era molto locale: nazionalista, e più delle piccole patrie che imperiale, antisemita, provinciale. “La civiltà asburgica è di moda perché ha posto in evidenza l’irrealtà che ha investito il mondo”, ancora Magris. No, l’irrealtà di cui essa ha investito il mondo:l’irrealtà è solo occidentale, europea, centro-europea, frutto di quattro generazioni suicide, nella due guerre che ha dichiarato e nella guerra fredda lunga mezzo secolo, senza perdite ma ugualmente devastante.
L’esito forse non di malvagità ma d’incapacità, di una limitazione. Del pesante gusto fine secolo (in realtà secondo Ottocento) degli scaloni, del mobilio pesante e delle polche, che può essere bonario e domestico ma non è raffinato. Di una civiltà danubiana che in realtà è un mondo alpestre, allegramente contadino ma non liberamente fluviale – si confrontino i walzer e le marce di Johann Strauss con la leggerezza di Beethoven, che vi indulgeva quasi quotidianamente, come passatempo: l’acqua del Reno è un’altra, o le sue rive diversamente popolate. Un mondo, al meglio, pacioso e provinciale, di storie patrie, cioè locali, di notabilato, e di erudizione quale addizione alla distinzione, con l’ambizione non innocua al quieto vivere, ordinato, ripetitivo.
Heimito von Doderer fa stato, riferisce Magris, di una tradizione antidealistica del pensiero mitteleuropeo. Ma pur sempre di una tradizione, che invece non vi è né univoca né consolidata. E comunque la tradizione di un mondo funzionariale, è questo che è tipicamente asburgico, per dovere e propensione, che diventa più uggioso e sciocco quanto più si fa filosofia e escatologia. Mentre volentieri, nel culto della Mitteleuropa, viene definita “asburgica ed ebraica”, e allora tradizione non è, molti ebrei avrebbero difficoltà a dirla propria, se non per riflesso tribale. La “tradizione absurgica”, se ce n’è una, è di Joseph Roth e Schnitzler, puro Novecento, la nostalgia , la compassione. Musil è l’opposto, algido deposito di sensi di colpa. Più in sintonia con la verità – a parte il fatto che era uno isolato, isolatissimo. L’Austria era andata alla guerra con allegria, e l’ha combattuta con decisione – non si può imputare Caporetto solo ai generali italiani – e con capacità, malgrado l’incredibile voltafaccia italiano. E quando l’ha persa non ha perso del tutto, non prima della seconda grande guerra con relativa sconfitta, ogni idea di grandezza: non solo il Tirolo tutto, anche il Banato e i Sudeti la Repubblica Austriaca prometteva nel 1918 di portare alla madrepatria tedesca.
astolfo@antiit.eu
giovedì 18 novembre 2010
Il Raiume tra Radio Tirana e l’arrocco Dc
Un voto occasionale, una delle tante manifestazioni antigovernative “fredde”, porta infine allo scoperto la vera natura della Rai. Su 1.438 giornalisti presenti alla manifestazione di ieri, ben 1.314 hanno votato contro il direttore generale Masi. Un ex Dc, messo a quel posto da Gianni Letta, ma nominato dal governo Berlusconi, e dunque un berlusconiano. Ma, a parte lui, non ci sono più berlusconiani in Rai: i votanti hanno levato un punto alla propaganda dell’opposizione. Ma soprattutto si conferma quanto si sapeva, che il 1989 per la Rai non c’è mai stato, né il 1992: la Rai è sempre cattolica e democristiana, anche se trova conveniente dirsi di sinistra.
Si sapeva che dei 25 redattori del servizio politico del Tg 1 prima di Minzolini, 17 erano di Casini, o 18, e il resto di Veltroni. L’assemblea di ieri conferma la preminenza dell’opposizione nell’informazione Rai, e all’interno di essa con tutta probabilità di quella casiniana, moderata ma non blanda (si veda Cristina Busi). Che a sinistra potrebbe essere una buona notizia, non fosse che questa opposizione è solo un arroccamento dello zoccolo duro democristiano, deciso a non cedere.
Di cui è specchio il linguaggio: chi ha il vizio di ascoltare le notizie alla Rai ha sempre l’impressione di essere tornato indietro nel tempo, all’ascolto della famosa Radio Tirana in italiano al tempo del regime, che si faceva allora per divertimento ma ora atterrisce – il Raiume sempre atterrisce, perfino quando parla del papa, o della povertà che ci affligge, noi poveri ricchi.
Si sapeva che dei 25 redattori del servizio politico del Tg 1 prima di Minzolini, 17 erano di Casini, o 18, e il resto di Veltroni. L’assemblea di ieri conferma la preminenza dell’opposizione nell’informazione Rai, e all’interno di essa con tutta probabilità di quella casiniana, moderata ma non blanda (si veda Cristina Busi). Che a sinistra potrebbe essere una buona notizia, non fosse che questa opposizione è solo un arroccamento dello zoccolo duro democristiano, deciso a non cedere.
Di cui è specchio il linguaggio: chi ha il vizio di ascoltare le notizie alla Rai ha sempre l’impressione di essere tornato indietro nel tempo, all’ascolto della famosa Radio Tirana in italiano al tempo del regime, che si faceva allora per divertimento ma ora atterrisce – il Raiume sempre atterrisce, perfino quando parla del papa, o della povertà che ci affligge, noi poveri ricchi.
La politica tradita dalla scienza
L’attacco è perfetto, il professor Sartori è sempre lucido: “La nostra Seconda Repubblica lascia poche tracce di opere compiute, di riforme ben fatte e di problemi risolti. In compenso ha profondamente inquinato il vocabolario costituzionale e perciò stesso la nostra Costituzione e la politica che ne discende”. Inizia così, incontestabile, il commento di Giovanni Sartori sul “Corriere della sera”, intitolato “Una Repubblica assai confusa”. Dopodiché ci si aspetterebbe che il professore dicesse la confusione dilagante anche tra gli esperti o addetti ai lavoro, o scienziati politici, che dalle varie tribune ci indottrinano sulla soluzione del rebus, come fa lui. E invece no: è questo è indice della massima confusione. Il “ribaltone” non esiste, dice il professore, così come “non esisteva” la peste nella Milano di Manzoni, e altrettali.
In particolare il professore critica il Porcellum, come lui chiama la legge elettorale attuale, “una porcata”. Senza però dire che essa ricopia la legge elettorale della Toscana, di cui egli stesso o i suoi allievi hanno la responsabilità. E che il ricorso a questa legge si è avuto dopo dieci anni di sterili discussioni su che cos’era meglio, tra i berlusconiani e l’opposizione. Sia nella legislatura 2001-2006 che in quella precedente, 1996-2001. La legge elettorale collegando com’è giusto al sistema di governo Si ricorderà la Bicamerale. E le infinite ricette, di allora e dopo: cancellierato? premierato? regime presidenziale? secco? a due turni? uninominale? proporzionale? proporzionale con sbarramento?
A conferma della massima confusione Sartori dice il problema insolubile, ogni partito tirando per la legge che, in quella particolare fase, pensa gli converrebbe di più. Ma non dice che i partiti si giovano, in questa dissennatezza, di quella degli studiosi, con le loro pretese al sistema perfetto. In una tornata elettorale a Roma, l’elettore si è trovato in cabina cinque schede diverse con cinque sistemi di voto diversi. Se non è confusione questa! Certo, non è democrazia. Si può andare avanti cambiando la legge elettorale a ogni tornata?
In particolare il professore critica il Porcellum, come lui chiama la legge elettorale attuale, “una porcata”. Senza però dire che essa ricopia la legge elettorale della Toscana, di cui egli stesso o i suoi allievi hanno la responsabilità. E che il ricorso a questa legge si è avuto dopo dieci anni di sterili discussioni su che cos’era meglio, tra i berlusconiani e l’opposizione. Sia nella legislatura 2001-2006 che in quella precedente, 1996-2001. La legge elettorale collegando com’è giusto al sistema di governo Si ricorderà la Bicamerale. E le infinite ricette, di allora e dopo: cancellierato? premierato? regime presidenziale? secco? a due turni? uninominale? proporzionale? proporzionale con sbarramento?
A conferma della massima confusione Sartori dice il problema insolubile, ogni partito tirando per la legge che, in quella particolare fase, pensa gli converrebbe di più. Ma non dice che i partiti si giovano, in questa dissennatezza, di quella degli studiosi, con le loro pretese al sistema perfetto. In una tornata elettorale a Roma, l’elettore si è trovato in cabina cinque schede diverse con cinque sistemi di voto diversi. Se non è confusione questa! Certo, non è democrazia. Si può andare avanti cambiando la legge elettorale a ogni tornata?
mercoledì 17 novembre 2010
Problemi di base - 41
spock
Woodcock, che fine ha fatto il dossier Marcegaglia? E le intercettazioni del “Giornale”? e l’assalto al “Giornale”?
Chi racconta le barzellette a Berlusconi?
Chi ha dato la patente a Fini? Di che?
Sono venute prima le minorenni o prima Veronica?
Ci sono santi che non siano pazzi, violenti, maniaci?
È la pazzia l'unica forma di libertà compiuta, e la stupidità?
È la libertà tanto imprevedibile che per questo tutti pensano di possederla?
E chi gestisce questa libertà? È drogata? Si prostituisce? È ricattatrice?
Perché Dio c’era e ci sarà, ma non c’è mai ora?
Se passiamo dal nulla al nulla, non saremo tutti morti?
spock@antiit.eu
Woodcock, che fine ha fatto il dossier Marcegaglia? E le intercettazioni del “Giornale”? e l’assalto al “Giornale”?
Chi racconta le barzellette a Berlusconi?
Chi ha dato la patente a Fini? Di che?
Sono venute prima le minorenni o prima Veronica?
Ci sono santi che non siano pazzi, violenti, maniaci?
È la pazzia l'unica forma di libertà compiuta, e la stupidità?
È la libertà tanto imprevedibile che per questo tutti pensano di possederla?
E chi gestisce questa libertà? È drogata? Si prostituisce? È ricattatrice?
Perché Dio c’era e ci sarà, ma non c’è mai ora?
Se passiamo dal nulla al nulla, non saremo tutti morti?
spock@antiit.eu
Il Sud che aspetta lo Stato per i vetri rotti
Il leghismo alla Bossi era già tale e quale nel 1949, quando il ragioniere Carlo Magnini di Pavia ne scrisse la summa in una lettera beffarda a “Milano-Sera”, il quotidiano fiancheggiatore del Pci. Répaci se ne assunse la risposta in questi 16 articoli (o almeno, così è da presumere: né l’anno né il giornale sono specificati in questa lacunosa riedizione), che chiama inchiesta sull’antimeridionalismo. Con argomenti, però, che purtroppo avranno confermato il ragioniere nei pregiudizi: nel 1963, quando Répaci raccolse gli articoli in volume, era il libro stesso a uscire su un binario morto, la “questione meridionale” era già più complicata. Ma non manca la zampata. La mezza pagina di Nitti, un meridionale non autoindulgente, che elenca inoppugnabile i vincoli posti dall’unità al Sud, nella prefazione al suo “Nord e Sud” (p. 38). Il ruolo già corruttore della Democrazia Cristiana nel meridione. La storia del Sud in mezza pagina (p.54). Un inserto sulla fiscalità che è una risposta argomentata, seppure fulminante, ai conti ricorrenti di quanto il Nord si sacrifica per il Sud (p.39). La povertà diffusa ancora nel dopoguerra anche a Nord. nell'entroterra della Versilia, o nella Val Malenco, dove gli abitanti vivono in grotte e bambini trasportano lastre pesanti di amianto. Non senza lo scarto beffardo tipico della “calabresità”, direbbe lo tesso Répaci, sulla ristrettezza mentale (“l’avarizia, la meschinità”) della borghesia a cent’anni dall’unità: “Ci sono grandi proprietari da noi che, a quattro anni e più dalla fine della guerra, aspettano ancora dallo stato che gli rimetta i vetri frantumati dai bombardamenti”.
Leonida Répaci, Il Sud su un binario morto, Rubbettino, pp.80, € 6,20
Leonida Répaci, Il Sud su un binario morto, Rubbettino, pp.80, € 6,20
martedì 16 novembre 2010
Il cuore inutile dell’Italia
Illeggibile. Non per il patriottismo di esercito, scuola, famiglia. Per la melassa. Eco avrebbe difficoltà oggi a estrarne qualcosa da leggere, anche il cattivo Franti non dice niente. A voler essere cattivi, fa solo capire perché l’Italia ha costruito poco e tanto invece ha dissipato.
Edmondo De Amicis, Cuore
Edmondo De Amicis, Cuore
Alvaro materno, in famiglia e in Calabria
Formidabile omaggio allo scrittore di San Luca da parte del noto mariologo, suo concittadino. Che ne ha fatto accurata e vasta lettura, anche sui tantissimi inediti che nessuno cura e alcuni archivi (Bompiani, privati). E ne sistematizza la critica su ben sette piani di lettura: lirico-mistica, antitetica, sociopolitica, umanistico-morale, diacronica, religiosa, strutturalistica - la narratologia del racconto “Madre di paese” è un racconto a sé. Ne delinea la nota dualità, di uomo mediterraneo e scrittore europeo. E ne arricchisce doppiamente la personalità nota. Come concittadino, per i rapporti in famiglia e col paese d’origine, attraverso ricordi personali, un incontro molto vivace con Mario La Cava, lettere e altri testi inediti, e un insight speciale sui rapporti interni alla famiglia, con la madre soprattutto e col padre. Come studioso di Maria, padre De Fiores ha un occhio particolarissimo verso il rapporto dello scrittore con la madre, e il suo speciale femminismo. In una con l’etnicismo per lui indissolubile: “La donna è il personaggio più importante e più autentico della Calabria”. E ne fa affiorare la costante intima religiosità, legata alla cristianità dell’Europa, nel senso crociano del non possiamo non dirci cristiani, e più nel senso mitico-mistico della vita e del Cristo, seppure non clericale e anzi anticlericale.
Lo studio ha anche il merito di far emergere, in più punti, un problema specifico di Corrado Alvaro, quello biografico – gli aventi diritto sono stati restii a mettere a disposizione degli studiosi le carte personali dello scrittore. Un problema dovuto probabilmente ai rapporti non buoni, dopo l’adolescenza, col padre. E a una certa libertà di rapporti fuori della famiglia instaurata negli ultimi anni di vita, quelli della malattia che lo condusse a morte a sessant’anni – se non in conseguenza della malattia. Ma un problema certo di Alvaro è la Calabria. Più padre che madre forse – alla madre vera restò sempre in qualche modo vicino. Il problema è il rifiuto. Fino a morte avvenuta, del padre vero. Dopodiché le origini riprendono il loro ruolo fertile, di scoperte e formazione. Tanto più per la loro intima diversità, dalla cultura italiana a europea, urbana, cosmopolita, in cui Alvaro si era immerso. Il rifiuto è anche un dato dell’epoca: l’emigrazione intellettuale, come la chiamava Corrado (“mio padre ha inventato l’emigrazione intellettuale”, del figli) era una cesura. Raramente l’emigrato tornava. Quasi mai più che le poche ore di un funerale, senza peraltro mai “vedere” nessuno, a casa scrivendo, alla madre inferma o alla sorella che l’accudiva, rare svogliate lettere. Il ritorno è recente, degli ultimi cinquanta anni – reciproco: compresa cioè la “scoperta” di Alvaro da parte di San Luca (che ora sola, praticamente, ne coltiva la memoria).
De Fiores ha in più il coraggio (è il privilegio della tonaca?) di ricordare, una rarità nella pubblicistica, la pervicacia del Pci di Togliatti nell’acculare Alvaro al fascismo, in vita e in morte, con una strana cadenza biennale: Giacomo Debenedetti (1953), Salinari (1955), Angioletti (1957) e Trombatore (1959) – o si era compagni di strada o si era fascisti. Alvaro soffrì molto l’accusa di viltà mossagli da Debenedetti. Tra l’altro per “L’uomo è forte”, che è invece il romanzo dell’orrore del totalitarismo – era Debenedetti cosi filosovietico?
Stefano De Fiores, Itinerario culturale di Corrado Alvaro, Rubbettino, pp. 204, € 20
Lo studio ha anche il merito di far emergere, in più punti, un problema specifico di Corrado Alvaro, quello biografico – gli aventi diritto sono stati restii a mettere a disposizione degli studiosi le carte personali dello scrittore. Un problema dovuto probabilmente ai rapporti non buoni, dopo l’adolescenza, col padre. E a una certa libertà di rapporti fuori della famiglia instaurata negli ultimi anni di vita, quelli della malattia che lo condusse a morte a sessant’anni – se non in conseguenza della malattia. Ma un problema certo di Alvaro è la Calabria. Più padre che madre forse – alla madre vera restò sempre in qualche modo vicino. Il problema è il rifiuto. Fino a morte avvenuta, del padre vero. Dopodiché le origini riprendono il loro ruolo fertile, di scoperte e formazione. Tanto più per la loro intima diversità, dalla cultura italiana a europea, urbana, cosmopolita, in cui Alvaro si era immerso. Il rifiuto è anche un dato dell’epoca: l’emigrazione intellettuale, come la chiamava Corrado (“mio padre ha inventato l’emigrazione intellettuale”, del figli) era una cesura. Raramente l’emigrato tornava. Quasi mai più che le poche ore di un funerale, senza peraltro mai “vedere” nessuno, a casa scrivendo, alla madre inferma o alla sorella che l’accudiva, rare svogliate lettere. Il ritorno è recente, degli ultimi cinquanta anni – reciproco: compresa cioè la “scoperta” di Alvaro da parte di San Luca (che ora sola, praticamente, ne coltiva la memoria).
De Fiores ha in più il coraggio (è il privilegio della tonaca?) di ricordare, una rarità nella pubblicistica, la pervicacia del Pci di Togliatti nell’acculare Alvaro al fascismo, in vita e in morte, con una strana cadenza biennale: Giacomo Debenedetti (1953), Salinari (1955), Angioletti (1957) e Trombatore (1959) – o si era compagni di strada o si era fascisti. Alvaro soffrì molto l’accusa di viltà mossagli da Debenedetti. Tra l’altro per “L’uomo è forte”, che è invece il romanzo dell’orrore del totalitarismo – era Debenedetti cosi filosovietico?
Stefano De Fiores, Itinerario culturale di Corrado Alvaro, Rubbettino, pp. 204, € 20
Pasticcio procidano d’autore incredulo
Invece che del romanzo, Cordelli inscena all’esordio la morte dell’autore. Declinato al femminile in A: Alice, Amelia, Agata, Ada, Agnese, Annabella. L’autore si decompone, proprio lui, fisicamente, mentalmente. Per l’illuminazione recente del professor Derrida, che è anche personaggio in commedia, “La scrittura e la differenza”. Con la stessa scrittura ellittica. Più calchi residui di Robbe-Grillet, l’occhio freddo sugli oggetti. E di Bernhard, per gioco di bravura, senza la sua materia esistenziale. Qualche smontaggio – oggi découpage. E l’omaggio al Barthes degli attrezzi dello scrittore. Sullo sfondo familiare di Gombrowicz – il vecchio cane – del sesso asessuato, e del quadrilatero goethiano delle affinità elettive, con lo scrittore voyeur nel mezzo, i probabili punti di partenza. L’autore stesso sembra incredulo di fronte a tanto pasticcio.
La ricerca letteraria non sa narrarsi. Serve a esercizi di decostruzione, come i romanzi a chiave al pettegolezzo.
Franco Cordelli, Procida
La ricerca letteraria non sa narrarsi. Serve a esercizi di decostruzione, come i romanzi a chiave al pettegolezzo.
Franco Cordelli, Procida
Ombre - 68
I furbi Fazio e Saviano, col direttore di Rai tre Ruffini, figlio e nipote intemerato di moralissimi cardinali di Palermo e ministri Dc, che hanno armato la trappola a Berlusconi invitando Bersani e Fini, sono stati presi in contropiede da Maroni. Che, non presente, è riuscito a monopolizzare l’attenzione dei nove o novantanove milioni di ascoltatori. C’è sempre uno più furbo.
Per esempio Fazio, che ridicolizzando Berlusconi arricchisce Endemol, che è di Berlusconi.
Fazio e Saviano hanno invitato i nemici di Berlusconi cole "lettori". L'ipocrisia è passata a sinistra? O sono i due destre cammuffate? I melensi Fazio e Saviano commandos dietro le linee nemiche non è male.
Pensare che la Commissione parlamentare Rai è presieduta da Zavoli, che per una vita è stato un onest'uomo: il Raiume è così corrosivo?
Che pena Bersani e Fini che fanno da tappezzeria a Fazio, le statuine mute. Avessero le tette le diremmo delle veline, ma non hanno nemmeno quelle. Che altro deve fare la politica per umiliarsi, sia pure a un record di audience?
Tre mesi di moratoria in Israele nella costruzione di nuove colonie – si costruiscono colonie in Israele. In cambio di venti aerei da caccia americani F-35. È l’accordo tra Obama e Netanyhau, e non è una barzelletta.
La Ferrari quest’anno l’ha fatta propria grossa. Dopo la McLaren e Hamilton, doveva far vincere un pilota tedesco, la Formula Uno è cosmopolita. Ma non salta mai nessuno in Ferrari, né Montezemolo né Domenicali: sono tutti dentro l’affare?
Non si è sospeso dall’Idv dopo essere stato rinviato a giudizio, benché lo statuto del partito glielo imponga, e oppone a Mastella, che gli chiede i danni per diffamazione, il vituperato Lodo Alfano, che protegge i parlamentari, anche europei. Il giudice De Magistris la giustizia se la fa da sé, essendo napoletano, e “magistrato figlio di magistrati, nipote di magistrati”. Anche i vecchi re, non si potevano giudicare.
La Cassazione sancisce che 22 kg, di hashish sono modica quantità. Ventidue kg. in 144 panetti, dai quali sono ricavabili 6.500 dosi di stupefacente. Quindi è un mercato, questo, che si può fare: portare dalla Calabria a Roma 22 kg. di hashish, 144 panetti, e venderli. Si viene condannati per questo a 6 anni, condonabili, senza le aggravanti.
La Cassazione in realtà non sancisce ma ribadisce. Quanto aveva già deciso nel 2000, stabilendo che la pena aggravata prevista dal secondo comma dell’art. 80 si applica per quantità di stupefacenti detenute superiori ai 50 chili per le droghe leggere (marijuana, hashish), e ai due chili per la cocaina e l’eroina. Quanto sniffano i giudici in Cassazione?
“Credo proprio che pure il mio cellulare fosse sotto controllo”, dice Feltri a Cazzullo sul “Corriere della sera”. Aggiungendo: “Ma non hanno trovato un a sola telefonata tra me e Berlusconi, altrimenti sarebbero spuntate fuori”. Lo dice senza scandalo,, né dell’intervistatore né del giornale. Feltri è intercettato perché? Non è un mafioso, non è un dinamitardo, è un giornalista. Si può liberamente intercettare un giornalista. O la cosa riguarda solo Feltri, che ci è antipatico?
L’unica censura a un giornalista nella storia della Repubblica la commina l’Ordine dei giornalisti. Senza vergogna, anzi d’impeto. Non squadrista, certo, poiché l’Ordine è di sinistra. Ma è sempre per la stessa storia, che Feltri ci è antipatico? Poi dice che non c’è il fascismo.
Zitto zitto, piano piano, benché sia una prima assoluta e anzi clamorosa, il partito Democratico passa all’attacco della Procura di Milano. Il suo responsabile Giustizia, Cavallaro, ha chiesto al ministero di mandare gli ispettori a Edmondo Bruti Liberati, il capo della Procura. Che è un sincero democratico, anzi democrat come si vuol dire, ma evidentemente non obbedisce abbastanza.
Nel crollo di Berlusconi “Repubblica” coinvolge da alcuni giorni anche Mediaset. Si arrampica perciò su titoli a sensazione, suffragati da parole isolate, indecise, polivalenti, di randagi analisti.
Non c’è più il reato di aggiotaggio? Forse i giudici non leggono “Repubblica”?
Va giù Piazza Affari mercoledì per una serie di trimestrali inferiori alle attese, e per i prodromi della prossima crisi valutaria, con la specualzione nuovamente all'attacco contro l'euro. Con perdite del 5-6 per cento per le maggiori banche, e anche per Mediaset. Ma “Repubblica” fa una pagina solo su Mediaset: “Titolo a picco per share in calo e pay-tv”. Il titolo sovrasta un testo dove si dice che l’azienda di Berlusconi chiuderà l’anno “con un utile vicino ai 440 milioni (un bel balzo dai 272 dell’anno precedente) e con un dividendo vicino ai 34-35 centesimi. Cifra che garantisce un rendimento del 7 per cento circa”. Che sarebbe un record. Informazione? Malocchio?
Il servizio tace il rialzo del 3 per cento dello stesso titolo martedì sera, a ridosso dell’annuncio della trimestrale. Nonché delle oscillazioni di tutti i titoli in questa Borsa (Mediaset quest’anno è arrivata a 6,50 ed è scesa a 4,40 – ora naviga sui 4,80, dopo il “crollo” a 5)
L’università è vittima, come tutti sanno, degli universitari: gli accademici l’hanno distrutta, e continuano implacabili Ora che il governo ha trovato un miliardo si lamentano. “Un po’ d’ossigeno, tanti dubbi”, fanno dire al “Messaggero”, la voce degli statali. Poi si lamenta che c’è chi vuole l’abolizione dell’università di Stato.
“Martedì nero di Berlusconi all’Aquila”, titola a tutta pagina “il Messaggero”, e illustra la catastrofe con una foto dei soliti ragazzetti che marinano le scuole, pochi, che inalberano un (piccolo) cartello: “Voi donne e festoni, noi fango e alluvioni”. Alluvioni all’Aquila? Poi si dice che l’opposizione non morde – in questo caso l’opposizione di Casini.
Fini che difende a Perugia i “matrimoni di fatto” può essere un dato reale di laicità. Tanto più se ha adottato la novità spinto dalla sua compagna. Ma è un revirement che resta inspiegato, come il voto e la cittadinanza subito agli immigrati, e altre sue uscite recenti – dopo la legge Bossi-Fini che tortura i lavoratori immigrati e le famiglie. Fini non è capace di pensare in proprio?
Saviano fa un panegirico di Falcone nella trasmissione di Fazio “Vieni via con me”, denunciando il linciaggio deliberato di cui il giudice fu vittima. Che la Rai, e Fazio, facciano ammenda (il linciaggio più costante fu perpetrato all’epoca da Santoro) è da apprezzare, benché dopo diciott’anni. Ma Saviano evita di dire chi isolò il giudice con la calunnia e lo additò ai suo assassini. Ascoltandolo, sembra anzi che sia stato Berlusconi.
I lettori di questo sito ricorderanno chi è stato: http://www.antiit.com/2010/05/la-vera-storia-di-giovanni-falcone.html
Lo stesso Saviano ridicolizza nella stessa nobile trasmissione progressista e di sinistra i suoi concittadini del casertano, insinuando che non sanno cosa sono i cotton fioc e i boxer, anzi nemmeno gli zainetti e le biciclette. Che, quando pensano, dicono roba da gay. Ma allora sanno cosa sono i gay? Saviano, ancora uno sforzo!
Futuro e Libertà debutta a Perugia con Patrizia D’Addario, invitata d’onore. Poi la caccia a furor di popolo. È proprio un casino.
Foto Ansa da Perugia con questa didascalia: “Andrea Ronchi annuncia, commosso, di rimettere a Fini il mandato di ministro”. Ronchi era dunque ministro. “Mandato” da Fini. Cos’è, la Spectre?
Matteo Renzi dice solo l’ovvio quando chiede che il Pd si liberi di D’Alema, Vetroni & Co.. Ma poi s’immortala come Fonzie. In dietro non più di dieci o vent’anni, ma di quaranta? La cultura è sempre quella, conservatrice. Magari più democristiana (ex) che comunista (ex), ecco.
Per esempio Fazio, che ridicolizzando Berlusconi arricchisce Endemol, che è di Berlusconi.
Fazio e Saviano hanno invitato i nemici di Berlusconi cole "lettori". L'ipocrisia è passata a sinistra? O sono i due destre cammuffate? I melensi Fazio e Saviano commandos dietro le linee nemiche non è male.
Pensare che la Commissione parlamentare Rai è presieduta da Zavoli, che per una vita è stato un onest'uomo: il Raiume è così corrosivo?
Che pena Bersani e Fini che fanno da tappezzeria a Fazio, le statuine mute. Avessero le tette le diremmo delle veline, ma non hanno nemmeno quelle. Che altro deve fare la politica per umiliarsi, sia pure a un record di audience?
Tre mesi di moratoria in Israele nella costruzione di nuove colonie – si costruiscono colonie in Israele. In cambio di venti aerei da caccia americani F-35. È l’accordo tra Obama e Netanyhau, e non è una barzelletta.
La Ferrari quest’anno l’ha fatta propria grossa. Dopo la McLaren e Hamilton, doveva far vincere un pilota tedesco, la Formula Uno è cosmopolita. Ma non salta mai nessuno in Ferrari, né Montezemolo né Domenicali: sono tutti dentro l’affare?
Non si è sospeso dall’Idv dopo essere stato rinviato a giudizio, benché lo statuto del partito glielo imponga, e oppone a Mastella, che gli chiede i danni per diffamazione, il vituperato Lodo Alfano, che protegge i parlamentari, anche europei. Il giudice De Magistris la giustizia se la fa da sé, essendo napoletano, e “magistrato figlio di magistrati, nipote di magistrati”. Anche i vecchi re, non si potevano giudicare.
La Cassazione sancisce che 22 kg, di hashish sono modica quantità. Ventidue kg. in 144 panetti, dai quali sono ricavabili 6.500 dosi di stupefacente. Quindi è un mercato, questo, che si può fare: portare dalla Calabria a Roma 22 kg. di hashish, 144 panetti, e venderli. Si viene condannati per questo a 6 anni, condonabili, senza le aggravanti.
La Cassazione in realtà non sancisce ma ribadisce. Quanto aveva già deciso nel 2000, stabilendo che la pena aggravata prevista dal secondo comma dell’art. 80 si applica per quantità di stupefacenti detenute superiori ai 50 chili per le droghe leggere (marijuana, hashish), e ai due chili per la cocaina e l’eroina. Quanto sniffano i giudici in Cassazione?
“Credo proprio che pure il mio cellulare fosse sotto controllo”, dice Feltri a Cazzullo sul “Corriere della sera”. Aggiungendo: “Ma non hanno trovato un a sola telefonata tra me e Berlusconi, altrimenti sarebbero spuntate fuori”. Lo dice senza scandalo,, né dell’intervistatore né del giornale. Feltri è intercettato perché? Non è un mafioso, non è un dinamitardo, è un giornalista. Si può liberamente intercettare un giornalista. O la cosa riguarda solo Feltri, che ci è antipatico?
L’unica censura a un giornalista nella storia della Repubblica la commina l’Ordine dei giornalisti. Senza vergogna, anzi d’impeto. Non squadrista, certo, poiché l’Ordine è di sinistra. Ma è sempre per la stessa storia, che Feltri ci è antipatico? Poi dice che non c’è il fascismo.
Zitto zitto, piano piano, benché sia una prima assoluta e anzi clamorosa, il partito Democratico passa all’attacco della Procura di Milano. Il suo responsabile Giustizia, Cavallaro, ha chiesto al ministero di mandare gli ispettori a Edmondo Bruti Liberati, il capo della Procura. Che è un sincero democratico, anzi democrat come si vuol dire, ma evidentemente non obbedisce abbastanza.
Nel crollo di Berlusconi “Repubblica” coinvolge da alcuni giorni anche Mediaset. Si arrampica perciò su titoli a sensazione, suffragati da parole isolate, indecise, polivalenti, di randagi analisti.
Non c’è più il reato di aggiotaggio? Forse i giudici non leggono “Repubblica”?
Va giù Piazza Affari mercoledì per una serie di trimestrali inferiori alle attese, e per i prodromi della prossima crisi valutaria, con la specualzione nuovamente all'attacco contro l'euro. Con perdite del 5-6 per cento per le maggiori banche, e anche per Mediaset. Ma “Repubblica” fa una pagina solo su Mediaset: “Titolo a picco per share in calo e pay-tv”. Il titolo sovrasta un testo dove si dice che l’azienda di Berlusconi chiuderà l’anno “con un utile vicino ai 440 milioni (un bel balzo dai 272 dell’anno precedente) e con un dividendo vicino ai 34-35 centesimi. Cifra che garantisce un rendimento del 7 per cento circa”. Che sarebbe un record. Informazione? Malocchio?
Il servizio tace il rialzo del 3 per cento dello stesso titolo martedì sera, a ridosso dell’annuncio della trimestrale. Nonché delle oscillazioni di tutti i titoli in questa Borsa (Mediaset quest’anno è arrivata a 6,50 ed è scesa a 4,40 – ora naviga sui 4,80, dopo il “crollo” a 5)
L’università è vittima, come tutti sanno, degli universitari: gli accademici l’hanno distrutta, e continuano implacabili Ora che il governo ha trovato un miliardo si lamentano. “Un po’ d’ossigeno, tanti dubbi”, fanno dire al “Messaggero”, la voce degli statali. Poi si lamenta che c’è chi vuole l’abolizione dell’università di Stato.
“Martedì nero di Berlusconi all’Aquila”, titola a tutta pagina “il Messaggero”, e illustra la catastrofe con una foto dei soliti ragazzetti che marinano le scuole, pochi, che inalberano un (piccolo) cartello: “Voi donne e festoni, noi fango e alluvioni”. Alluvioni all’Aquila? Poi si dice che l’opposizione non morde – in questo caso l’opposizione di Casini.
Fini che difende a Perugia i “matrimoni di fatto” può essere un dato reale di laicità. Tanto più se ha adottato la novità spinto dalla sua compagna. Ma è un revirement che resta inspiegato, come il voto e la cittadinanza subito agli immigrati, e altre sue uscite recenti – dopo la legge Bossi-Fini che tortura i lavoratori immigrati e le famiglie. Fini non è capace di pensare in proprio?
Saviano fa un panegirico di Falcone nella trasmissione di Fazio “Vieni via con me”, denunciando il linciaggio deliberato di cui il giudice fu vittima. Che la Rai, e Fazio, facciano ammenda (il linciaggio più costante fu perpetrato all’epoca da Santoro) è da apprezzare, benché dopo diciott’anni. Ma Saviano evita di dire chi isolò il giudice con la calunnia e lo additò ai suo assassini. Ascoltandolo, sembra anzi che sia stato Berlusconi.
I lettori di questo sito ricorderanno chi è stato: http://www.antiit.com/2010/05/la-vera-storia-di-giovanni-falcone.html
Lo stesso Saviano ridicolizza nella stessa nobile trasmissione progressista e di sinistra i suoi concittadini del casertano, insinuando che non sanno cosa sono i cotton fioc e i boxer, anzi nemmeno gli zainetti e le biciclette. Che, quando pensano, dicono roba da gay. Ma allora sanno cosa sono i gay? Saviano, ancora uno sforzo!
Futuro e Libertà debutta a Perugia con Patrizia D’Addario, invitata d’onore. Poi la caccia a furor di popolo. È proprio un casino.
Foto Ansa da Perugia con questa didascalia: “Andrea Ronchi annuncia, commosso, di rimettere a Fini il mandato di ministro”. Ronchi era dunque ministro. “Mandato” da Fini. Cos’è, la Spectre?
Matteo Renzi dice solo l’ovvio quando chiede che il Pd si liberi di D’Alema, Vetroni & Co.. Ma poi s’immortala come Fonzie. In dietro non più di dieci o vent’anni, ma di quaranta? La cultura è sempre quella, conservatrice. Magari più democristiana (ex) che comunista (ex), ecco.
Giornalisti, mafiosi esterni – 2
La cosa si potrebbe intitolare anche “Il Grande Fratello come riflesso condizionato”. La cosa - la disinformazione concorde, dunque orientata, pilotata - si può mettere sotto rubriche diverse, ma sempre è il tradimento del giornalismo, afflitto come non mai da servilismo, anche se lo camuffa come linea (ma la “linea” non era fascista?) e diritto alla libertà d’informazione. Inquietante è non solo il building di Ciancimino jr., un piccolo mafioso che sta dietro al patrimonio, quale testimone e censore della mafia politica – il terzo livello di cui tutti sono parte, eccetto noi. Più inquietante è che Giovanni Conso, ministro della giustizia di Giuliano Amato nel 1992 e di Carlo Azeglio Ciampi, peraltro integerrimo, è stato e viene detto ministro di Giuliano Amato. Per il riflesso non tanto sottile, evidentemente immortale, antisocialista. Anche se la decisione di sospendere il 41 bis la prese in un momento inoltrato del governo Ciampi (14 febbraio 1993-11 maggio 1994), cioè a metà governo. Perché si dice Berlusconi, ma il nemico dei tanti, dei molti, almeno di quelli che compilano e ispirano i dossier, giudici e altri informatori, è sempre contro ogni riforma: ogni aggiornamento, ogni modernizzazione, ogni atto di giustizia. E il nemico per eccellenza, in questo misoneismo pieno d privilegi, è chi promosse il referendum più schiacciante della storia, quello contro il pressapochismo e la fannullaggine dei magistrati.
Nella stessa linea è la responsabilità della sospensione del 41 bis fatta risalire al prefetto Niccolò Amato. Anch’egli (Amato Amato…) direttore delle carceri col governo di Giuliano Amato, e craxiano, se non socialista, dichiarato, che però non le dirigeva più da alcuni mesi col governo Ciampi. Nulla di scandaloso, ma questi “errori” fanno emergere un riflesso condizionato sotto la politica informativa dei grandi giornali, il riflesso antisocialista. Il Grande Suggeritore è quindi un ex Pci? Un missino? Da questo punto di vista sono la stessissima cosa. Il Grande Suggeritore che nella realtà sarà una selva di non piccoli suggeritori, i commissari di ogni redazione, e di un riflesso ormai condizionato: se vuoi scrivere in prima pagina la strada è solo questa.
Nella stessa linea è la responsabilità della sospensione del 41 bis fatta risalire al prefetto Niccolò Amato. Anch’egli (Amato Amato…) direttore delle carceri col governo di Giuliano Amato, e craxiano, se non socialista, dichiarato, che però non le dirigeva più da alcuni mesi col governo Ciampi. Nulla di scandaloso, ma questi “errori” fanno emergere un riflesso condizionato sotto la politica informativa dei grandi giornali, il riflesso antisocialista. Il Grande Suggeritore è quindi un ex Pci? Un missino? Da questo punto di vista sono la stessissima cosa. Il Grande Suggeritore che nella realtà sarà una selva di non piccoli suggeritori, i commissari di ogni redazione, e di un riflesso ormai condizionato: se vuoi scrivere in prima pagina la strada è solo questa.
Magneti Marelli, Ferrari e il vizietto di “fare il bilancio”
Torna la Fiat che “fa il bilancio”? Marchionne ha smentito, e per ora è lui al comando. L’Alfa Romeo non si vende, la Ferrari neppure, neppure in parte, e la Magneti Marelli neppure. Quest’ultima è un gioiello, cui la Fiat deve quasi tutto ciò per cui è ancora sul mercato, ed ha appena inaugurato un grande impianto in Russia. Mentre della Ferrari la Fiat ha appena rilevato un 5 per cento, che la porta al 90 per cento.
Dunque, non si vende, Marchionne avrà la meglio. Oppure si vende ma non ora, le voci non sono infondate. E trovano radici in una pratica trentennale, seppure abbandonata negli anni di Marchionne: quella di fare il bilancio abbellendo le poste (window dressing) e quando necessario vendendo qualche pezzo che consenta una plusvalenza. “Quando necessario” vuol dire praticamente sempre negli anni dell’Avvocato e di Cesare Romiti: ogni anno vendevano qualcosa, e con le plusvalenze pagano il dividendo alla famiglia, mentre l’automobile andava alla deriva, fra motori spompati e carrozzerie coi buchi.
Marchionne ha infine capito che la Fiat può resistere solo se il prodotto resiste, e un paio di nuovi modelli è riuscito a vararli. Ma è pur sempre un uomo di finanza. I famosi otto miliardi, o dieci, o quanti sono, d’investimenti sempre li annuncia e mai li avvia. Mentre ha comprato la Chrysler, una scommessa puramente finanziaria. E ha scorporato fiat Auto, altra operazione puramente finanziaria: oggi, certo, la Fiat Auto e il resto del gruppo valgono ognuno un po’ di più divisi che sommati insieme. Ma resta sempre il dubbio: per fare che? Forte di questo dubbio, e dei precedenti, il mercato correttamente scommette in un bilancio "fatto" in tre mosse: subito la quotazione di Ferrari, per salvare il bilancio 2011, l'anno dopo Magneti Marelli, e l'anno successivo l'Alfa Romeo - che è l'unica delle aziende del gruppo a miglorare le performances (è l'unica ad avere un modello nuovo...). Oppure prima la fusione con Chrysler e dopo la vendita dell'Alfa.
Dunque, non si vende, Marchionne avrà la meglio. Oppure si vende ma non ora, le voci non sono infondate. E trovano radici in una pratica trentennale, seppure abbandonata negli anni di Marchionne: quella di fare il bilancio abbellendo le poste (window dressing) e quando necessario vendendo qualche pezzo che consenta una plusvalenza. “Quando necessario” vuol dire praticamente sempre negli anni dell’Avvocato e di Cesare Romiti: ogni anno vendevano qualcosa, e con le plusvalenze pagano il dividendo alla famiglia, mentre l’automobile andava alla deriva, fra motori spompati e carrozzerie coi buchi.
Marchionne ha infine capito che la Fiat può resistere solo se il prodotto resiste, e un paio di nuovi modelli è riuscito a vararli. Ma è pur sempre un uomo di finanza. I famosi otto miliardi, o dieci, o quanti sono, d’investimenti sempre li annuncia e mai li avvia. Mentre ha comprato la Chrysler, una scommessa puramente finanziaria. E ha scorporato fiat Auto, altra operazione puramente finanziaria: oggi, certo, la Fiat Auto e il resto del gruppo valgono ognuno un po’ di più divisi che sommati insieme. Ma resta sempre il dubbio: per fare che? Forte di questo dubbio, e dei precedenti, il mercato correttamente scommette in un bilancio "fatto" in tre mosse: subito la quotazione di Ferrari, per salvare il bilancio 2011, l'anno dopo Magneti Marelli, e l'anno successivo l'Alfa Romeo - che è l'unica delle aziende del gruppo a miglorare le performances (è l'unica ad avere un modello nuovo...). Oppure prima la fusione con Chrysler e dopo la vendita dell'Alfa.
lunedì 15 novembre 2010
Se l’opinione pubblica si ribella, con Berlusconi
In teoria Berlusconi si è votato al suicidio. Ha tanto rotto le scatole, a Fazio, a Santoro, a Saviano, a tutti i virtuosi della Repubblica, alla Rai e fuori della Rai, che andare al voto equivale a suicidarsi. E allora perché insiste, non fa prima a buttarsi da un ponte? Perché è un megalomane? Sì. Perché alle elezioni si diverte? Sì. È il solo divertimento che gli si conosce in vent’anni, al governo è sommerso da gente non simpatica, Bossi, Fini, Casini, Follini, il professor Buttiglione, Draghi, Almunia, se c’è ancora lui. E poi ha vinto tutte le votazioni, comprese quelle che ha perso, nel 1996 e nel 2006. A meno che non sappia che, con questa periodizzazione decennale, la prossima sconfitta gli toccherà nel 2016 e quindi accelera con le votazioni – finora ne ha vinte tre in due anni.
C’è anche da considerare questa possibilità: che voglia sbugiardare la democrazia. Berlusconi essendo Berlusconi non possiamo non addebitargli le peggiori intenzioni, e dunque quella di dimostrare che il voto, la democrazia, non sono niente, meglio le oligarchie. Ma c’è oligarchia peggiore di quella che già governa l’Italia, tra i rifiuti del vecchio regime, le terze e quarte file, e i profittatori del nuovo, giudici, scienziati politici, e giornalisti, o meglio i padroni dei giornali? Si può metterla allora così: più di Berlusconi sono screditati i giudici e i giornalisti. Che infatti Berlusconi non perde occasione di svillaneggiare: appena gli danno un microfono li attacca. È una soluzione soddisfacente dell’enigma: Berlusconi è il rifiuto dell’opinione pubblica.
Che non è semplificatorio. Se ne può scherzare. Il popolo di destra si sente al suo solito circondato e aggredito, è lo stato d’animo del piccolo borghese, il compito di Silvio è di rincuorarlo. È il segreto vecchio delle passate elezioni, e il tradimento di Fini lo ripropone rafforzato. Il popolo di destra come al solito è smarrito. Si sente, si vede, accerchiato dalle televisioni e dai giornali: molti vedono Fazio, Ballarò, Santoro, Lerner, e le ufficialesse di complemento Annunziata, Dandini, Berlinguer, o ne leggono meraviglie nei giornali, mentre il loro Vespa è confinato alle undici di notte e più spesso a mezzanotte, ore per gli operosi berlusconiani infrequentabili. E insomma, è sempre la vecchia partita tra Berlusconi e la Rai…
Ma per i non berlusconiani c’è di più. Berlusconi è il rifiuto dell’opinione pubblica da parte dell’opinione pubblica. È un’appropriazione, si può anche pretenderlo, dell’opinione pubblica, contro il tradimento dei suoi interpreti o artefici. È comunque una sconfessione, e una rivolta. Contro un’opinione pubblica propriamente detta, ufficiale, che è incapace da vent’anni di capire perché non morde, non incide. In realtà non è che non capisca, è che non se lo chiede.
C’è anche da considerare questa possibilità: che voglia sbugiardare la democrazia. Berlusconi essendo Berlusconi non possiamo non addebitargli le peggiori intenzioni, e dunque quella di dimostrare che il voto, la democrazia, non sono niente, meglio le oligarchie. Ma c’è oligarchia peggiore di quella che già governa l’Italia, tra i rifiuti del vecchio regime, le terze e quarte file, e i profittatori del nuovo, giudici, scienziati politici, e giornalisti, o meglio i padroni dei giornali? Si può metterla allora così: più di Berlusconi sono screditati i giudici e i giornalisti. Che infatti Berlusconi non perde occasione di svillaneggiare: appena gli danno un microfono li attacca. È una soluzione soddisfacente dell’enigma: Berlusconi è il rifiuto dell’opinione pubblica.
Che non è semplificatorio. Se ne può scherzare. Il popolo di destra si sente al suo solito circondato e aggredito, è lo stato d’animo del piccolo borghese, il compito di Silvio è di rincuorarlo. È il segreto vecchio delle passate elezioni, e il tradimento di Fini lo ripropone rafforzato. Il popolo di destra come al solito è smarrito. Si sente, si vede, accerchiato dalle televisioni e dai giornali: molti vedono Fazio, Ballarò, Santoro, Lerner, e le ufficialesse di complemento Annunziata, Dandini, Berlinguer, o ne leggono meraviglie nei giornali, mentre il loro Vespa è confinato alle undici di notte e più spesso a mezzanotte, ore per gli operosi berlusconiani infrequentabili. E insomma, è sempre la vecchia partita tra Berlusconi e la Rai…
Ma per i non berlusconiani c’è di più. Berlusconi è il rifiuto dell’opinione pubblica da parte dell’opinione pubblica. È un’appropriazione, si può anche pretenderlo, dell’opinione pubblica, contro il tradimento dei suoi interpreti o artefici. È comunque una sconfessione, e una rivolta. Contro un’opinione pubblica propriamente detta, ufficiale, che è incapace da vent’anni di capire perché non morde, non incide. In realtà non è che non capisca, è che non se lo chiede.
Finiani no: perplessi casiniani e rutelliani
Rubare, anzi riprendersi, i voti di Berlusconi sì, ma sotto Fini no. Più di un distinguo e di un mugugno ha immediatamente seguito il progetto di Grande Centro varato l’altro ieri da Casini, Fini, Rutelli e Raffaele Lombardo. Non tanto fra i rutelliani, che nessuno ancora sa chi siano, quanto tra i casiniani. Per due motivi: aborrono Fini più di Berlusconi, e ritengono che gli elettori non li seguiranno al carro del partito Democratico. Le perplessità più forti sono state subito espresse a Roma e nel Lazio, ovunque in Campania, dove Clemente Mastella pensa di rilanciarsi al fianco di Berlusconi, in Calabria e, sempre più, in Sicilia (qui la disaffezione da Lombardo, malgrado il suo formidabile clientelismo, data già da oltre un anno).
Gli sviluppi di queste riserve sono imprevedibili. Anche perché Berlusconi non costituisce più, o in questo momento politico di debolezza, un magnete alternativo. L’esito dipenderà dalla legge elettorale che governerà le prossime elezioni. Se si torna al “mattarellum”, con le desistenze bilanciate tra le varie liste della coalizione, la compattazione del nuovo Centro sarà ardua. C’è la difficoltà scontata di uno schieramento terzo in un regime elettorale bipolare: i partiti maggiori offrono più certezze ai candidati. Ma il bilanciamento delle candidature tra gruppi diversi di uno schieramento potrebbe essere letale per la nuova formazione.
Gli sviluppi di queste riserve sono imprevedibili. Anche perché Berlusconi non costituisce più, o in questo momento politico di debolezza, un magnete alternativo. L’esito dipenderà dalla legge elettorale che governerà le prossime elezioni. Se si torna al “mattarellum”, con le desistenze bilanciate tra le varie liste della coalizione, la compattazione del nuovo Centro sarà ardua. C’è la difficoltà scontata di uno schieramento terzo in un regime elettorale bipolare: i partiti maggiori offrono più certezze ai candidati. Ma il bilanciamento delle candidature tra gruppi diversi di uno schieramento potrebbe essere letale per la nuova formazione.
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (73)
Giuseppe Leuzzi
Muore a Castellace Salvatore Rugolo, detto Ninì. La partecipazione di lutto elenca, tra moglie, generi, nuore e cognati, tutte le famiglie che contano nel paese: Mammoliti, Romeo, Violi, Luppino, Alvaro, oltre ai fratelli. Poi dice che la mafia si nasconde, e che c’è l’omertà.
Vincenzo Prestigiacomo fa la storia dei rapimenti di persona nella Palermo della belle époque, la Palermo dei Florio e degli Ingham-Whitaker nell’ultimo decennio dell’Ottocento (“Vita mondana e Mano Nera nella Palermo della Belle Époque”, Nuova Ipsa Editore). A undici anni Audrey Whitaker viene rapita mentre fa una passeggiata a cavallo, alla vigilia di una grande festa che la famiglia prepara per un barone Rothschild in visita. Una richiesta si riscatto sgrammaticata viene recapitata al padre Joss. Che in tutta solitudine, senza dire nulla a nessuno, paga e libera la figlia. La polizia ne viene a sapere qualcosa dalla banca, ma la famiglia Whitaker nega tutto. Omertà, direbbe la sociologia dei carabinieri. E invece è solo autoprotezione.
Tano Gullo, presentando il libro di Prestigiacomo nell’edizione palermitana di “Repubblica”, fa delle estorsioni, rapimenti di persona compresi, una sorta di partita tra ricchi e poveri. C’è sempre l’equivoco della mafia giustiziera, l’invidia sociale fa premio anche tra gli abbienti.
I poveri delle estorsioni sono guidati da “don” Vito Cascio Ferro, un delinquente incredibile, tanto era protetto.
Pietro Ciucci, il presidente dell’Anas, e con lui il ministro Matteoli, dicono che i lavori sulla Salerno-Reggio Calabria possono essere completati nel 2013. Mentre sanno che su due tratte di alti viadotti e lunghe gallerie, i quaranta km da Padula a Lauria e i venti da Palmi a Scilla, si lavora a ritmo ridotto. E che un centinaio di km ancora vanno appaltati, di cui una trentina di viadotti e gallerie tra Lauria e Frascineto.
Ciucci dice anche che i lavori non vanno avanti per gli attentati, oltre duecento. Non erano trecento? E sono tutti nell’ultimo anno, o nei tredici anni di lenta lavorazione della strada? Sono nei tredici anni. E sono stati devastanti o di poco conto? Di poco conto. I carabinieri hanno arrestato gli autori, noti?
Ci sono in Calabria quattromila posti barca, secondo l’Unione nazionale armatori da diporto. E ci sono dodicimila barche che non trovano ormeggio nei porti turistici attrezzati. La barca è un bene, per come è inteso in Italia, da milionari. Ma non ci sono sedicimila milionari in Calabria. Non che si vedano.
In Campania i posti barca disponibili sono undicimila. A fronte di una domanda che è 5,3 volte questa disponibilità.
“Pizzo, 50 assenti su 95” al Comune, titola la “Gazzetta del Sud”, sette dei quali i carabinieri hanno arrestato per assenze reiterate. Pizzo, comune di novemila abitanti, ha 95 dipendenti comunali.
Antimafia
Saviano fa un panegirico di Falcone nella trasmissione di Fazio “Vieni via con me”, denunciando il linciaggio deliberato di cui il giudice fu vittima. Che la Rai, e Fazio, facciano ammenda (il linciaggio più costante fu perpetrato all’epoca da Santoro) è da apprezzare, benché dopo diciott’anni. Ma Saviano evita di dire chi isolò il giudice con la calunnia e lo additò ai suo assassini. Ascoltandolo, sembra sia stato Berlusconi, che all’epoca non c’era.
I lettori di questo sito ricorderanno chi è stato: http://www.antiit.com/2010/05/la-vera-storia-di-giovanni-falcone.html
Lo stesso Saviano ridicolizza nella stessa nobile trasmissione progressista i suoi concittadini del casertano, insinuando che non sanno cosa sono i cotton fioc e i boxer, anzi nemmeno gli zainetti e le biciclette. Che, quando pensano, si dicono roba da gay. Ma allora sanno cosa sono i gay? Saviano, ancora uno sforzo!
Nicola Mancino, ministro dell’Interno al tempo del “papello” dei Ciancimino, spiega in Tribunale a Palermo lunedì 8 novembre che non c’è mai stat nessuna trattativa fra lo Stato e la mafia, e che nessuno gliene ha mai accennato. Parla non da democristiano ma in termini convinti e convincenti. Ma su “Corriere della sera”, “Repubblica”. “Stampa” e “Messaggero” non c’è spazio per lui, nemmeno una breve. Ciancimino jr. è, con Spatuzza, migliore, più interessante, più affidabile dell’ex ministro, poiché coinvolge, con Spatuzza, Berlusconi: sono insieme un duo molto più efficace, affidabile, eccetera, delle due o tre puttane di Berlusconi. Ma l’antimafia?
Va su tutti i giornali invece il giovane Ciancimino, denunciante non pentito, il quale garantisce che quarant’anni fa suo padre incontrò Berlusconi per investire su Milano 2. Quando suo padre non era ancora mafioso riconosciuto e Berlusconi era un immobiliarista. Non è informazione: è tecnicamente image building, la costruzione voluta, guidata, segreta, di Ciancimino jr. A fini di giustizia certamente no. Forse contro Berlusconi. Ma l’antimafia?
È possibile che Ciancimino padre abbia parlato quarant’anni fa anche con Carlo De Benedetti. Anzi, è più che probabile: i due, Berlusconi e De Benedetti, facevano affari nei primi anni Settanta, su e giù per l’Italia, con l’acquisto e la vendita di aree e immobili, è così che hanno fatto i soldi. Ma Ciancimino jr. non lo ricorda, l’antimafia è selettiva.
Calabria
Nove dei dieci nomi più diffusi nelle Pagine Bianche di Reggio Calabria e la sua provincia sono, secondo l’annuario telefonico del 2009, greci - il decimo è l'arabo Morabito:
Romeo 1.676
Morabito 913
Tripodi 766
Foti 600
Laganà 567
Marino 496
Surace 491
Calabrò 460
Macrì 449
Crea 430
Seguono con centinaia di entrate, a un’occhiata all’annuario: Siclari, Scopelliti, Polimeni (Polimeno), Tripodi, Surace (Suraci, Sorace), Spanò, Pellicanò, Vadalà, Zappia, Tripepi, Sìdari, Saccà, Meduri, Sorgonà…
Dopo Morabito vengono tanti Saraceno.
Il mare può unire e non dividere. È sicuramente il caso dello Ionio, dalle antiche migrazioni verso quella che sarà la Magna Grecia, il Salento e la Calabria, agli sbarchi dei disperati di oggi. Distintamente ionica è peraltro, oltre che una lettura (una “lingua”) dell’antico greco, la forma mentis tra le due rive del mare. La curiosità mite, nello sguardo chiaro, sotto la parlata brusca. E l’uso della strada. Dal ragazzo che andando in moto si gira per osservarvi meglio, ai due che si appaiano in moto per poter parlare mentre vanno. E soprattutto alla macchina ferma in mezzo alla strada perché il conducente ha urgenza di parlare con qualcuno che sta sul ciglio. Ma nello Ionio greco il sorpasso è facilitato: da Igumenitsa a Patrasso e a capo Matapan non c’è conducente che non si metta sul ciglio esterno della strada per facilitare il sorpasso. Mentre in Calabria il sorpasso è una sfida: il conducente del mezzo più lento si metterà in mezzo alla strada, se suonate o lampeggiate rallenterà ancora di più per farvi dispetto, e se lo appaiate all’improvviso accelererà per farvi desistere.
Nella “Dorotea” di Lope de Vega è “la patria del hombre màs infame”, cioè di Giuda. Non si dice perché, ma la fama era stata già definita nel 1635.
Nei “Saggi sulla letteratura italiana del Seicento”, Benedetto Croce rileva che in quegli anni il calabrese era diventato “il bersaglio di una satira mordace”.
Casanova, che fu ragazzo a scuola dal vescovo di Martirano, ora in provincia di Vibo Valentia, nelle memorie ne parla male: non domandate a chi incontrate il paese dove è nato, dice, “giacché, se questi è normanno o calabrese, deve, se ve lo dice, chiedervi scusa”. La Calabria essendo stata per un paio di secoli anche normanna è doppiamente colpevole?
Nel libro “Cuore” c’è “Il ragazzo calabrese”. È il quarto episodio del libro, e poi De Amicis se lo dimentica. Gli serve per cementare l’unità d’Italia, il ragazzo calabrese abbracciato dai suoi compagni in un scuola piemontese.
“La donna è il personaggio più importante e più autentico della Calabria. È anche il lusso di una natura scabra, immiserita dagli uomini”. Lo scrive Corrado Alvaro nell'"Ultimo diario", sessanta, settant'anni fa. In base all'esperienza di trenta, quarant'anni prima. Ma il pregiudizio è sempre prevalente
I carabinieri di Roma trovano a Gioia Tauro un container brasiliano con dieci quintali di cocaina. Il riflesso condizionato vuole il porto di Gioia il porto dei mafiosi. Ma la verità è che a Gioia la coca e le armi illegali si scoprono, sia pure grazie a dritte britanniche, a Rotterdam e Porto Said, altri porti di trasbordo per l’Europa, no.
leuzzi@antiit.eu
Muore a Castellace Salvatore Rugolo, detto Ninì. La partecipazione di lutto elenca, tra moglie, generi, nuore e cognati, tutte le famiglie che contano nel paese: Mammoliti, Romeo, Violi, Luppino, Alvaro, oltre ai fratelli. Poi dice che la mafia si nasconde, e che c’è l’omertà.
Vincenzo Prestigiacomo fa la storia dei rapimenti di persona nella Palermo della belle époque, la Palermo dei Florio e degli Ingham-Whitaker nell’ultimo decennio dell’Ottocento (“Vita mondana e Mano Nera nella Palermo della Belle Époque”, Nuova Ipsa Editore). A undici anni Audrey Whitaker viene rapita mentre fa una passeggiata a cavallo, alla vigilia di una grande festa che la famiglia prepara per un barone Rothschild in visita. Una richiesta si riscatto sgrammaticata viene recapitata al padre Joss. Che in tutta solitudine, senza dire nulla a nessuno, paga e libera la figlia. La polizia ne viene a sapere qualcosa dalla banca, ma la famiglia Whitaker nega tutto. Omertà, direbbe la sociologia dei carabinieri. E invece è solo autoprotezione.
Tano Gullo, presentando il libro di Prestigiacomo nell’edizione palermitana di “Repubblica”, fa delle estorsioni, rapimenti di persona compresi, una sorta di partita tra ricchi e poveri. C’è sempre l’equivoco della mafia giustiziera, l’invidia sociale fa premio anche tra gli abbienti.
I poveri delle estorsioni sono guidati da “don” Vito Cascio Ferro, un delinquente incredibile, tanto era protetto.
Pietro Ciucci, il presidente dell’Anas, e con lui il ministro Matteoli, dicono che i lavori sulla Salerno-Reggio Calabria possono essere completati nel 2013. Mentre sanno che su due tratte di alti viadotti e lunghe gallerie, i quaranta km da Padula a Lauria e i venti da Palmi a Scilla, si lavora a ritmo ridotto. E che un centinaio di km ancora vanno appaltati, di cui una trentina di viadotti e gallerie tra Lauria e Frascineto.
Ciucci dice anche che i lavori non vanno avanti per gli attentati, oltre duecento. Non erano trecento? E sono tutti nell’ultimo anno, o nei tredici anni di lenta lavorazione della strada? Sono nei tredici anni. E sono stati devastanti o di poco conto? Di poco conto. I carabinieri hanno arrestato gli autori, noti?
Ci sono in Calabria quattromila posti barca, secondo l’Unione nazionale armatori da diporto. E ci sono dodicimila barche che non trovano ormeggio nei porti turistici attrezzati. La barca è un bene, per come è inteso in Italia, da milionari. Ma non ci sono sedicimila milionari in Calabria. Non che si vedano.
In Campania i posti barca disponibili sono undicimila. A fronte di una domanda che è 5,3 volte questa disponibilità.
“Pizzo, 50 assenti su 95” al Comune, titola la “Gazzetta del Sud”, sette dei quali i carabinieri hanno arrestato per assenze reiterate. Pizzo, comune di novemila abitanti, ha 95 dipendenti comunali.
Antimafia
Saviano fa un panegirico di Falcone nella trasmissione di Fazio “Vieni via con me”, denunciando il linciaggio deliberato di cui il giudice fu vittima. Che la Rai, e Fazio, facciano ammenda (il linciaggio più costante fu perpetrato all’epoca da Santoro) è da apprezzare, benché dopo diciott’anni. Ma Saviano evita di dire chi isolò il giudice con la calunnia e lo additò ai suo assassini. Ascoltandolo, sembra sia stato Berlusconi, che all’epoca non c’era.
I lettori di questo sito ricorderanno chi è stato: http://www.antiit.com/2010/05/la-vera-storia-di-giovanni-falcone.html
Lo stesso Saviano ridicolizza nella stessa nobile trasmissione progressista i suoi concittadini del casertano, insinuando che non sanno cosa sono i cotton fioc e i boxer, anzi nemmeno gli zainetti e le biciclette. Che, quando pensano, si dicono roba da gay. Ma allora sanno cosa sono i gay? Saviano, ancora uno sforzo!
Nicola Mancino, ministro dell’Interno al tempo del “papello” dei Ciancimino, spiega in Tribunale a Palermo lunedì 8 novembre che non c’è mai stat nessuna trattativa fra lo Stato e la mafia, e che nessuno gliene ha mai accennato. Parla non da democristiano ma in termini convinti e convincenti. Ma su “Corriere della sera”, “Repubblica”. “Stampa” e “Messaggero” non c’è spazio per lui, nemmeno una breve. Ciancimino jr. è, con Spatuzza, migliore, più interessante, più affidabile dell’ex ministro, poiché coinvolge, con Spatuzza, Berlusconi: sono insieme un duo molto più efficace, affidabile, eccetera, delle due o tre puttane di Berlusconi. Ma l’antimafia?
Va su tutti i giornali invece il giovane Ciancimino, denunciante non pentito, il quale garantisce che quarant’anni fa suo padre incontrò Berlusconi per investire su Milano 2. Quando suo padre non era ancora mafioso riconosciuto e Berlusconi era un immobiliarista. Non è informazione: è tecnicamente image building, la costruzione voluta, guidata, segreta, di Ciancimino jr. A fini di giustizia certamente no. Forse contro Berlusconi. Ma l’antimafia?
È possibile che Ciancimino padre abbia parlato quarant’anni fa anche con Carlo De Benedetti. Anzi, è più che probabile: i due, Berlusconi e De Benedetti, facevano affari nei primi anni Settanta, su e giù per l’Italia, con l’acquisto e la vendita di aree e immobili, è così che hanno fatto i soldi. Ma Ciancimino jr. non lo ricorda, l’antimafia è selettiva.
Calabria
Nove dei dieci nomi più diffusi nelle Pagine Bianche di Reggio Calabria e la sua provincia sono, secondo l’annuario telefonico del 2009, greci - il decimo è l'arabo Morabito:
Romeo 1.676
Morabito 913
Tripodi 766
Foti 600
Laganà 567
Marino 496
Surace 491
Calabrò 460
Macrì 449
Crea 430
Seguono con centinaia di entrate, a un’occhiata all’annuario: Siclari, Scopelliti, Polimeni (Polimeno), Tripodi, Surace (Suraci, Sorace), Spanò, Pellicanò, Vadalà, Zappia, Tripepi, Sìdari, Saccà, Meduri, Sorgonà…
Dopo Morabito vengono tanti Saraceno.
Il mare può unire e non dividere. È sicuramente il caso dello Ionio, dalle antiche migrazioni verso quella che sarà la Magna Grecia, il Salento e la Calabria, agli sbarchi dei disperati di oggi. Distintamente ionica è peraltro, oltre che una lettura (una “lingua”) dell’antico greco, la forma mentis tra le due rive del mare. La curiosità mite, nello sguardo chiaro, sotto la parlata brusca. E l’uso della strada. Dal ragazzo che andando in moto si gira per osservarvi meglio, ai due che si appaiano in moto per poter parlare mentre vanno. E soprattutto alla macchina ferma in mezzo alla strada perché il conducente ha urgenza di parlare con qualcuno che sta sul ciglio. Ma nello Ionio greco il sorpasso è facilitato: da Igumenitsa a Patrasso e a capo Matapan non c’è conducente che non si metta sul ciglio esterno della strada per facilitare il sorpasso. Mentre in Calabria il sorpasso è una sfida: il conducente del mezzo più lento si metterà in mezzo alla strada, se suonate o lampeggiate rallenterà ancora di più per farvi dispetto, e se lo appaiate all’improvviso accelererà per farvi desistere.
Nella “Dorotea” di Lope de Vega è “la patria del hombre màs infame”, cioè di Giuda. Non si dice perché, ma la fama era stata già definita nel 1635.
Nei “Saggi sulla letteratura italiana del Seicento”, Benedetto Croce rileva che in quegli anni il calabrese era diventato “il bersaglio di una satira mordace”.
Casanova, che fu ragazzo a scuola dal vescovo di Martirano, ora in provincia di Vibo Valentia, nelle memorie ne parla male: non domandate a chi incontrate il paese dove è nato, dice, “giacché, se questi è normanno o calabrese, deve, se ve lo dice, chiedervi scusa”. La Calabria essendo stata per un paio di secoli anche normanna è doppiamente colpevole?
Nel libro “Cuore” c’è “Il ragazzo calabrese”. È il quarto episodio del libro, e poi De Amicis se lo dimentica. Gli serve per cementare l’unità d’Italia, il ragazzo calabrese abbracciato dai suoi compagni in un scuola piemontese.
“La donna è il personaggio più importante e più autentico della Calabria. È anche il lusso di una natura scabra, immiserita dagli uomini”. Lo scrive Corrado Alvaro nell'"Ultimo diario", sessanta, settant'anni fa. In base all'esperienza di trenta, quarant'anni prima. Ma il pregiudizio è sempre prevalente
I carabinieri di Roma trovano a Gioia Tauro un container brasiliano con dieci quintali di cocaina. Il riflesso condizionato vuole il porto di Gioia il porto dei mafiosi. Ma la verità è che a Gioia la coca e le armi illegali si scoprono, sia pure grazie a dritte britanniche, a Rotterdam e Porto Said, altri porti di trasbordo per l’Europa, no.
leuzzi@antiit.eu
I morti non contano, la mafia è il terzo livello
Pasquale Inzitari, condannato in primo grado a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa, ha creato una Fondazione Francesco Maria Inzitari, dal nome del figlio morto diciottenne. La ragione sociale della Fondazione è “diffondere l’etica della legalità e del vivere civile, in opposizione alla violenza delle organizzazioni criminali”. Sabato 13 novembre la Fondazione ha presentato un progetto di Scuola della legalità, per la diffusione dei temi antimafiosi nelle scuole. Alla presentazione ha partecipato il Procuratore aggiunto dell’Antimafia di Reggio Calabria, Michele Prestipino.
Francesco Maria Inzitari è stato ucciso il 5 dicembre 2009 da due killer con dieci colpi di pistola, mentre si recava a una festa di compleanno di compagni di scuola. Un anno e mezzo prima, il 26 aprile 2007, il cognato di Pasquale Inzitari, Nino Princi, fratello della moglie Maria, era stato ucciso in un altro agguato con un’autobomba. Fra le due morti i carabinieri hanno perseguito e fatto condannare Pasquale Inzitari per associazione mafiosa. Ma chi sono gli assassini di Nino Princi e Francesco Maria Inzitari non si sa e nessuno cerca di saperlo.
Pasquale Inzitari può essere un mafioso di complemento, come dice la sentenza di primo grado. È stato vicesindaco al suo paese in una giunta sciolta nel 2000 per infiltrazioni mafiose. Consigliere provinciale a Reggio Calabria per l’Udeur di Clemente Mastella, e candidato non eletto alle politiche del 2006, è stato fotografato dai carabinieri a Villa San Giovanni, a un convegno elettorale in albergo con capicosche mafiosi. Che abbia creato una fondazione per la legalità in memoria del figlio assassinato può non voler dire nulla: anche Francesco Nuzzo, l’ex sindaco di Castel Volturno arrestato oggi per associazione con la camorra, organizzava cortei per la legalità – e per di più è magistrato, sostituto procuratore generale a Brescia, e Democratico, dunque al di sopra di ogni sospetto. Può essere ininfluente anche la partecipazione ai lavori della Fondazione della Procura antimafia di Reggio Calabria, una distrazione. Però. Al processo d’appello, il Pubblico ministero ha chiesto la conferma della condanna per Inzitari. Ma ha chiesto anche l’assoluzione per Domenico Rugolo, cui Inzitari sarebbe stato associato criminalmente, che invece in primo grado era stato condannato a una pena doppia - Rugolo è il suocero di Nino Princi, il cognato di Pasquale Inzitari fatto saltare con la macchina.
In alternativa, si può pensare Inzitari il solito politico Udeur vittima della caccia alle streghe scatenata in Calabria dal notorio magistrato napoletano De Magistris. E infine si può pensarlo un politico-imprenditore di successo che non ha pagato il pizzo, o non l’ha pagato a chi “doveva”, o non ha pagato a sufficienza. Questa terza ipotesi è certa, gli Inzitari sono vittime di mafia, le altre due sono dubbie.
Gli Inzitari sono di Rizziconi, un piccolo paese di vasta imprenditoria, agricola e commerciale, il cui territorio insiste sull’area industriale e commerciale di Gioia Tauro, lungo la (ex) statale 111 Gioia Tauro-Locri. È in questa enclave che hanno creato nel 2007 il centro commerciale Porto degli Ulivi, subito diventato il punto di riferimento della ricca piana di Gioia Tauro, un bacino di circa duecentomila persone. un paese di molte iniziative agricole e commerciali. Pasquale è un politico oggi cinquantenne, Maria Princi un’imprenditrice del settore commerciale (abbigliamento, elettronica). Nino Princi, ritenuto la mente finanziaria della famiglia, era un uomo d’affari molto attivo, sempre in qualche compravendita (d’immobili, terreni, società, banche, quote azionarie, e squadre di calcio, per ultimo il Catanzaro, per “produrre” perdite). In questo giro rientra anche il Porto degli Ulivi, che ha avuto immediato successo ed è stato rivenduto al Credit Suisse per undici milioni – con una plusvalenza di almeno 3, e forse 5, milioni. Imparentato da un trentennio con Domenico Rugolo, prima condannato come capomafia e ora assolto, di cui aveva sposato la figlia Grazia, aveva trascinato anche il suocero nella sua vorticosa finanza: banche popolari, compravendite d’immobili e terreni. Ma nei limiti della legge, almeno che si sappia.
Nel processo a Inzitari e Rugolo si sostiene che il primo aveva bisogno del secondo per “contrastare l’invadenza” della cosca Crea, che nella geografia criminale controlla la zona di Rizziconi. Ma si sostiene anche che gli Inzitari sono associati alla cosca Crea – per questo lui è stato condannato. Sarebbe stato Inzitari, vice-sindaco nella giunta sciolta nel 2000 per infiltrazioni mafiose, a mutare la destinazione d’uso da zona agricola a industriale dell’enclave in territorio di Gioia Tauro, e quindi ad acquistare i terreni. Che appartenevano ai Crea, ai quali li ha pagati secondo la nuova destinazione, a prezzo maggiorato. Né Rugolo si può mettere in dissidio con i Crea, dato che nello stesso processo si dice che Domenico Rugolo ha cercato d’evitare l’arresto al vecchio Crea, il capocosca Teodoro, in una retata dei carabinieri, portandoselo via sulle spalle - Crea è disabile. Si dà inoltre per scontato che i Crea di Rizziconi sono alleati dei capicosca di Gioia Tauro, i Piromalli e i Mulé. E questa è l’unica circostanza nella vicenda in cui le mafie di Gioia Tauro sono nominate. Per il resto sono inesistenti. Sono, come già il capomafia Provenzano, confidenti?
È uno dei (pochi, pochissimi) misteri della mafia a Gioia Tauro, dove peraltro si paga “tranquillamente” il pizzo anche per un gelato, e forse per uno sbadiglio. Vista da fuori, la vicenda è una ritorsione di Gioia Tauro contro questa famiglia rizziconese di successo, che non pagava, o non pagava abbastanza. I carabinieri credono il contrario, che gli Inzitari-Princi siano mafiosi, siano entrati in una guerra di mafia con i capicosca di Rizziconi, i Crea, e siano perdenti. E sarà. Ma i delitti, chi li ha commessi?
Resta che non si possono dire i carabinieri schierati per i mafiosi di Gioia Tauro o di Rizziconi contro i mafiosi Inzitari - ammesso che gli Inzitari siano mafiosi, come i carabinieri vogliono. Ma si capisce perché della mafia non si viene a capo: per un secolo e oltre i carabinieri si sono rifatti delle mafie con i soliti ignoti (ladri, imbroglioni, contrabbandieri, ubriaconi), da alcuni decenni col terzo livello. Mentre si può uccidere liberamente: c’è in questi paesi gente che ha perpetrato liberamente diecine di assassini, cioè pubblicamente, e circola indisturbata.
Il terzo livello implica che si controllino minutamente le persone che non delinquono. Per vedere se non abbiano incontrato questi liberi killer al bar, o non abbiano scambiato con loro un saluto per strada, magari solo in risposta, e negare loro il porto d’armi, e possibilmente la patente, in attesa di un processone per concorso esterno a cui accomunarli. Ciò naturalmente monopolizza tutte le energie investigative.
Francesco Maria Inzitari è stato ucciso il 5 dicembre 2009 da due killer con dieci colpi di pistola, mentre si recava a una festa di compleanno di compagni di scuola. Un anno e mezzo prima, il 26 aprile 2007, il cognato di Pasquale Inzitari, Nino Princi, fratello della moglie Maria, era stato ucciso in un altro agguato con un’autobomba. Fra le due morti i carabinieri hanno perseguito e fatto condannare Pasquale Inzitari per associazione mafiosa. Ma chi sono gli assassini di Nino Princi e Francesco Maria Inzitari non si sa e nessuno cerca di saperlo.
Pasquale Inzitari può essere un mafioso di complemento, come dice la sentenza di primo grado. È stato vicesindaco al suo paese in una giunta sciolta nel 2000 per infiltrazioni mafiose. Consigliere provinciale a Reggio Calabria per l’Udeur di Clemente Mastella, e candidato non eletto alle politiche del 2006, è stato fotografato dai carabinieri a Villa San Giovanni, a un convegno elettorale in albergo con capicosche mafiosi. Che abbia creato una fondazione per la legalità in memoria del figlio assassinato può non voler dire nulla: anche Francesco Nuzzo, l’ex sindaco di Castel Volturno arrestato oggi per associazione con la camorra, organizzava cortei per la legalità – e per di più è magistrato, sostituto procuratore generale a Brescia, e Democratico, dunque al di sopra di ogni sospetto. Può essere ininfluente anche la partecipazione ai lavori della Fondazione della Procura antimafia di Reggio Calabria, una distrazione. Però. Al processo d’appello, il Pubblico ministero ha chiesto la conferma della condanna per Inzitari. Ma ha chiesto anche l’assoluzione per Domenico Rugolo, cui Inzitari sarebbe stato associato criminalmente, che invece in primo grado era stato condannato a una pena doppia - Rugolo è il suocero di Nino Princi, il cognato di Pasquale Inzitari fatto saltare con la macchina.
In alternativa, si può pensare Inzitari il solito politico Udeur vittima della caccia alle streghe scatenata in Calabria dal notorio magistrato napoletano De Magistris. E infine si può pensarlo un politico-imprenditore di successo che non ha pagato il pizzo, o non l’ha pagato a chi “doveva”, o non ha pagato a sufficienza. Questa terza ipotesi è certa, gli Inzitari sono vittime di mafia, le altre due sono dubbie.
Gli Inzitari sono di Rizziconi, un piccolo paese di vasta imprenditoria, agricola e commerciale, il cui territorio insiste sull’area industriale e commerciale di Gioia Tauro, lungo la (ex) statale 111 Gioia Tauro-Locri. È in questa enclave che hanno creato nel 2007 il centro commerciale Porto degli Ulivi, subito diventato il punto di riferimento della ricca piana di Gioia Tauro, un bacino di circa duecentomila persone. un paese di molte iniziative agricole e commerciali. Pasquale è un politico oggi cinquantenne, Maria Princi un’imprenditrice del settore commerciale (abbigliamento, elettronica). Nino Princi, ritenuto la mente finanziaria della famiglia, era un uomo d’affari molto attivo, sempre in qualche compravendita (d’immobili, terreni, società, banche, quote azionarie, e squadre di calcio, per ultimo il Catanzaro, per “produrre” perdite). In questo giro rientra anche il Porto degli Ulivi, che ha avuto immediato successo ed è stato rivenduto al Credit Suisse per undici milioni – con una plusvalenza di almeno 3, e forse 5, milioni. Imparentato da un trentennio con Domenico Rugolo, prima condannato come capomafia e ora assolto, di cui aveva sposato la figlia Grazia, aveva trascinato anche il suocero nella sua vorticosa finanza: banche popolari, compravendite d’immobili e terreni. Ma nei limiti della legge, almeno che si sappia.
Nel processo a Inzitari e Rugolo si sostiene che il primo aveva bisogno del secondo per “contrastare l’invadenza” della cosca Crea, che nella geografia criminale controlla la zona di Rizziconi. Ma si sostiene anche che gli Inzitari sono associati alla cosca Crea – per questo lui è stato condannato. Sarebbe stato Inzitari, vice-sindaco nella giunta sciolta nel 2000 per infiltrazioni mafiose, a mutare la destinazione d’uso da zona agricola a industriale dell’enclave in territorio di Gioia Tauro, e quindi ad acquistare i terreni. Che appartenevano ai Crea, ai quali li ha pagati secondo la nuova destinazione, a prezzo maggiorato. Né Rugolo si può mettere in dissidio con i Crea, dato che nello stesso processo si dice che Domenico Rugolo ha cercato d’evitare l’arresto al vecchio Crea, il capocosca Teodoro, in una retata dei carabinieri, portandoselo via sulle spalle - Crea è disabile. Si dà inoltre per scontato che i Crea di Rizziconi sono alleati dei capicosca di Gioia Tauro, i Piromalli e i Mulé. E questa è l’unica circostanza nella vicenda in cui le mafie di Gioia Tauro sono nominate. Per il resto sono inesistenti. Sono, come già il capomafia Provenzano, confidenti?
È uno dei (pochi, pochissimi) misteri della mafia a Gioia Tauro, dove peraltro si paga “tranquillamente” il pizzo anche per un gelato, e forse per uno sbadiglio. Vista da fuori, la vicenda è una ritorsione di Gioia Tauro contro questa famiglia rizziconese di successo, che non pagava, o non pagava abbastanza. I carabinieri credono il contrario, che gli Inzitari-Princi siano mafiosi, siano entrati in una guerra di mafia con i capicosca di Rizziconi, i Crea, e siano perdenti. E sarà. Ma i delitti, chi li ha commessi?
Resta che non si possono dire i carabinieri schierati per i mafiosi di Gioia Tauro o di Rizziconi contro i mafiosi Inzitari - ammesso che gli Inzitari siano mafiosi, come i carabinieri vogliono. Ma si capisce perché della mafia non si viene a capo: per un secolo e oltre i carabinieri si sono rifatti delle mafie con i soliti ignoti (ladri, imbroglioni, contrabbandieri, ubriaconi), da alcuni decenni col terzo livello. Mentre si può uccidere liberamente: c’è in questi paesi gente che ha perpetrato liberamente diecine di assassini, cioè pubblicamente, e circola indisturbata.
Il terzo livello implica che si controllino minutamente le persone che non delinquono. Per vedere se non abbiano incontrato questi liberi killer al bar, o non abbiano scambiato con loro un saluto per strada, magari solo in risposta, e negare loro il porto d’armi, e possibilmente la patente, in attesa di un processone per concorso esterno a cui accomunarli. Ciò naturalmente monopolizza tutte le energie investigative.
Iscriviti a:
Post (Atom)