Il genere Oliver Sacks, della follia nella normalità, gelato: sono ottanta pagine di gelo, fisico e mentale, che attraversano il racconto che dà il titolo alla raccolta, di un’infanzia in un villaggio svevo in Romania al confine con l’Ungheria, tra esseri umani senza storia e senza spessore, senza linfa, e un mondo inanimato, di sangue, ossa, escrementi, anche dove è animato – le bestie sono immonde, gli adulti decrepiti, verrucosi, ubriaconi. Margherita Carbonaro ha ritradotto in parte e ampliato di più di un terzo l’edizione originale della raccolta, tradotta da Fabrizio Rondolino nel 1987, sulla base di una riedizione curata e in parte riscritta quest’anno dall’autrice, dopo il premio Nobel, ma la scrittura evita il disgelo.
Il libro è nella copertina di questa edizione Feltrinelli: tutto è desolato, anche se il luogo s’indovina ridente - una volta è “sgradevolmente bello” - e la vera infanzia seguita, accudita. È una famiglia tedesca, quindi i bambini a tavola non possono parlare, e l’educazione si fa con gli schiaffi. Ma la mamma accende la luce la mattina e dice buongiorno, si mangia con forchetta e coltello, e c’è gioia, anche se c’è paura nella gioia (“il mio cuore batte di paura nella gioia, di paura di non poter più gioire, di paura che paura e gioia siano la stessa cosa”). L’esercizio è insistitito da neo école du regard anni 1980, o da tardo adattamento della scuola, di fenomenologia applicata: le cose si appropriano del linguaggio. Esposto talvolta in esercizi semantici: tre pagine di declinazione di “bello” (“A quel tempo in magio”), una sullo spazzare (“Gli spazzini”), prove d’autore. Più spesso in forma di visioni piatte: sogni, ricostruzioni, le istantanee seppiate di una volta, dopo lunga posa. Che Herta Müller condivide con altri scrittori tedeschi meridionali, Bachmann, Jelinek, Ransmayr, Bernhard. È una sorta di cifra, questa scrittura della decomposizione, ereditaria, per avere avuto “padri” nazisti – per le scrittrici padri in senso proprio, non figurato.
L’ampliamento riguarda i testi che la censura comunista in Romania non voleva pubblicati: il 1987 è l’anno in cui Herta Müller, tedesca di Romania, emigrava a 34 anni in Germania. Dopodiché la pubblicazione di testi antitotalitari, benché sempre narrativi, le ha valso a tutti gli effetti pratici analoga censura in molte parti dell’Occidente, Italia compresa – prima del Nobel Herta Müller era tradotta e pubblicata da Keller, editore intrepido di Rovereto.
Herta Müller, Bassure, Feltrinelli, pp. 159, € 15
sabato 4 dicembre 2010
Milano vuole le tangenti del gas
C’è il vetusto “tanto peggio tanto meglio” nei resoconti e i commenti concordi dei maggiori giornali, “Sole 24 Ore” compreso, contro l’Eni per il South Stream, la grande condotta del gas con la Gazprom russa. Che è un affare da tutti i punti di vista, e per tutti, senza controindicazioni: l’Eni, l’Italia (sicurezza delle forniture, prezzi), l’Europa, e la Russia certo. Ma non sta bene agli Usa. Senza nocumento però per le relazioni Italia-Usa, che, come dice la segretaria di Stato Clinton, sono le migliori (è dal 1955 che gli Usa obiettano agli interessi dell’Italia a Mosca, senza nocumento). E non sta bene nemmeno alla Germania. Questa è una novità, ma giusto perché la Germania vuol essere lei la partner privilegiata, se non unica, di Gazprom, e a questo fine ha incaricato il predecessore di Angela Merkel alla cancelleria, il socialista Schroeder, e il suo ex mministro degli Esteri Joschka Fischer. Niente di meno.
Ora, si supporrebbe che quanto non sta bene agli Usa e alla Germania, paesi imperiali, stia bene all'Italia, la proletaria. E tuttavia, e malgrado l’antiamericanismo di fondo dei maggiori giornali, il “Sole” in questo caso escluso, cronache e commenti sono tutti negativi: alzo zero, si direbbe in artiglieria, contro il gruppo italiano del petrolio. Non si criticano i rapporti malevoli degli affaristi americani tournés diplomatici a Roma contro l’Eni. Si critica l’Eni, e Berlusconi in quanto sostiene l’Eni. Curiosamente, “La Stampa” critica l’Eni che porta il gas in Italia con rifornimenti sicuri e a prezzi convenienti ma non la Fiat che va a fabbricare blindati in Russia per conto dell’aborrito Putin.
Massimo Mucchetti sul “Corriere della sera” dice che South Stream si farà perché l’Eni ha a libro paga dei giornalisti – lo dice facendo finta che se lo dicano gli americani tra di loro. Allo stesso modo si potrebbe dire che l’America ha dei giornalisti a libro paga, o la Germania. O la Edison, caposaldo milanese un po' decaduto, che sempre annuncia gradi accordi di importazione dalla russia, e mai li realizza. Di cui è socio non minore la Tassara di Zaleski, che è quanto dire Bazoli, il patron del “Corriere” da un paio d'anni.
Sicuramente, l’unanimità contro un’operazione imbattibile è un riflesso condizionato della vecchia cultura cominformista che informa l’opinione pubblica in Italia, l’unico paese dove il sovietismo è in auge, al “tanto peggio tanto meglio”. Ma altrettanto sicuramente ci sono in questa concordia di rappresentazioni, oggi come cinque anni fa, all’origine del progetto, i ferocissimi appetiti delle piccole vedette lombarde dell’energia: i grossisti che vogliono taglieggiare l’Eni (vogliono garantiti i margini, cioè una rendita, senza peraotro offrire un servizio apprezzabile), oppure importare in proprio. Mucchetti ne ricorda uno, Bruno Mentasti, un amico di Berlusconi che Berlusconi portava avanti nei primi anni Duemila, lasciando Gazprom sbalordita. Mentra tace del broker più importante: A2A, la società per l'energia di Milano, che vuole anch'essa la sua parte - così come Edison, di cui A2A si vuole padrona.
Nell’analisi più dettagliata, quella dello stesso Mucchetti sul “Corriere della sera”, gli accordi per South Stream, che come tutti gli accordi si rinegoziano in continuazione nell’interesse delle parti, vengono criticati come immutabili in eterno… E si presenta Mentasti come un uomo dei russi. Mentre è – era – invece l’uomo che Berlusconi proponeva ai russi come intermediario, se non come grande importatore. I fatti essenziali vengono peraltro taciuti. Che l’Eni lavora con Gazprom ormai dal 1969, e ci ha guadagnato sempre molto. Che Gazprom è la maggiore società del gas del mondo. Che tutta Europa vorrebbe soppiantare l’Eni nel ruolo di partner privilegiato di Gazprom.
Con Mentasti, peraltro, un altro aspetto della questione va detto, che viene taciuto – anch’esso molto lombardo, anzi milanese. Bruno Mentasti, che Berlusconi voleva imporre a Medvedev, era in quell’affare il marito di sua moglie: era la signora Mentasti che aveva il cuore di Berlusconi. E non per il noto casanovismo dello stesso, ma per essere intima dell’allora signora Veronica. Del cui odio verso il marito è stata dopo qualche anno confidente con “Repubblica” e altri giornali e incitatrice. Dopo cioè che Berlusconi non aveva dato il gas della Gazprom al marito – o la provvigione in Austria tramite la Centrex, che è la stessa cosa. Una storia di piccola corruzione, e di vendette femminili, molto da “donna lombarda”.
Ma il "meglio" forse deve ancora venire, la maggiore sorpresa. Milano è città che lavora di gruppo, e dunque resta da aspettare cosà farà la Procura: arresterà i capi dell'Eni, oppure i giornalisti pagati dall'Eni? La procura è in quest'affare in colpevole ritardo.
Ora, si supporrebbe che quanto non sta bene agli Usa e alla Germania, paesi imperiali, stia bene all'Italia, la proletaria. E tuttavia, e malgrado l’antiamericanismo di fondo dei maggiori giornali, il “Sole” in questo caso escluso, cronache e commenti sono tutti negativi: alzo zero, si direbbe in artiglieria, contro il gruppo italiano del petrolio. Non si criticano i rapporti malevoli degli affaristi americani tournés diplomatici a Roma contro l’Eni. Si critica l’Eni, e Berlusconi in quanto sostiene l’Eni. Curiosamente, “La Stampa” critica l’Eni che porta il gas in Italia con rifornimenti sicuri e a prezzi convenienti ma non la Fiat che va a fabbricare blindati in Russia per conto dell’aborrito Putin.
Massimo Mucchetti sul “Corriere della sera” dice che South Stream si farà perché l’Eni ha a libro paga dei giornalisti – lo dice facendo finta che se lo dicano gli americani tra di loro. Allo stesso modo si potrebbe dire che l’America ha dei giornalisti a libro paga, o la Germania. O la Edison, caposaldo milanese un po' decaduto, che sempre annuncia gradi accordi di importazione dalla russia, e mai li realizza. Di cui è socio non minore la Tassara di Zaleski, che è quanto dire Bazoli, il patron del “Corriere” da un paio d'anni.
Sicuramente, l’unanimità contro un’operazione imbattibile è un riflesso condizionato della vecchia cultura cominformista che informa l’opinione pubblica in Italia, l’unico paese dove il sovietismo è in auge, al “tanto peggio tanto meglio”. Ma altrettanto sicuramente ci sono in questa concordia di rappresentazioni, oggi come cinque anni fa, all’origine del progetto, i ferocissimi appetiti delle piccole vedette lombarde dell’energia: i grossisti che vogliono taglieggiare l’Eni (vogliono garantiti i margini, cioè una rendita, senza peraotro offrire un servizio apprezzabile), oppure importare in proprio. Mucchetti ne ricorda uno, Bruno Mentasti, un amico di Berlusconi che Berlusconi portava avanti nei primi anni Duemila, lasciando Gazprom sbalordita. Mentra tace del broker più importante: A2A, la società per l'energia di Milano, che vuole anch'essa la sua parte - così come Edison, di cui A2A si vuole padrona.
Nell’analisi più dettagliata, quella dello stesso Mucchetti sul “Corriere della sera”, gli accordi per South Stream, che come tutti gli accordi si rinegoziano in continuazione nell’interesse delle parti, vengono criticati come immutabili in eterno… E si presenta Mentasti come un uomo dei russi. Mentre è – era – invece l’uomo che Berlusconi proponeva ai russi come intermediario, se non come grande importatore. I fatti essenziali vengono peraltro taciuti. Che l’Eni lavora con Gazprom ormai dal 1969, e ci ha guadagnato sempre molto. Che Gazprom è la maggiore società del gas del mondo. Che tutta Europa vorrebbe soppiantare l’Eni nel ruolo di partner privilegiato di Gazprom.
Con Mentasti, peraltro, un altro aspetto della questione va detto, che viene taciuto – anch’esso molto lombardo, anzi milanese. Bruno Mentasti, che Berlusconi voleva imporre a Medvedev, era in quell’affare il marito di sua moglie: era la signora Mentasti che aveva il cuore di Berlusconi. E non per il noto casanovismo dello stesso, ma per essere intima dell’allora signora Veronica. Del cui odio verso il marito è stata dopo qualche anno confidente con “Repubblica” e altri giornali e incitatrice. Dopo cioè che Berlusconi non aveva dato il gas della Gazprom al marito – o la provvigione in Austria tramite la Centrex, che è la stessa cosa. Una storia di piccola corruzione, e di vendette femminili, molto da “donna lombarda”.
Ma il "meglio" forse deve ancora venire, la maggiore sorpresa. Milano è città che lavora di gruppo, e dunque resta da aspettare cosà farà la Procura: arresterà i capi dell'Eni, oppure i giornalisti pagati dall'Eni? La procura è in quest'affare in colpevole ritardo.
Ombre - 70
Ciancimino jr. afferma infine che il “signor Franco”, che ha asservito lo Stato alla mafia e che finora non riconosceva, è l’ex capo della polizia De Gennaro. Personaggio tra i più fotografati. Sbaglia anche le date, attribuendo a De Gennaro una diecina d’anni in più.
L’erede è in crisi d’astinenza, Spatuzza gli ha rubato le prime pagine, e si può capire. Ma il dottor Ingroia, giudice a Palermo, gli crede: “Perché no?”. E i giornali ci fanno due e quattro pagine. Senza credergli, ma non lo dicono. Il fatto, tra l’altro, non interessa a nessuno, la Sicilia non fa più notizia – “Don Vito”, le memorie compiacenti della famiglia Ciancimino illustrate da Feltrinelli, è tra i libri più invenduti. Masochismo? .
“Fini e Berlusconi hanno il sacro terrore di andare alle urne”, gongola l’ex presidente Scalfaro, che dopo una vita a destra vuole morire a sinistra. Dopo aver disciolto due Parlamenti, sempre gongolando. Senza alcun rispetto per il voto, e per la Costituzione.
A parte il giudizio politico, non capire che Berlusconi vuole le elezioni.
Dall’alba al tramonto giovedì la Rai martella l’ascoltatore con un “vertice” Casini-Fini-Rutelli, più l’onorevole Briguglio, l’onorevole Tabacci e altri pochi statisti di analoga misura. Che si saranno detti? E pi, perché farsi pagare l’abbonamento da tutti gli italiani, non possono incontrarsi a casa?
Fini convoca i “suoi” parlamentari per le 14, per proporre la mozione di sfiducia a Berlusconi. Ma alle 12.30 la mozione è anticipata all’Ansa dall’onorevole Briguglio insieme col capogruppo onorevole Urso. Fascisti sempre. Che non sarebbe una cattiva notizia: almeno sarebbero qualcosa.
Chiara Rapaccini, giovane moglie di Monicelli, da cui il regista si era allontanato per vivere solo, a novant’anni, dice che il suicidio è colpa di Berlusconi. Non lo dice, lo fa capire: “(Era) disgustato nel sentire ciò che veniva raccontato dalla radio… Si trovava in un mondo vile che andava contro i suoi principi”. Del morto dice che era strambo: “Certo era un padre un po’ strambo”. E un perdente: “Stava sempre con i perdenti, con i Brancaleoni”. Ma stravedeva, dice la signora, per Vendola. La signora è per Vendola.
“Repubblica” fa una pagina sui “nuovi diritti degli animali”. Complimentosa. “Ristoranti, uffici, case di riposo, potranno entrare ovunque”. Dopo aver lanciato, sul suo settimanale femminile, una crociata contro i bambini in albergo e ai ristoranti. Eugenetica.
Piccoli capetti maturati nell’ex Fgci, con un futuro politico senza esami grazie all’invenzione delle primarie, organizzano piccoli gruppi studenteschi di contestazione. Un rito, e anzi una parodia. Nella quale hanno inserito una terrazza della facoltà di architettura cui si accede per una scala a pioli. Alla terrazza fanno salire ogni giorno una “personalità”. Che un fotografo diligente appostato ritrae da sopra in giù. Distribuendo la foto gratis ai giornali. Che diligenti la pubblicano, con la didascalia fornita dall’organizzazione.
Bersani sale sulla terrazza di Architettura, tra gli studenti che protestano goliardi, dicendo, come Berlinguer nel fatidico 1980 agli operai della Fiat: “Se occupate, non è male”. Ma non c’è niente da occupare sulla terrazza. Anche Vendola e Di Pietro salgono, e non trovano niente.
Dopo di loro sono saliti, per la foto, Ettore Scola, che dunque ancora vive, Concita De Gregorio, emerita direttrice dell’“Unità”, Venditti, Piovani, Renato Nicolini, “drammaturgo”, e “l’attore e regista teatrale Ulderico Pesce”.
La Procura di Roma, il solito dottor Capaldo, raggiunge il sublime del ridicolo, aprendo un’inchiesta in cui non ci sono ipotesi di reato né accusati. Ma un’inchiesta sulla Libia ci sta sempre bene. Un sostituto del dottor Capaldo nel pool inquirente sui reati societari vuole sapere se i due soci libici di Unicredit siano entrati nella banca”di concerto”. Vuole saperlo dai due soci. Secondo il diritto libico.
Il professor Antonio D’Andrea, dell’università di Brescia, ricorda tutto della Gelmini,che si è laureata con lui una diecina d’anni fa. E ne parla volentieri, molto male. Voglia di protagonismo? Di resistenza? Un professore che dà tanto valore al voto di laurea? In questi dieci anni cos’altro ha fatto il professore, a differenza della Gelmini?
“Io mi limito a fare domande”, dice Floris, il conduttore di “Ballarò”. Possibile che non sappia che le domande sono risposte? Sì che lo sa, ma pensa che un conduttore tv può dire qualsiasi cosa..
Moratti si fa il segno della croce al gol dell’Inter al Twente. Non lo accenna, se lo fa ampio, preciso,
concluso.
L’erede è in crisi d’astinenza, Spatuzza gli ha rubato le prime pagine, e si può capire. Ma il dottor Ingroia, giudice a Palermo, gli crede: “Perché no?”. E i giornali ci fanno due e quattro pagine. Senza credergli, ma non lo dicono. Il fatto, tra l’altro, non interessa a nessuno, la Sicilia non fa più notizia – “Don Vito”, le memorie compiacenti della famiglia Ciancimino illustrate da Feltrinelli, è tra i libri più invenduti. Masochismo? .
“Fini e Berlusconi hanno il sacro terrore di andare alle urne”, gongola l’ex presidente Scalfaro, che dopo una vita a destra vuole morire a sinistra. Dopo aver disciolto due Parlamenti, sempre gongolando. Senza alcun rispetto per il voto, e per la Costituzione.
A parte il giudizio politico, non capire che Berlusconi vuole le elezioni.
Dall’alba al tramonto giovedì la Rai martella l’ascoltatore con un “vertice” Casini-Fini-Rutelli, più l’onorevole Briguglio, l’onorevole Tabacci e altri pochi statisti di analoga misura. Che si saranno detti? E pi, perché farsi pagare l’abbonamento da tutti gli italiani, non possono incontrarsi a casa?
Fini convoca i “suoi” parlamentari per le 14, per proporre la mozione di sfiducia a Berlusconi. Ma alle 12.30 la mozione è anticipata all’Ansa dall’onorevole Briguglio insieme col capogruppo onorevole Urso. Fascisti sempre. Che non sarebbe una cattiva notizia: almeno sarebbero qualcosa.
Chiara Rapaccini, giovane moglie di Monicelli, da cui il regista si era allontanato per vivere solo, a novant’anni, dice che il suicidio è colpa di Berlusconi. Non lo dice, lo fa capire: “(Era) disgustato nel sentire ciò che veniva raccontato dalla radio… Si trovava in un mondo vile che andava contro i suoi principi”. Del morto dice che era strambo: “Certo era un padre un po’ strambo”. E un perdente: “Stava sempre con i perdenti, con i Brancaleoni”. Ma stravedeva, dice la signora, per Vendola. La signora è per Vendola.
“Repubblica” fa una pagina sui “nuovi diritti degli animali”. Complimentosa. “Ristoranti, uffici, case di riposo, potranno entrare ovunque”. Dopo aver lanciato, sul suo settimanale femminile, una crociata contro i bambini in albergo e ai ristoranti. Eugenetica.
Piccoli capetti maturati nell’ex Fgci, con un futuro politico senza esami grazie all’invenzione delle primarie, organizzano piccoli gruppi studenteschi di contestazione. Un rito, e anzi una parodia. Nella quale hanno inserito una terrazza della facoltà di architettura cui si accede per una scala a pioli. Alla terrazza fanno salire ogni giorno una “personalità”. Che un fotografo diligente appostato ritrae da sopra in giù. Distribuendo la foto gratis ai giornali. Che diligenti la pubblicano, con la didascalia fornita dall’organizzazione.
Bersani sale sulla terrazza di Architettura, tra gli studenti che protestano goliardi, dicendo, come Berlinguer nel fatidico 1980 agli operai della Fiat: “Se occupate, non è male”. Ma non c’è niente da occupare sulla terrazza. Anche Vendola e Di Pietro salgono, e non trovano niente.
Dopo di loro sono saliti, per la foto, Ettore Scola, che dunque ancora vive, Concita De Gregorio, emerita direttrice dell’“Unità”, Venditti, Piovani, Renato Nicolini, “drammaturgo”, e “l’attore e regista teatrale Ulderico Pesce”.
La Procura di Roma, il solito dottor Capaldo, raggiunge il sublime del ridicolo, aprendo un’inchiesta in cui non ci sono ipotesi di reato né accusati. Ma un’inchiesta sulla Libia ci sta sempre bene. Un sostituto del dottor Capaldo nel pool inquirente sui reati societari vuole sapere se i due soci libici di Unicredit siano entrati nella banca”di concerto”. Vuole saperlo dai due soci. Secondo il diritto libico.
Il professor Antonio D’Andrea, dell’università di Brescia, ricorda tutto della Gelmini,che si è laureata con lui una diecina d’anni fa. E ne parla volentieri, molto male. Voglia di protagonismo? Di resistenza? Un professore che dà tanto valore al voto di laurea? In questi dieci anni cos’altro ha fatto il professore, a differenza della Gelmini?
“Io mi limito a fare domande”, dice Floris, il conduttore di “Ballarò”. Possibile che non sappia che le domande sono risposte? Sì che lo sa, ma pensa che un conduttore tv può dire qualsiasi cosa..
Moratti si fa il segno della croce al gol dell’Inter al Twente. Non lo accenna, se lo fa ampio, preciso,
concluso.
venerdì 3 dicembre 2010
Vecchi politicanti: il Pd teme il Centro estremista
Ora che Di Pietro vota con loro, i leader del Nuovo Centro o Grande Centro, Casini, Fini, Rutelli, Briguglio e Tabacci, sono certi che il voto contro Berlusconi da loro proposto avrà la maggioranza alla Camera, 317 voti assicura trionfante dai telegiornali l’onorevole Bocchino. Nomen omen, certo, l’onorevole può dire quello che vuole, ma non conta che al Senato invece, con tutto Di Pietro, il Nuovo Grande Centro è deficitario. Che cioè il Nuovo e Grande Centro apre una crisi senza sbocco, come un qualsiasi gruppuscolo estremista. E per prima cosa ha suscitato più diffidenza che attese nel partito Democratico: il Pd teme le elezioni anticipate, soprattutto se dovesse portarne la responsabilità.
L’impudenza è segno di strafottenza, e questo potrebbe anche aver reso simpatico l’onorevole, con tutto il suo sguardo atteggiato a furbizia – del resto, c’è più furbo di un napoletano? Ora che si sanno le cose, la strafottenza è anche non senza fodnamento nella nuova famiglia di Fini: se è vero cioè che il Grande Centro, che come idea politica non ha senso, Casini non può stare con Fini, è il progetto di Carlo De Benedetti. Già primo tesserato del partito Democratico. E sempre editore e direttore di "Repubblica" e "L'Espresso", quanto c'è di più chic a Roma.
E tuttavia c’è ambivalenza nel Pd di fronte all’alleanza, ma non è tutta colpa dell’onorevole Bocchino. Né timore di De Benedetti - questo c'è, l'Ingegnere è vendicativo (è lui il vero Andreotti della Seconda Repubblica), ma anche lui ha bisogno del Pd, dei suoi 75 mila, o 750 mila, candidati-lettori. Il fatto è che, a parte l'onorevole Bocchino, le nuove leve di politicanti sono vecchi, anzi vecchissimi, genere prima Repubblica: non conta il voto, l’elettore, le elezioni, contano gli intrighi personali. Fini e Casini non hanno entusiasmato perché si confermano ciò che erano, piccoli manovrieri della destra, all’ombra di Berlusconi, dei voti di Berlusconi. In molti preferiscono ricordare che non è la prima volta che impongono a Berlusconi delle crisi di governo: l’uno l’ha voluta in passato per salvare gli alloggi di servizio gratuiti ai sottufficiali dell’aeronautica, l’altro per fare vice-presidente del consiglio il suo amico (ora ex) Follini.
Nel Pd prevale il timore di accrescere, con questi nuovi vecchi alleati, l’instabilità nel centro-sinistra che il partito stesso è nato per curare: le divisioni, gli scarti, le posizioni personali di questo o quel, seppure minuscolo, politicante. Con strumenti deprecabili: trappole, sabotaggi, vendette. Senza mai una giustificazione. Contro il voto degli elettori.
Questo è forse il punto che apre più perplessità nel Pd. Partito nato all’insegna del maggioritario. In armonia con i due o tre referendum con i quali l’elettorato s’è pronunciato a grandissima maggioranza per un governo stabile, contro le manovre di palazzo. Sono state fatte leggi in armonia con i referendum a livello locale, al Comune, alla Provincia, alla Regione, con l’elezione diretta del leader locale. Mentre il governo è stato tenuto al guinzaglio del primo arrivato: fallita la Bicamerale di D’Alema, falliti i tentatici di Amato, e dello steso Napolitano.
D’altra parte, il Pd fa fatica a prendere posizione, esso stesso frastornato. Un problema succedaneo è infatti che con i nuovi vecchi politicanti va l’opinione qualificata, che omette l’evidenza: nessun commentatore, nessuno scienziato politico che dica quello che le elezioni anticipate sono proibite. Che le elezioni sono il fulcro e il pilastro della democrazia parlamentare, e che si va al voto anticipato solo per rispetto del voto, non di Casini o Fini. Che questi “figli di Scalfaro”, come sono chiamati nel partito, il peggiore presidente della Repubblica, e della peggiore Dc, assoggettano la politica, che è l’arte di governo, a quello che loro vogliono, e che loro stessi non sanno.
L’impudenza è segno di strafottenza, e questo potrebbe anche aver reso simpatico l’onorevole, con tutto il suo sguardo atteggiato a furbizia – del resto, c’è più furbo di un napoletano? Ora che si sanno le cose, la strafottenza è anche non senza fodnamento nella nuova famiglia di Fini: se è vero cioè che il Grande Centro, che come idea politica non ha senso, Casini non può stare con Fini, è il progetto di Carlo De Benedetti. Già primo tesserato del partito Democratico. E sempre editore e direttore di "Repubblica" e "L'Espresso", quanto c'è di più chic a Roma.
E tuttavia c’è ambivalenza nel Pd di fronte all’alleanza, ma non è tutta colpa dell’onorevole Bocchino. Né timore di De Benedetti - questo c'è, l'Ingegnere è vendicativo (è lui il vero Andreotti della Seconda Repubblica), ma anche lui ha bisogno del Pd, dei suoi 75 mila, o 750 mila, candidati-lettori. Il fatto è che, a parte l'onorevole Bocchino, le nuove leve di politicanti sono vecchi, anzi vecchissimi, genere prima Repubblica: non conta il voto, l’elettore, le elezioni, contano gli intrighi personali. Fini e Casini non hanno entusiasmato perché si confermano ciò che erano, piccoli manovrieri della destra, all’ombra di Berlusconi, dei voti di Berlusconi. In molti preferiscono ricordare che non è la prima volta che impongono a Berlusconi delle crisi di governo: l’uno l’ha voluta in passato per salvare gli alloggi di servizio gratuiti ai sottufficiali dell’aeronautica, l’altro per fare vice-presidente del consiglio il suo amico (ora ex) Follini.
Nel Pd prevale il timore di accrescere, con questi nuovi vecchi alleati, l’instabilità nel centro-sinistra che il partito stesso è nato per curare: le divisioni, gli scarti, le posizioni personali di questo o quel, seppure minuscolo, politicante. Con strumenti deprecabili: trappole, sabotaggi, vendette. Senza mai una giustificazione. Contro il voto degli elettori.
Questo è forse il punto che apre più perplessità nel Pd. Partito nato all’insegna del maggioritario. In armonia con i due o tre referendum con i quali l’elettorato s’è pronunciato a grandissima maggioranza per un governo stabile, contro le manovre di palazzo. Sono state fatte leggi in armonia con i referendum a livello locale, al Comune, alla Provincia, alla Regione, con l’elezione diretta del leader locale. Mentre il governo è stato tenuto al guinzaglio del primo arrivato: fallita la Bicamerale di D’Alema, falliti i tentatici di Amato, e dello steso Napolitano.
D’altra parte, il Pd fa fatica a prendere posizione, esso stesso frastornato. Un problema succedaneo è infatti che con i nuovi vecchi politicanti va l’opinione qualificata, che omette l’evidenza: nessun commentatore, nessuno scienziato politico che dica quello che le elezioni anticipate sono proibite. Che le elezioni sono il fulcro e il pilastro della democrazia parlamentare, e che si va al voto anticipato solo per rispetto del voto, non di Casini o Fini. Che questi “figli di Scalfaro”, come sono chiamati nel partito, il peggiore presidente della Repubblica, e della peggiore Dc, assoggettano la politica, che è l’arte di governo, a quello che loro vogliono, e che loro stessi non sanno.
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (74)
Giuseppe Leuzzi
Leonida Répaci scrisse una serie di articoli nel 1949 su “Milano-Sera” in risposta alla lettera proto leghista di un ragionier Menghini di Pavia al giornale (articoli poi raccolti in “Il Sud su un binario morto”). Il fulcro della lettera del ragioniere è l’aneddoto dei water usati dagli assegnatari della riforma agraria come recipienti per le salamoie. L’aneddoto era originato e diffuso al Sud, sui terremotati a Messina al quartiere Giostra, sugli assegnatari delle case popolari, e successivamente sugli alluvionati di San Luca nell’Aspromonte – qui siamo già a dopo il ragionier Menghini.
Croce riporta nella “Storia del Regno di Napoli” che Federico II, il re svevo di Palermo, in visita in Terrasanta criticò l’Altissimo. Deluso che, magnificando la Palestina, il Dio dei Giudei “non viderat terram suam scilicet Terram Laboris, Calabria, et Siciliam et Apuliam”. Per il re tedesco, nel Duecento, il Sud era un bengodi.
Nello scontro tra giudici e carabinieri a Palermo il colonnello De Caprio, ex “capitano Ultimo”, non le manda a dire: “Gente come questo magistrato (Ingroia, n.d.r.), con la lobby mediatica che lo sostiene hanno distrutto il fronte antimafia, hanno messo fratelli contro fratelli, e stanno facendo vincere Riina, Ciancimino, e Provenzano”. Come non detto. Nemmeno per una querela.
Per fratelli De Caprio intende i carabinieri. Molti carabinieri infatti sono col giudice Ingroia e Cincimino figlio.
I processi di mafia a Palermo da qualche tempo riguardano Contrada, Andreotti, Dell’Utri, Berlusconi, e vari ufficiali dei carabinieri, Mori, De Caprio e altri. Dopo quello famoso di Riina, il folle sanguinario che mise in imbarazzo il presidente della corte che lo giudicava, altri mafiosi veri non si sono visti in tribunale. Quando vengono sono coperti da nugoli di guardie, in quanto pentiti, cioè confidenti delle Procure – comunque mai in ceppi, secondo il regolamento dipietrista. Si può dire che non c’è la mafia a Palermo. Ogni tanto si prende un latitante, con clamore. Ma è di vecchia mafia: gente senza denti con gli occhiali spessi, impecettati.
L’odio-di-sé-meridionale
Salvatore Lombino, scrittore americano di galli di grande suscesso, con vari pseudonimi, il più famoso dei quali è Ed McBain, nipote di un emigrato dalla Calabria, ha sentito il bisogno di cambiarsi il nome all’anagrafe, in Evan Hunter.
Nicola Misasi, “elogiato da D’Annunzio, rimpianto dalla Serao, trascurato dalla Calabria”, titola la “Gazzetta del Sud”. Ma anche la “Gazzetta” non scrive altro di Misasi. Uno scrittore del secondo Ottocento che fu letto molto. Vale per lui quanto vale per Répaci, La Cava, Seminara, Zappone, Delfino, scrittori che confessano di “voler” essere calabresi: la Calabria pesa come un destino negativo. Misasi che apre il suo libro più letto, “Senza domani”, con questa dedica. “Questo libro non è un romanzo, è la difesa di un popolo generoso calunniato dagli storici della rivoluzione”.
Un Pelle figlio di mafiosi, studente d’architettura a Reggio Calabria, si vanta con amici e parenti di poter condizionare gli esami in facoltà, e le ammissioni alle facoltà di Medicina di Messina e Catanzaro. Ciò basta per paginate ogni giorni alla “Gazzetta del Sud” del tipo: “Le mani sull’università della cosca Pelle-Gambazza”. Che convincono tutti che le università di Messina, Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria siano in mano a questo a questo giovane. Le università dei figli dei poveri, quelli che non possono permettersi le università da Napoli in su.
Il giovane Giuseppe Pelle controllava le tre università con regali, dice ogni giorno la “Gazzetta del Sud”. Ma finora l’unico regalo accertato è un giocattolo al bambino di un ricercatore, suo compaesano.
Milano
Massimo Mucchetti rievoca oggi sul “Corriere della sera”, per attaccare i rapporti privilegiati tra l’Italia e Mosca, l’intermissione di un Mentasti. Il quale, patrocinato da Berlusconi, aveva pensato nel 2002 di diventare il partner italiano di Gazprom, e nel 2005 c’era quasi riuscito.
La ricostruzione di Mucchetti è molto “lombarda”: nel senso che non è narrativa, né intesa a fini di informazione, cioè di verità, è un retroscena che anzi i fatti reali hanno smentito, e resta quindi lievemente ricattatoria. Mentre bisogna sapere che Gazprom è la maggiore società del gas del mondo. E Mentasti un broker lombardo, non dei maggiori. Ma soprattutto va detto che Bruno Mentasti è stato in questo affare il marito di sua moglie. Cioè che è la signora Mentasti che aveva il cuore di Berlusconi. E non per il noto casanovismo dello stesso, ma per essere intima dell’allora signora Veronica. Del cui odio verso il marito è stata dopo qualche anno confidente con “Repubblica” e altri giornali e incitatrice. Dopo cioè che Berlusconi non aveva dato il gas della Gazprom al marito. Una storia di piccola corruzione, e di vendette femminili, molto da “donna lombarda”.
Lombardo, non solo a Londra, è sempre stato l’usuraio.
Qualsiasi cosa dica, il figlio del mafioso Ciancimino ha due e quattro pagine sul “Corriere della sera” e su “Repubblica”, i giornali della classe dirigente, e quindi della Padania, cioè insomma di Milano, dove peraltro concentrano le vendite. Anche le scemenze palesi, tipo accostare a suo padre nel 1972 o nel 1974 l’attuale prefetto De Gennaro, che è nato nel …
C’è da dubitare che la classe dirigente sia golosa di sapere di Ciancimino jr. e dei giudici che attraverso di lui si fanno pubblicità. E allora perché tanto spazio? Tout se tient, “cappello chiama capello” si diceva una volta. Mafia chiama mafia?
“Sette”, il settimanale del “Corriere della sera”, fa giovedì una ventina di pagine sull’occupazione della Lombardia da parte della ‘ndrangheta, la mafia calabrese. Non sono pagine di grande lettura, rimasticando in lungo e in largo le confidenze di un mafioso siciliano di piccolo rango con un giornalista specializzato in scandali. Confidenze sui la Direzione nazionale antimafia, che quindi ora si sa cosa fa (chissà come gli girano al povero Falcone, che l’ha inventata), ha costruito due settimane fa una mappa dettagliata delle città e i centri della Lombardia che le cosche calabresi si sono spartite. Vere e proprie dinastie, spesso analfabete. È per questo che Milano non riesce a costruire nulla per l’esposizione del 2015. Non per le lotte furibonde sui suoli e gli appalti.
Le venti pagine di “Sette” escono senza novità, senza scandalo. Senza peraltro un briciolo di preoccupazione locale: di persone, paesi, sindaci, amministratori, imprenditori.
Tutto evidentemente si può dire, ma qual è l’interesse di una simile pubblicazione? Di dire che la Calabria è comunque un malaffare, i lombardi sono spietati - un calabrese, certo, potrebbe complimentarsi di tenere in soggezione “Sette” (almeno “Sette”, se non Milano, o il “Corriere della sera”).
Il “Corriere della sera”, dopo aver lanciato con congruo preavviso le inchieste Rai sulle ville di Berlusconi alle Bahamas, o Antigua?, fa diecine di pagine sulla banca Arner, che ha gestito l’acquisto. Facendo pubblicità a Mario Draghi, che inflessibile ha ordinato d’ispezionare la banca, e al professore avvocato della Bocconi che inflessibile la ispezionò, con tanto di foto e punti di accusa, anzi no di censura, anzi no di rinvio alle norme, sempre inflessibile. Dopodiché si paga una pagina di pubblicità della Arner, 50 o 100 mila euro, per dire che tutto è in ordine.
Perché il “Corriere della sera”, il giornale della borghesia lombarda, si è fatto da un anno a questa parte, il giornale delle puttane? Per accusare Berlusconi non ne ha bisogno – ha ben d’altro. È la sua borghesia in regime d’astinenza? La medea di Macherio non è isolata, la moglie di Berlusconi, la “donna lombarda” è vendicativa come nella canzone.
All’aeroporto di Malpensa mandano in giro una valigia due minuti dopo che l’aereo è atterrato. Una valigia con un cartellino che ne attesta la provenienza ma di cui nessuno è proprietario. Girando sul nastro trasportatore la valigia viene registrata come in arrivo dagli specifici voli di cui porta il cartellino, riducendo i tempi medi di consegna dei bagagli. Il tempo medio di consegna dei bagagli è uno dei criteri internazionali per valutare l’efficienza di un aeroporto.
Si aspetta ora di sapere se l’artefice di questa furbata non è un funzionario, o un facchino, napoletano. Potrebbe anche essere siciliano, perché no.
leuzzi@antiit.eu
Leonida Répaci scrisse una serie di articoli nel 1949 su “Milano-Sera” in risposta alla lettera proto leghista di un ragionier Menghini di Pavia al giornale (articoli poi raccolti in “Il Sud su un binario morto”). Il fulcro della lettera del ragioniere è l’aneddoto dei water usati dagli assegnatari della riforma agraria come recipienti per le salamoie. L’aneddoto era originato e diffuso al Sud, sui terremotati a Messina al quartiere Giostra, sugli assegnatari delle case popolari, e successivamente sugli alluvionati di San Luca nell’Aspromonte – qui siamo già a dopo il ragionier Menghini.
Croce riporta nella “Storia del Regno di Napoli” che Federico II, il re svevo di Palermo, in visita in Terrasanta criticò l’Altissimo. Deluso che, magnificando la Palestina, il Dio dei Giudei “non viderat terram suam scilicet Terram Laboris, Calabria, et Siciliam et Apuliam”. Per il re tedesco, nel Duecento, il Sud era un bengodi.
Nello scontro tra giudici e carabinieri a Palermo il colonnello De Caprio, ex “capitano Ultimo”, non le manda a dire: “Gente come questo magistrato (Ingroia, n.d.r.), con la lobby mediatica che lo sostiene hanno distrutto il fronte antimafia, hanno messo fratelli contro fratelli, e stanno facendo vincere Riina, Ciancimino, e Provenzano”. Come non detto. Nemmeno per una querela.
Per fratelli De Caprio intende i carabinieri. Molti carabinieri infatti sono col giudice Ingroia e Cincimino figlio.
I processi di mafia a Palermo da qualche tempo riguardano Contrada, Andreotti, Dell’Utri, Berlusconi, e vari ufficiali dei carabinieri, Mori, De Caprio e altri. Dopo quello famoso di Riina, il folle sanguinario che mise in imbarazzo il presidente della corte che lo giudicava, altri mafiosi veri non si sono visti in tribunale. Quando vengono sono coperti da nugoli di guardie, in quanto pentiti, cioè confidenti delle Procure – comunque mai in ceppi, secondo il regolamento dipietrista. Si può dire che non c’è la mafia a Palermo. Ogni tanto si prende un latitante, con clamore. Ma è di vecchia mafia: gente senza denti con gli occhiali spessi, impecettati.
L’odio-di-sé-meridionale
Salvatore Lombino, scrittore americano di galli di grande suscesso, con vari pseudonimi, il più famoso dei quali è Ed McBain, nipote di un emigrato dalla Calabria, ha sentito il bisogno di cambiarsi il nome all’anagrafe, in Evan Hunter.
Nicola Misasi, “elogiato da D’Annunzio, rimpianto dalla Serao, trascurato dalla Calabria”, titola la “Gazzetta del Sud”. Ma anche la “Gazzetta” non scrive altro di Misasi. Uno scrittore del secondo Ottocento che fu letto molto. Vale per lui quanto vale per Répaci, La Cava, Seminara, Zappone, Delfino, scrittori che confessano di “voler” essere calabresi: la Calabria pesa come un destino negativo. Misasi che apre il suo libro più letto, “Senza domani”, con questa dedica. “Questo libro non è un romanzo, è la difesa di un popolo generoso calunniato dagli storici della rivoluzione”.
Un Pelle figlio di mafiosi, studente d’architettura a Reggio Calabria, si vanta con amici e parenti di poter condizionare gli esami in facoltà, e le ammissioni alle facoltà di Medicina di Messina e Catanzaro. Ciò basta per paginate ogni giorni alla “Gazzetta del Sud” del tipo: “Le mani sull’università della cosca Pelle-Gambazza”. Che convincono tutti che le università di Messina, Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria siano in mano a questo a questo giovane. Le università dei figli dei poveri, quelli che non possono permettersi le università da Napoli in su.
Il giovane Giuseppe Pelle controllava le tre università con regali, dice ogni giorno la “Gazzetta del Sud”. Ma finora l’unico regalo accertato è un giocattolo al bambino di un ricercatore, suo compaesano.
Milano
Massimo Mucchetti rievoca oggi sul “Corriere della sera”, per attaccare i rapporti privilegiati tra l’Italia e Mosca, l’intermissione di un Mentasti. Il quale, patrocinato da Berlusconi, aveva pensato nel 2002 di diventare il partner italiano di Gazprom, e nel 2005 c’era quasi riuscito.
La ricostruzione di Mucchetti è molto “lombarda”: nel senso che non è narrativa, né intesa a fini di informazione, cioè di verità, è un retroscena che anzi i fatti reali hanno smentito, e resta quindi lievemente ricattatoria. Mentre bisogna sapere che Gazprom è la maggiore società del gas del mondo. E Mentasti un broker lombardo, non dei maggiori. Ma soprattutto va detto che Bruno Mentasti è stato in questo affare il marito di sua moglie. Cioè che è la signora Mentasti che aveva il cuore di Berlusconi. E non per il noto casanovismo dello stesso, ma per essere intima dell’allora signora Veronica. Del cui odio verso il marito è stata dopo qualche anno confidente con “Repubblica” e altri giornali e incitatrice. Dopo cioè che Berlusconi non aveva dato il gas della Gazprom al marito. Una storia di piccola corruzione, e di vendette femminili, molto da “donna lombarda”.
Lombardo, non solo a Londra, è sempre stato l’usuraio.
Qualsiasi cosa dica, il figlio del mafioso Ciancimino ha due e quattro pagine sul “Corriere della sera” e su “Repubblica”, i giornali della classe dirigente, e quindi della Padania, cioè insomma di Milano, dove peraltro concentrano le vendite. Anche le scemenze palesi, tipo accostare a suo padre nel 1972 o nel 1974 l’attuale prefetto De Gennaro, che è nato nel …
C’è da dubitare che la classe dirigente sia golosa di sapere di Ciancimino jr. e dei giudici che attraverso di lui si fanno pubblicità. E allora perché tanto spazio? Tout se tient, “cappello chiama capello” si diceva una volta. Mafia chiama mafia?
“Sette”, il settimanale del “Corriere della sera”, fa giovedì una ventina di pagine sull’occupazione della Lombardia da parte della ‘ndrangheta, la mafia calabrese. Non sono pagine di grande lettura, rimasticando in lungo e in largo le confidenze di un mafioso siciliano di piccolo rango con un giornalista specializzato in scandali. Confidenze sui la Direzione nazionale antimafia, che quindi ora si sa cosa fa (chissà come gli girano al povero Falcone, che l’ha inventata), ha costruito due settimane fa una mappa dettagliata delle città e i centri della Lombardia che le cosche calabresi si sono spartite. Vere e proprie dinastie, spesso analfabete. È per questo che Milano non riesce a costruire nulla per l’esposizione del 2015. Non per le lotte furibonde sui suoli e gli appalti.
Le venti pagine di “Sette” escono senza novità, senza scandalo. Senza peraltro un briciolo di preoccupazione locale: di persone, paesi, sindaci, amministratori, imprenditori.
Tutto evidentemente si può dire, ma qual è l’interesse di una simile pubblicazione? Di dire che la Calabria è comunque un malaffare, i lombardi sono spietati - un calabrese, certo, potrebbe complimentarsi di tenere in soggezione “Sette” (almeno “Sette”, se non Milano, o il “Corriere della sera”).
Il “Corriere della sera”, dopo aver lanciato con congruo preavviso le inchieste Rai sulle ville di Berlusconi alle Bahamas, o Antigua?, fa diecine di pagine sulla banca Arner, che ha gestito l’acquisto. Facendo pubblicità a Mario Draghi, che inflessibile ha ordinato d’ispezionare la banca, e al professore avvocato della Bocconi che inflessibile la ispezionò, con tanto di foto e punti di accusa, anzi no di censura, anzi no di rinvio alle norme, sempre inflessibile. Dopodiché si paga una pagina di pubblicità della Arner, 50 o 100 mila euro, per dire che tutto è in ordine.
Perché il “Corriere della sera”, il giornale della borghesia lombarda, si è fatto da un anno a questa parte, il giornale delle puttane? Per accusare Berlusconi non ne ha bisogno – ha ben d’altro. È la sua borghesia in regime d’astinenza? La medea di Macherio non è isolata, la moglie di Berlusconi, la “donna lombarda” è vendicativa come nella canzone.
All’aeroporto di Malpensa mandano in giro una valigia due minuti dopo che l’aereo è atterrato. Una valigia con un cartellino che ne attesta la provenienza ma di cui nessuno è proprietario. Girando sul nastro trasportatore la valigia viene registrata come in arrivo dagli specifici voli di cui porta il cartellino, riducendo i tempi medi di consegna dei bagagli. Il tempo medio di consegna dei bagagli è uno dei criteri internazionali per valutare l’efficienza di un aeroporto.
Si aspetta ora di sapere se l’artefice di questa furbata non è un funzionario, o un facchino, napoletano. Potrebbe anche essere siciliano, perché no.
leuzzi@antiit.eu
giovedì 2 dicembre 2010
Bossi-Fini, il racket più grosso, per legge
La sanatoria di Maroni e Tremonti è costata a ogni immigrato non in regola (e chi è mai in regola in Italia, specie se immigrato?) 500 euro secchi. Più tutti i contributi Inps arretrati per il periodo che l’immigrato dichiarava di avere trascorso in Italia, seppure con lavoro precario: nessun datore di lavoro, né le famiglie né le aziende, pur garantendo per l’immigrato, si è sobbarcato la spesa - quando non si è fatto pagare (in Calabria, in Sicilia, in Puglia è stata la norma) per “dichiarare” l’immigrato. Più una cifra non sindacalizzata, ma non inferiore ai cinquemila euro, per l’intermediario in grado di portate a termine la pratica di sanatoria: più spesso un ex questurino, o qualcuno con entrature in Questura, o anche un agente in servizio, talvolta un avvocato. Cinquemila euro, un capitale.
La protesta dei quattro immigrati sulla gru a Milano diceva alcune cose che i giornali non ci hanno detto ed è bene che si sappiano. Una vera e propria commedia all’italiana. Un noir metropolitano se si fossero scrittori che non scrivono per il partito. Che riguarda i quattro ma anche centinaia di migliaia di lavoratori immigrati, che tutti insieme farebbero un “Novecento” ben più solido e veritiero di quello di Bertolucci: la legge Bossi-Fini che in teoria regola l’immigrazione è il più colossale racket mai montato in Italia. Roba da far impallidire i professionisti del pizzo, in Sicilia, in Calabria, i casalesi. Una legge che si appella tra l’altro sarcastica alla sicurezza per creare il più grosso serbatoio di malaffare che sia mai esistito. Più ignobile dei tanti altri, poiché sfrutta il lavoro povero.
Ci si era sempre chiesti perché l’Interno avesse delegato alle Questure il controllo dell’immigrazione. A operatori cioè non addestrati, e senza alcun interesse a imparare, giacché l’immigrazione non paga straordinari e non apre carriere. Ora si sa: per salassare meglio, con l’insipienza, la disorganizzazione, la neghittosità, gli immigrati poveri.
La protesta dei quattro immigrati sulla gru a Milano diceva alcune cose che i giornali non ci hanno detto ed è bene che si sappiano. Una vera e propria commedia all’italiana. Un noir metropolitano se si fossero scrittori che non scrivono per il partito. Che riguarda i quattro ma anche centinaia di migliaia di lavoratori immigrati, che tutti insieme farebbero un “Novecento” ben più solido e veritiero di quello di Bertolucci: la legge Bossi-Fini che in teoria regola l’immigrazione è il più colossale racket mai montato in Italia. Roba da far impallidire i professionisti del pizzo, in Sicilia, in Calabria, i casalesi. Una legge che si appella tra l’altro sarcastica alla sicurezza per creare il più grosso serbatoio di malaffare che sia mai esistito. Più ignobile dei tanti altri, poiché sfrutta il lavoro povero.
Ci si era sempre chiesti perché l’Interno avesse delegato alle Questure il controllo dell’immigrazione. A operatori cioè non addestrati, e senza alcun interesse a imparare, giacché l’immigrazione non paga straordinari e non apre carriere. Ora si sa: per salassare meglio, con l’insipienza, la disorganizzazione, la neghittosità, gli immigrati poveri.
Tassi in rapida ascesa senza politica monetaria Ue
L’asta dei Bund tedeschi andata semideserta ieri indica che un ritorno inflattivo, dopo un decennio di protezione da parte dell’euro, è alle porte in Europa. E che non tanto i regolamenti severi e punitivi tra i paesi dell’euro, come il Meccanismo di Stabilità, possono stabilizzare la moneta europea quanto, e solo, una politica monetaria comune. Nella gestione del debito perlomeno, se non nella fiscalità. Una iniziativa in tal senso, di consolidamento parziale del debito, di copertura attraverso eurobond, di prolungamenti delle scadenze, è necessaria in tempo brevi per prevenire lo scardinamento definitivo della protezione assicurata dall’euro. Che non è tanto opera di una speculazione aggressiva, inflattivista, quanto a questo punto l’effetto di un circolo vizioso sulla protezione del risparmio.
L’asta tedesca ha registrato un esito fiacco in attesa di rendimenti superiori: il mercato dà per scontato che anche i Bund dovranno pagare di più entro breve termine. Ciò è l’effetto della debole leadership tedesca in seno all’Ue, limitata alla recriminazioni. Che è il riflesso dell’assurdo dibattito interno, limitato alla questione: quanto dobbiamo pagare noi tedeschi per l’euro, e perché? E si estrinseca nella fronda costante, radicale, del capo della Bundesbank, Axel Weber, che non nonni acconcia al ruolo di ufficio studi della sua ex Banca centrale. Oggi la Banca centrale europea ha dovuto decidere a maggioranza l’azione d contrato della speculazione con l’acquisto dei bond emessi dagli Stati membri, anche se “a maggioranza schiacciante”.
La questione, falsa, ha l’effetto, così come le tante altre false questioni allarmistiche, quali in Italia gli articoli del “Financial Times” drammatizzati dall’Ansa, la Rai, Sky, di rendere “concreta” l’attesa di tassi sempre maggiori. Ma ci sono anche ragioni di fondo nell’instabilità dell’euro, e la minaccia per la prima volta concreta di un rialzo consistente dei tassi d’interesse. Che sono già risaliti al 4 per cento per il debito italiano, al 5 e 6 per quello spagnolo, portoghese, irlandesi. La principale è l’assoluta incoerenza della Germania e della Francia rispetto a un piano reale di stabilizzazione, e cioè di europeizzazione delle politiche monetarie. E di incoerenza tra di loro, per esempio rispetto al consolidamento attraverso il mercato che il presidente della Bce, Trichet, sta tentando (che Francia e Germania stiano marciando d’accordo è favola, purtroppo, dei soli giornali italiani).
L’asta tedesca ha registrato un esito fiacco in attesa di rendimenti superiori: il mercato dà per scontato che anche i Bund dovranno pagare di più entro breve termine. Ciò è l’effetto della debole leadership tedesca in seno all’Ue, limitata alla recriminazioni. Che è il riflesso dell’assurdo dibattito interno, limitato alla questione: quanto dobbiamo pagare noi tedeschi per l’euro, e perché? E si estrinseca nella fronda costante, radicale, del capo della Bundesbank, Axel Weber, che non nonni acconcia al ruolo di ufficio studi della sua ex Banca centrale. Oggi la Banca centrale europea ha dovuto decidere a maggioranza l’azione d contrato della speculazione con l’acquisto dei bond emessi dagli Stati membri, anche se “a maggioranza schiacciante”.
La questione, falsa, ha l’effetto, così come le tante altre false questioni allarmistiche, quali in Italia gli articoli del “Financial Times” drammatizzati dall’Ansa, la Rai, Sky, di rendere “concreta” l’attesa di tassi sempre maggiori. Ma ci sono anche ragioni di fondo nell’instabilità dell’euro, e la minaccia per la prima volta concreta di un rialzo consistente dei tassi d’interesse. Che sono già risaliti al 4 per cento per il debito italiano, al 5 e 6 per quello spagnolo, portoghese, irlandesi. La principale è l’assoluta incoerenza della Germania e della Francia rispetto a un piano reale di stabilizzazione, e cioè di europeizzazione delle politiche monetarie. E di incoerenza tra di loro, per esempio rispetto al consolidamento attraverso il mercato che il presidente della Bce, Trichet, sta tentando (che Francia e Germania stiano marciando d’accordo è favola, purtroppo, dei soli giornali italiani).
mercoledì 1 dicembre 2010
Gli ascari Sky della speculazione
L’Ansa rilancia e Sky Tg 24 martella, ogni mezzora implacabile, un commentino del “Financial Times” sul quale viene basata l’ipotesi che il debito italiano rilanci la speculazione contro l’euro. Il commento non lo dice. Il giornale londinese, benché non sia contrario alla speculazione, anzi sia uno dei suoi alfieri, o forse per questo, analizza i problemi che alla finanza italiana si potrebbero presentare con la crisi politica annunciata a metà mese. Un commento che si potrebbe anche leggere nel senso: non fate la crisi. Ma l’Ansa ne fa una “top news”, notizia urgente, sotto il titolo “L’Italia rischia”, illustrato da un Berlusconi pensieroso con le mani nei capelli, e Sky lo rilancia ogni mezz’ora. Questo il 30 novembre, ieri.
Oggi le notizie vanno all’inverso. Sono la ritrovata fiducia dei mercati, le misure spagnole di contenimento della spesa e riduzione del debito, attraverso le privatizzazioni, l’ottimo esito dell’asta dei titoli portoghesi, che pagano il 5 per cento, la riduzione dello spread del Btp italiano sul Bund tedesco. Ma Sky non lo sa. I suoi conduttori, l’occhio imbrillantato al collirio per l’eccitazione, continuano a martellare ogni mezzora col commentino “Lex” del “Ft”, mostrato in epigrafe come fosse una reliquia sacra, tanto gli italiani non sanno l’inglese, lo argomentano, lo fanno commentare, vogliono strappare tanti “sì” anche se col “però”. Gente che conosce il mestiere, anche se non è l’informazione.
Murdoch e la sua Sky attaccano Berlusconi per motivi di bottega, si sa. Ma lo sanno gli addetti ai lavori: l’abbonato Sky non lo sa, e nessun giornale glielo dice. E il debito italiano non è Berlusconi: sono milioni di investitori e mutuatari che ancora non hanno finito di pagare il debito capestro cui il signor Soros li ha incaprettati nel 1992. Volendo razionalizzare, si può dire Murdoch uno speculatore. Ma non è nemmeno quello, è solo un affarista, anche se altrettanto cinico. Cinico perché è un uomo di destra, di destra vera non alla Fini, che in Italia fa finta di stare a sinistra. E perché la speculazione che sembra patrocinare colpirebbe la sua tv a pagamento per prima, un’altra gelata dei consumi in Italia di così lungo periodo come quella del 1992, ma lui pensa che lo colpirebbe meno che Mediaset del suo nemico Berlusconi – la pubblicità nelle crisi crolla subito, gli abbonamento meno. Che dirne dunque? Che il famoso pescecane dei media, che ne ha ammassati tanti in Europa e in America che gli stanno per scoppiare, comanda un esercito di ascari della speculazione.
Oggi le notizie vanno all’inverso. Sono la ritrovata fiducia dei mercati, le misure spagnole di contenimento della spesa e riduzione del debito, attraverso le privatizzazioni, l’ottimo esito dell’asta dei titoli portoghesi, che pagano il 5 per cento, la riduzione dello spread del Btp italiano sul Bund tedesco. Ma Sky non lo sa. I suoi conduttori, l’occhio imbrillantato al collirio per l’eccitazione, continuano a martellare ogni mezzora col commentino “Lex” del “Ft”, mostrato in epigrafe come fosse una reliquia sacra, tanto gli italiani non sanno l’inglese, lo argomentano, lo fanno commentare, vogliono strappare tanti “sì” anche se col “però”. Gente che conosce il mestiere, anche se non è l’informazione.
Murdoch e la sua Sky attaccano Berlusconi per motivi di bottega, si sa. Ma lo sanno gli addetti ai lavori: l’abbonato Sky non lo sa, e nessun giornale glielo dice. E il debito italiano non è Berlusconi: sono milioni di investitori e mutuatari che ancora non hanno finito di pagare il debito capestro cui il signor Soros li ha incaprettati nel 1992. Volendo razionalizzare, si può dire Murdoch uno speculatore. Ma non è nemmeno quello, è solo un affarista, anche se altrettanto cinico. Cinico perché è un uomo di destra, di destra vera non alla Fini, che in Italia fa finta di stare a sinistra. E perché la speculazione che sembra patrocinare colpirebbe la sua tv a pagamento per prima, un’altra gelata dei consumi in Italia di così lungo periodo come quella del 1992, ma lui pensa che lo colpirebbe meno che Mediaset del suo nemico Berlusconi – la pubblicità nelle crisi crolla subito, gli abbonamento meno. Che dirne dunque? Che il famoso pescecane dei media, che ne ha ammassati tanti in Europa e in America che gli stanno per scoppiare, comanda un esercito di ascari della speculazione.
Thoreau e l’ambiguità dell’ideologia
Assortito dell’“Apologia di John Brown”, il volumetto della serie “I classici del pensiero libero” del “Corriere della sera”, ha una sicura connotazione politica: antischiavista, antirazzista, ribelle. Ma “La disobbedienza civile” è il discorso dello sciopero fiscale contro lo Stato invadente, il discorso cardine del conservatorismo, anzi della reazione in agguato – ultimamente dei leghisti veneti, dei circoli Usa del tè. Il volumetto, e tutto Thoreau, sintetizzano l’ambivalenza politica del pensiero liberale, anzi la trivalenza: contro lo Stato, per i diritti dei più deboli, su un fondo anarchico. Cioè l’ambiguità dell’ideologia europea, occidentale, tra destra e sinistra anche estreme, come l’attualità politica italiana certifica, tra comunisti che diventano leghisti, dipietristi e finiani, o neo fascisti che si professano paracomunisti. O dell’ideologia tout court.
La traduzione e le note sono quelle di Piero Sanavio, lo scrittore che a lungo fu cultore unico di Ezra Pound e Céline: la radice anarcoide è la stessa.
Henry David Thoreau, La disobbedienza civile, Corriere della sera, pp. 100, € 1
La traduzione e le note sono quelle di Piero Sanavio, lo scrittore che a lungo fu cultore unico di Ezra Pound e Céline: la radice anarcoide è la stessa.
Henry David Thoreau, La disobbedienza civile, Corriere della sera, pp. 100, € 1
martedì 30 novembre 2010
Marchionne e gli anni perduti della Fiat
Dunque Marchionne è riuscito a rimettere veramente in moto la Fiat. Se può annullare il debito, pur in questa fase di ristagno del mercato. Mantenere l’obiettivo dei sei milioni di autovetture l’anno, sempre in questo mercato asfittico. Anticipare l’acquisto della maggioranza della Chrysler. E con Chrysler investire a Torino, la controprova che la casa ameericana è effettivamente risanata, come del resto il presidente Usa Obama ha testimoniato in più occasioni. Marchionne è riuscito in due anni, anni non facili, di crisi perdurante del mercato, là dove per trent’anni i vari azionisti avevano sempre fallito. Cioè per molti anni la Mercedes: Chrysler ha anzi minacciato la stabilità del colosso tedesco, dopo averne triturato i migliori manager.
Non c’è, è ovvio, una superiorità tedesca scritta nella storia. E si capisce ora, in questo tornante della gestione Fiat, quante occasioni il gruppo ha sprecato, e ha fatto sprecare all’Italia, nel quasi mezzo secolo di gestione dell’Avvocato, per molti anni in compagnia di Cesare Romiti, entrambi impegnati unicamente ad assicurare un dividendo alla famiglia. Un gruppo che Valletta aveva lasciato a fine anni Cinquanta al quarto posto tra le case automobilistiche mondiali, dietro le tre americane, e che ora arranca. Senza neanche un buon modello di media cilindrata. Avendo lasciato il segmento alto, e più redditizio, interamente alle case tedesche.
Non c’è, è ovvio, una superiorità tedesca scritta nella storia. E si capisce ora, in questo tornante della gestione Fiat, quante occasioni il gruppo ha sprecato, e ha fatto sprecare all’Italia, nel quasi mezzo secolo di gestione dell’Avvocato, per molti anni in compagnia di Cesare Romiti, entrambi impegnati unicamente ad assicurare un dividendo alla famiglia. Un gruppo che Valletta aveva lasciato a fine anni Cinquanta al quarto posto tra le case automobilistiche mondiali, dietro le tre americane, e che ora arranca. Senza neanche un buon modello di media cilindrata. Avendo lasciato il segmento alto, e più redditizio, interamente alle case tedesche.
Il Sud è bugie e insipienza
La spazzatura di Napoli è il paradigma della “questione meridionale”: la straordinaria incapacità di governo del Sud, l’opportunismo del Nord. Berlusconi l’ha spiegato a Napoli: “La spazzatura è affare degli enti locali. Tuttavia, il governo farà la sua parte. Personalmente ho convinto i governatori del Veneto e del Piemonte (i presidenti di Regione leghisti, n.d.r.) ad accettare il trattamento dei rifiuti di Napoli”. Cioè: Napoli offre alla Lega e al Nord un’occasione incontestabile di dire che il Sud è marcio, e che loro non ne prenderanno mai i rifiuti. Dopodiché offre a Veneto e Piemonte la possibilità di far lavorare a pieno regime i propri termovalorizzatori: il Comune di Napoli, la Provincia e la Regione Campania, grandi signori che non toccano l’immondizia, pagano per essa il Nord. Dove, se i termovalorizzatori, lavorando al 50-60 per cento della capacità, erano al break-even, con la spazzatura napoletana produrranno solo utili. Anche il trasporto si fa a beneficio dei trasportatori del Nord, per il carico pieno al ritorno e per quello vuoto al ritorno.
Chiacchiere e stupidità, non si saprebbe definire altrimenti la situazione di Napoli. Che una metropoli di due milioni di persone non si sia dotata di impianti di smaltimento dei rifiuti, e per esso paghi cifre enormi fuori regione – in Germania ancora ridono delle ecoballe, la spazzatura compattata e inviata per lo smaltimento oltralpe in appositi treni, invenzione prodigiosa dei Verdi, di spreco e sicuramente di corruzione, capitanati allora da Pecoraro Scanio.
Ma non c'è solo Napoli. Il presidente dell’Anas Pietro Ciucci può dire che la Salerno-Reggio Calabria sarà rifatta entro tre anni, può dirlo impunemente, quando ancora ne deve appaltare quasi un terzo. Mentre consente alle imprese appaltarci di fare i lavori di ammodernamento senza alcuna garanzia di sicurezza per il traffico, specie nelle tante gallerie. O il governo che, mentre non dimentica il ponte di Messina, nel senso che spende ogni anno qualche centinaio di milioni per progettazioni che sa inutili, vara un piano straordinario per il Sud che a ogni ora cambia di dimensioni: 36 miliardi, no 60, no 86, o forse saranno 100. Miliardi senza soldi.
Chiacchiere e stupidità, non si saprebbe definire altrimenti la situazione di Napoli. Che una metropoli di due milioni di persone non si sia dotata di impianti di smaltimento dei rifiuti, e per esso paghi cifre enormi fuori regione – in Germania ancora ridono delle ecoballe, la spazzatura compattata e inviata per lo smaltimento oltralpe in appositi treni, invenzione prodigiosa dei Verdi, di spreco e sicuramente di corruzione, capitanati allora da Pecoraro Scanio.
Ma non c'è solo Napoli. Il presidente dell’Anas Pietro Ciucci può dire che la Salerno-Reggio Calabria sarà rifatta entro tre anni, può dirlo impunemente, quando ancora ne deve appaltare quasi un terzo. Mentre consente alle imprese appaltarci di fare i lavori di ammodernamento senza alcuna garanzia di sicurezza per il traffico, specie nelle tante gallerie. O il governo che, mentre non dimentica il ponte di Messina, nel senso che spende ogni anno qualche centinaio di milioni per progettazioni che sa inutili, vara un piano straordinario per il Sud che a ogni ora cambia di dimensioni: 36 miliardi, no 60, no 86, o forse saranno 100. Miliardi senza soldi.
lunedì 29 novembre 2010
Wikileaks vuole dire: non si tocca Israele
Purtroppo è chiaro chi ha dato a Wikileaks i documenti, e per quale motivo: milioni di carte per appuntare l’attenzione sul Medio Oriente. Sbugiardando gli arabi come doppiogiochisti del mondo mussulmano. Riducendo il Pakistan alla corruzione. E l’Afghanistan, la cui stabilizzazione con i capi tribù Karzai è il punto nevralgico della presidenza Obama. Annichilendo i diplomatici che hanno qualche autonomia di giudizio nella questione israeliana. È questa l’idea che il ministero italiano degli Esteri si è fatto delle indiscrezioni travasate su Wikileaks. In accordo, si dice, con valutazioni interne al dipartimento di Stato Usa. In linea col costante sabotaggio che Wikileaks fa da una diecina di mesi dei piani americani di stabilizzazione del Medio Oriente. Che solo in superficie si può ricondurre, come pretende, a un'azione antimperialista e legalitaria. Luttwak lo spiega peraltro con chiarezza, nell’intervista odierna al “Corriere della sera”, con l’accortezza di dire nemici degli americani quei governi che Israele giudica non amichevoli.
Fuori dallo scacchiere mediorientale sono state fornite a Wikileaks solo carte ininteressanti: su Berlusconi, Putin, Sarkozy, Zapatero, la Cina, la Corea del Nord, l’Iran e lo stesso Ahmadinejad. Roba di poco conto, giusto per mettere in difficoltà chi quei rapporti ha redatto, o ha alimentato, se sono funzionari giudicati filoarabi, come l’ex incaricata d’affari Usa a Roma, Elizabeth Dibble, o il consigliere diplomatico di Sarkozy, Lévitte. Il fuoco è contro l’amministrazione americana, Hillary Clinton in primo luogo, e lo stesso Obama. Da parte di un fornitore che sicuramente ha la chiave di tutte le comunicazioni internet del dipartimento di Stato. Ed ha l’organizzazione per fare una cernita nella messe di comunicazioni quotidiane e orientare le indiscrezioni: il travaso a Wikileaks non è stato fatto alla rinfusa. Che il raid informatico sia l’opera di un ragazzo americano soldato in Iraq non convince, a fronte dei controlli di sicurezza messi in opera nelle comunicazioni Usa dopo l’11 settembre.
Non si tratta di un'intrusione da hacker, si dice, non inverosimilmente, ma di un piano di lenta e lunga elaborazione. I documenti diffusi, diversi per data, provenienza e tematiche, dicono che l’hackeraggio non è stato occasionale, come è proprio della vera e propria pirateria, ma costante. Fosse stato occasionale, avremmo avuto i documenti degli ultimi sei mesi, poniamo, o dell’ultimo anno, o della regione Medio Oriente, o della regione Europa ma in un dato operiodo. Invece abbiamo milioni di documenti di varie epoche, provenienze e tematiche, apparentemente alla rinfusaa, ma, appunto, solo apparentemente, poiché c’è stata una cernita. Tutti i sistemi informatici hanno inoltre degli apparati in grado di reagire a un’incursione. Per il Dipartimento di Stato invece l’incursione è stata costante e prolungata nel tempo: è quindi un affare di spionaggio.
L'apparato americano preso di mira è molto organizzato e ben protetto: il Dipartimento di Stato è ritenuto l'unico vero laboratorio superstite, con quello di Pechino, di una vera e propria politica estera: programmata, bilanciata, accorta. L'unica area off-limits alle strategie Usa sarebbe l'ex Palestina. Su cui Israele esercita una gelosa e insindacabile giurisdizione. Una privativa che pesa a Washington, se si pensa quanto una soluzione del conflitto fra Israele e i palestinesi è centrale per una serie di piani e bisogni Usa di stabilizzazione: petroliferi, antisovversione, di riequilibrio delle potenze in Asia.
Come già per il presidente Clinton, anche per Obama insomma scatterebbe un avviso sulla questione arabo-palestinese. Fu più grave per Clinton, che era al secondo mandato e avrebbe potuto effettivamente imporre una pace prima della colonizzazione. L’allora presidente fu mandato sotto processo. Più blando è l’avvertimento per Obama, che è al primo mandato e può “ravvedersi”. Obama e Hillary Clinton erano nel mirino da quando avevano osato insistere per una soluzione a Gerusalemme. Un primo segnale Obama l’ha già avuto col passaggio in blocco dei media con Sarah Palin, i circoli del tè e altre manifestazioni insulse dell’opinione pubblica americana.
Fuori dallo scacchiere mediorientale sono state fornite a Wikileaks solo carte ininteressanti: su Berlusconi, Putin, Sarkozy, Zapatero, la Cina, la Corea del Nord, l’Iran e lo stesso Ahmadinejad. Roba di poco conto, giusto per mettere in difficoltà chi quei rapporti ha redatto, o ha alimentato, se sono funzionari giudicati filoarabi, come l’ex incaricata d’affari Usa a Roma, Elizabeth Dibble, o il consigliere diplomatico di Sarkozy, Lévitte. Il fuoco è contro l’amministrazione americana, Hillary Clinton in primo luogo, e lo stesso Obama. Da parte di un fornitore che sicuramente ha la chiave di tutte le comunicazioni internet del dipartimento di Stato. Ed ha l’organizzazione per fare una cernita nella messe di comunicazioni quotidiane e orientare le indiscrezioni: il travaso a Wikileaks non è stato fatto alla rinfusa. Che il raid informatico sia l’opera di un ragazzo americano soldato in Iraq non convince, a fronte dei controlli di sicurezza messi in opera nelle comunicazioni Usa dopo l’11 settembre.
Non si tratta di un'intrusione da hacker, si dice, non inverosimilmente, ma di un piano di lenta e lunga elaborazione. I documenti diffusi, diversi per data, provenienza e tematiche, dicono che l’hackeraggio non è stato occasionale, come è proprio della vera e propria pirateria, ma costante. Fosse stato occasionale, avremmo avuto i documenti degli ultimi sei mesi, poniamo, o dell’ultimo anno, o della regione Medio Oriente, o della regione Europa ma in un dato operiodo. Invece abbiamo milioni di documenti di varie epoche, provenienze e tematiche, apparentemente alla rinfusaa, ma, appunto, solo apparentemente, poiché c’è stata una cernita. Tutti i sistemi informatici hanno inoltre degli apparati in grado di reagire a un’incursione. Per il Dipartimento di Stato invece l’incursione è stata costante e prolungata nel tempo: è quindi un affare di spionaggio.
L'apparato americano preso di mira è molto organizzato e ben protetto: il Dipartimento di Stato è ritenuto l'unico vero laboratorio superstite, con quello di Pechino, di una vera e propria politica estera: programmata, bilanciata, accorta. L'unica area off-limits alle strategie Usa sarebbe l'ex Palestina. Su cui Israele esercita una gelosa e insindacabile giurisdizione. Una privativa che pesa a Washington, se si pensa quanto una soluzione del conflitto fra Israele e i palestinesi è centrale per una serie di piani e bisogni Usa di stabilizzazione: petroliferi, antisovversione, di riequilibrio delle potenze in Asia.
Come già per il presidente Clinton, anche per Obama insomma scatterebbe un avviso sulla questione arabo-palestinese. Fu più grave per Clinton, che era al secondo mandato e avrebbe potuto effettivamente imporre una pace prima della colonizzazione. L’allora presidente fu mandato sotto processo. Più blando è l’avvertimento per Obama, che è al primo mandato e può “ravvedersi”. Obama e Hillary Clinton erano nel mirino da quando avevano osato insistere per una soluzione a Gerusalemme. Un primo segnale Obama l’ha già avuto col passaggio in blocco dei media con Sarah Palin, i circoli del tè e altre manifestazioni insulse dell’opinione pubblica americana.
L’euro non sarà più terreno di caccia
Sulla carte è rivolto alle banche, nella sostanza ai governi e alle loro consorterie: un monito contro la speculazione facile. Il Meccanismo di Stabilità Europeo non è sarà Fondo Monetario Europeo, ma si attribuisce lo status di creditore privilegiato in tutti i casi in cui dovrà venire in aiuto di un paese del’area euro, dietro solo al Fmi. E questo è il primo punto contro la facile speculazione contro l’euro di questi anni, in Grecia, Irlanda e altrove. Di operazioni di credito in cui, cioè, le banche e ogni altro pestatore puntava ad allargare la disponibilità di credito, e insieme al rischio d’insolvenza, nella certezza che gli Stati non falliscono - una certezza che Bush e Paulson hanno voluto far pagare alla Lehman Brothers. Un secondo punto selettivo nella stabilità monetaria varato ieri è l’annunciata selettività negli interventi di stabilizzazione: i governi che risulteranno colpevoli, o ne saranno sospettati, di manovre sul debito in qualche modo speculative, dovranno pagare un onere aggiunto. Nelle forme del riscadenzamento del debito, o della svalutazione del nominale. Un modo come un altro per dire ai prestatori che non c’è consorteria politica che possa tenere loro bordone.
È un irrigidimento che la Bce e l’Ecofin hanno proposto e adottato per venire incontro al governo tedesco, la cui partecipazione alla stabilizzazione dell’euro è criticata in patria come un indebito salvataggio, che i tedeschi pagherebbero caro. Ma è anche un test di forza dell’euro, che a questo punto è il solo strumento europeo veramente unitario. E anche uno efficace: l’euro non sarà più terreno di caccia aperto.
È un irrigidimento che la Bce e l’Ecofin hanno proposto e adottato per venire incontro al governo tedesco, la cui partecipazione alla stabilizzazione dell’euro è criticata in patria come un indebito salvataggio, che i tedeschi pagherebbero caro. Ma è anche un test di forza dell’euro, che a questo punto è il solo strumento europeo veramente unitario. E anche uno efficace: l’euro non sarà più terreno di caccia aperto.
Berlusconi ha già perso una partita, con Murdoch
In una televisione americana o inglese non ci sarebbe mai stata un’intervista come quella che Sky ha diffuso e propagandato, con insistenza, in tutti i suoi telegiornali e nella pubblicità a pagamento, con una prostituta che dicesse di essere andata a letto con Murdoch. Perché ce ne sono state, forse più di quelle che sono andate con Berlusconi. Ma Murdoch non avrebbe consentito che parlasse: l’avrebbe eliminata prima, avrebbe eliminato l’intervistatrice, avrebbe oscurato la televisione, l’avrebbe comprata prima, qualcosa avrebbe fatto. Anche se la gentildonna in questione, come quella che Sky ha graziosamente regalato agli abbonati, fosse stata già riconosciuta drogata abituale e calunniosa dagli inquirenti.
In Italia è diverso, tutto di può dire. Murdoch ha deciso di farla pagare a Berlusconi nel momento in cui questi non gli ha ceduto Mediaset, e ha anzi tentato di far entrare Mediaset nel feudo della tv a pagamento. Fa blocco sul satellite, e minaccia di fare la tv generalista, il terreno proprio di Mediaset. Fin qui è normale concorrenza. Ma Murdoch ha scoperto che in Italia la concorrenza si può vincere con la politica. E che su questo terreno può contare sul sostegno di tre quarti dello schieramento. Gratuitamente. Che in America avrebbe dovuto invece pagare: anzi, in un’occasione del genere, se avesse deciso di attaccare Hillary Clinton o Obama, i repubblicani avrebbero molto alzato il prezzo, come avvenne per l’altra virtuosa Lewinsky - o se avesse deciso di attaccare Bush, l’avrebbero alzato Hillary Clinton e Obama: in Italia la politica è povera, e vuole restarlo.
In Italia è diverso, tutto di può dire. Murdoch ha deciso di farla pagare a Berlusconi nel momento in cui questi non gli ha ceduto Mediaset, e ha anzi tentato di far entrare Mediaset nel feudo della tv a pagamento. Fa blocco sul satellite, e minaccia di fare la tv generalista, il terreno proprio di Mediaset. Fin qui è normale concorrenza. Ma Murdoch ha scoperto che in Italia la concorrenza si può vincere con la politica. E che su questo terreno può contare sul sostegno di tre quarti dello schieramento. Gratuitamente. Che in America avrebbe dovuto invece pagare: anzi, in un’occasione del genere, se avesse deciso di attaccare Hillary Clinton o Obama, i repubblicani avrebbero molto alzato il prezzo, come avvenne per l’altra virtuosa Lewinsky - o se avesse deciso di attaccare Bush, l’avrebbero alzato Hillary Clinton e Obama: in Italia la politica è povera, e vuole restarlo.
domenica 28 novembre 2010
Turbe tedesche e leadership europea
Danilo Taino informa sul “Corriere della sera” ieri che il week-end passa in Germania facendo i conti su quanto il cittadino tedesco ci rimette a finanziare l’Irlanda. Con un cinquanta per cento che pensa che rimette e che non è giusto. Mentre un altro 50 per cento pensa che ci rimette, ma che tuttavia deve pagare qualcosa per avere la leadership dell’Europa. Mentre il contrario è vero, che l’Europa non ha una una leadership, e che la colpa è della grettezza tedesca. Lo stesso dibattito di cui riferisce Taino, non surreale come potrebbe essere tanto è incredibile, è indice dell’indigenza politica europea, e più degli economisti, i commentatori e i giornaloni tedeschi - si vede che l’opinione pubblica volgare e sciocca è un male europeo: nessuno ha raccontato al contribuente italiano l’incredibile frottola su cui la Germania vive, come pare, in ansia l’Avvento del 2010.
La Germania non paga per l’euro. Non più dell’Italia per dire. La quale non paga nulla, ma investe sull’euro, che è cosa ben diversa. Non solo non paga il contribuente, cioè, ma nessuno paga, in Germania o altrove, per un prestito che rafforza l’euro, e quindi tiene bassi i tassi d’interesse. E si fa remunerare al 6 per cento, più di un mutuo. Come credito privilegiato, a fronte di ogni altro creditore. La Germania vi contribuisce al 18,9 per cento – l’Italia al 12,5. Ma è un investimento, e come tale non aggrava il deficit pubblico, e quindi la contabilità. Non è un trasferimento all’Irlanda, anzi è l’imposizione di una sorta di prestito forzoso. È un prestito privo di rischio, garantito, oltre che dall’Irlanda, dalla Banca centrale europea. E non è una spesa che aggravi le finanze pubbliche. Possibile che in Germania questo non si sappia? È possibile.
La Germania non paga per l’euro. Non più dell’Italia per dire. La quale non paga nulla, ma investe sull’euro, che è cosa ben diversa. Non solo non paga il contribuente, cioè, ma nessuno paga, in Germania o altrove, per un prestito che rafforza l’euro, e quindi tiene bassi i tassi d’interesse. E si fa remunerare al 6 per cento, più di un mutuo. Come credito privilegiato, a fronte di ogni altro creditore. La Germania vi contribuisce al 18,9 per cento – l’Italia al 12,5. Ma è un investimento, e come tale non aggrava il deficit pubblico, e quindi la contabilità. Non è un trasferimento all’Irlanda, anzi è l’imposizione di una sorta di prestito forzoso. È un prestito privo di rischio, garantito, oltre che dall’Irlanda, dalla Banca centrale europea. E non è una spesa che aggravi le finanze pubbliche. Possibile che in Germania questo non si sappia? È possibile.
Il mondo com'è - 50
astolfo
Capitalismo – Il suo segreto confessionale potrebbe essere nel mancato riposo domenicale. O meglio nel riposo – è l’Inghilterra che ha inventato la settimana corta – ma senza possibilità di diversivo, di giocare e ballare: il sabato ebraico, la domenica scozzese o inglese, calvinista, anglicana. Da quando gli inglesi la domenica bisbocciano, è finito il loro impero. Lo spreco in questa logica è negativo non come spesa, che è parte costituente del gioco del capitalismo (c’è chi deve perdere per far guadagnare altri), ma come dissipazione di energie. Si può spendere, si deve, ma non per godere. Non è il thrift il segreto, ma il cuore arido.
I due capitalismi, il thrift e la dépense, la micragna e lo spreco, sono fisicizzati nel racconto di Karen Blixen, “Il pranzo di Babette” (meglio “Babette’s Feat”, il banchetto), e di più nelle immagini del film. È su due approcci antitetici alla vita che il racconto è costruito: il piacere, e la rinuncia. Anche un casto bacio è uno spreco, né si può indugiare sulla memoria di quel che non fu, il riserbo è una ghigliottina. Ma è la fisicità, delle persone e le cose, la spettralità e la magnificenza, che dà corpo al racconto, differenziando e scolpendo i caratteri. Su due modi diversi dell’accumulo che sono due mondi diversi, il germanico e il latino, il protestante e il cattolico, il Nord e il Sud. Quello del risparmio e del timore di Dio conclamato (recitato) e quello vissuto, del gusto, dello scialo. Quello del timore e quello dell’intemperanza, entrambi in grado di dare prosperità e indigenza, piacere e insicurezza, nel quadro di una vita che si dà il suo scopo. Che è il fondamento ultimo del capitalismo.
Conservazione – Fiorentissimo business. Come la carità. Ma è più vorace, neo controllato.
Uno dei più squallidi mai immaginati, perché: 1) camuffa il rapace profitto, e la corruzione, sotto le sembianze superiori dell’estetica, 2) a spese di tutti noi, 3) a opera di architetti e ingegneri, il cuore della modernità, della buona coscienza del paese.
Fascismo– Fu popolare (De Felice), fu l’espressione dei ceti medi, della piccola borghesia (Salvatorelli, Gramsci, e i tantissimi altri, per esempio Asor Rosa ultimamente). Sono connotazioni che sono anche un critica della democrazia di massa.
Nella democrazia di massa, a suffragio universale, a partecipazione diretta, è inevitabile che i partiti e le politiche vincenti siano di massa, o comunque maggioritari, e per ciò stesso rispecchino anche larghe fette di ceti popolari. Ma, eticamente, una colpa si può loro addebitare solo se si identificano con gli atti perversi di un regime, non se ne sono traditi, o ne sono divenuti ostaggio. Politicamente è insensato scindere, come usa nei film e romanzi su Pinochet o l’apartheid, la massa piccolo borghese dalla grande borghesia di censo, cultura, nascita. La prima facinorosa, la seconda tollerante e illuminata. È certo vero che ci sono più torturatori fra i piccoli che fra i grandi borghesi, ma è un fatto statistico. Mentre non c’è regime che si sia affermato contro le classi dirigenti. Anche il khomeinismo: l’ayatollah fu l’uomo della grande borghesia, intellettuale, finanziaria, militare perfino, laica. Ugualmente è proporzionata secondo statistica la disillusione. Con una differenza: quella dei ricchi e colti è più visibile, sa farsi meglio valere.
C’è un curioso ritorno di spirito aristocratico nella critica al fascismo (mazismo, peronismo, razzismo, khomeinismo e integralismo, bonapartismo arabo e sudamericano) come fenomeno popolare. Curioso perché scinde la colpa e in sostanza assolve i ricchi e i potenti, anche se dichiara il contrario. È questa un’operazione di destra, anche se non rozza come il fascismo, con le armi della critica democratica. Diverso sarebbe criticare i meccanismi della democrazia popolare: la formazione-manipolazione dell’opinione pubblica, il ruolo intangibile (strumentale) dei media, i limiti del voto.
De Felice non è criticabile perché fa opera di storico: dice che il fascismo fu popolare quando lo fu, e i motivi per cui lo fu – e che fu anche impopolare. Diverso è il giudizio a carattere politico – della sociologia politica da Salvatorelli a Asor Rosa – che attacca la democrazia popolare senza criterio: senza rispondenza ai mutevoli fatti storici, e senza un quadro generale delle cause e degli esiti.
Gattopardismo – Non è un artificio o una trappola, è una disposizione d’animo: l’aristocrazia, che sia nobilitata o sia borghese, è debole. Esaurita la spinta acquisitiva, nella fase della fruizione (aristocrazia), i potenti sono fiacchi. Non per stanchezza, per natura. Forse per sazietà, ma soprattutto per “natura”, anche la natura si acquisisce: si diventa aristocratici nella fase – familiare, sociale – della conservazione, che vuole disponibilità e quieto vivere. Nella fase dell’acquisizione si è invece “naturalmente” briganti e ribaldi avidi. L’aristocrazia che, secondo Tocqueville, ha fatto grande e sempre moderna l’Inghilterra è quella nascente, la borghesia che la corona sempre si occupa di nobilitare.
Hong Kong – L’Inghilterra ha “aperto” la Cina in due maniere, con la guerra dell’oppio e con la retrocessione di Hong Kong. Con Hong Kong ha contagiato la Cina meridionale, da Canton a Shangai e Nanchino, fin negli stili architettonici e i modi urbani, metropolitani.
È l’ambivalenza dell’imperialismo, che non è (solo) sfruttamento: violenza e ammodernamento. Anche se è stato meno efficace, nel senso dell’ammodernamento e del progresso materiale e civile, là dove è stato meno violento: nelle colonie portoghesi e nel Congo Belga.
Hong Kong è anche un paradosso del colonialismo. Perché per un ventennio prima della retrocessione è stata più inglese dell’Inghilterra. Per la ricchezza, l’applicazione, la tenacia, la buona amministrazione: l’urbanizzazione di una laguna infetta, sotto erti aridi pan di zucchero, la pulizia e il decoro, l’efficienza burocratica, il senso civico. Anche Singapore è un capolavoro dell’imperialismo, la durezza politica inclusa.
Laicismo – Il problema con i massoni è, come con i comunisti, che non lasciano vivere: la cultura laica è intollerante. Dei cattolici invece, oberati dal senso di colpa, si può profittare.
Opposizione – La destra non la sa fare, non in democrazia. La sinistra ci riesce meglio che al governo. I due orientamenti hanno funzione distinta?
astolfo@antiit.eu
Capitalismo – Il suo segreto confessionale potrebbe essere nel mancato riposo domenicale. O meglio nel riposo – è l’Inghilterra che ha inventato la settimana corta – ma senza possibilità di diversivo, di giocare e ballare: il sabato ebraico, la domenica scozzese o inglese, calvinista, anglicana. Da quando gli inglesi la domenica bisbocciano, è finito il loro impero. Lo spreco in questa logica è negativo non come spesa, che è parte costituente del gioco del capitalismo (c’è chi deve perdere per far guadagnare altri), ma come dissipazione di energie. Si può spendere, si deve, ma non per godere. Non è il thrift il segreto, ma il cuore arido.
I due capitalismi, il thrift e la dépense, la micragna e lo spreco, sono fisicizzati nel racconto di Karen Blixen, “Il pranzo di Babette” (meglio “Babette’s Feat”, il banchetto), e di più nelle immagini del film. È su due approcci antitetici alla vita che il racconto è costruito: il piacere, e la rinuncia. Anche un casto bacio è uno spreco, né si può indugiare sulla memoria di quel che non fu, il riserbo è una ghigliottina. Ma è la fisicità, delle persone e le cose, la spettralità e la magnificenza, che dà corpo al racconto, differenziando e scolpendo i caratteri. Su due modi diversi dell’accumulo che sono due mondi diversi, il germanico e il latino, il protestante e il cattolico, il Nord e il Sud. Quello del risparmio e del timore di Dio conclamato (recitato) e quello vissuto, del gusto, dello scialo. Quello del timore e quello dell’intemperanza, entrambi in grado di dare prosperità e indigenza, piacere e insicurezza, nel quadro di una vita che si dà il suo scopo. Che è il fondamento ultimo del capitalismo.
Conservazione – Fiorentissimo business. Come la carità. Ma è più vorace, neo controllato.
Uno dei più squallidi mai immaginati, perché: 1) camuffa il rapace profitto, e la corruzione, sotto le sembianze superiori dell’estetica, 2) a spese di tutti noi, 3) a opera di architetti e ingegneri, il cuore della modernità, della buona coscienza del paese.
Fascismo– Fu popolare (De Felice), fu l’espressione dei ceti medi, della piccola borghesia (Salvatorelli, Gramsci, e i tantissimi altri, per esempio Asor Rosa ultimamente). Sono connotazioni che sono anche un critica della democrazia di massa.
Nella democrazia di massa, a suffragio universale, a partecipazione diretta, è inevitabile che i partiti e le politiche vincenti siano di massa, o comunque maggioritari, e per ciò stesso rispecchino anche larghe fette di ceti popolari. Ma, eticamente, una colpa si può loro addebitare solo se si identificano con gli atti perversi di un regime, non se ne sono traditi, o ne sono divenuti ostaggio. Politicamente è insensato scindere, come usa nei film e romanzi su Pinochet o l’apartheid, la massa piccolo borghese dalla grande borghesia di censo, cultura, nascita. La prima facinorosa, la seconda tollerante e illuminata. È certo vero che ci sono più torturatori fra i piccoli che fra i grandi borghesi, ma è un fatto statistico. Mentre non c’è regime che si sia affermato contro le classi dirigenti. Anche il khomeinismo: l’ayatollah fu l’uomo della grande borghesia, intellettuale, finanziaria, militare perfino, laica. Ugualmente è proporzionata secondo statistica la disillusione. Con una differenza: quella dei ricchi e colti è più visibile, sa farsi meglio valere.
C’è un curioso ritorno di spirito aristocratico nella critica al fascismo (mazismo, peronismo, razzismo, khomeinismo e integralismo, bonapartismo arabo e sudamericano) come fenomeno popolare. Curioso perché scinde la colpa e in sostanza assolve i ricchi e i potenti, anche se dichiara il contrario. È questa un’operazione di destra, anche se non rozza come il fascismo, con le armi della critica democratica. Diverso sarebbe criticare i meccanismi della democrazia popolare: la formazione-manipolazione dell’opinione pubblica, il ruolo intangibile (strumentale) dei media, i limiti del voto.
De Felice non è criticabile perché fa opera di storico: dice che il fascismo fu popolare quando lo fu, e i motivi per cui lo fu – e che fu anche impopolare. Diverso è il giudizio a carattere politico – della sociologia politica da Salvatorelli a Asor Rosa – che attacca la democrazia popolare senza criterio: senza rispondenza ai mutevoli fatti storici, e senza un quadro generale delle cause e degli esiti.
Gattopardismo – Non è un artificio o una trappola, è una disposizione d’animo: l’aristocrazia, che sia nobilitata o sia borghese, è debole. Esaurita la spinta acquisitiva, nella fase della fruizione (aristocrazia), i potenti sono fiacchi. Non per stanchezza, per natura. Forse per sazietà, ma soprattutto per “natura”, anche la natura si acquisisce: si diventa aristocratici nella fase – familiare, sociale – della conservazione, che vuole disponibilità e quieto vivere. Nella fase dell’acquisizione si è invece “naturalmente” briganti e ribaldi avidi. L’aristocrazia che, secondo Tocqueville, ha fatto grande e sempre moderna l’Inghilterra è quella nascente, la borghesia che la corona sempre si occupa di nobilitare.
Hong Kong – L’Inghilterra ha “aperto” la Cina in due maniere, con la guerra dell’oppio e con la retrocessione di Hong Kong. Con Hong Kong ha contagiato la Cina meridionale, da Canton a Shangai e Nanchino, fin negli stili architettonici e i modi urbani, metropolitani.
È l’ambivalenza dell’imperialismo, che non è (solo) sfruttamento: violenza e ammodernamento. Anche se è stato meno efficace, nel senso dell’ammodernamento e del progresso materiale e civile, là dove è stato meno violento: nelle colonie portoghesi e nel Congo Belga.
Hong Kong è anche un paradosso del colonialismo. Perché per un ventennio prima della retrocessione è stata più inglese dell’Inghilterra. Per la ricchezza, l’applicazione, la tenacia, la buona amministrazione: l’urbanizzazione di una laguna infetta, sotto erti aridi pan di zucchero, la pulizia e il decoro, l’efficienza burocratica, il senso civico. Anche Singapore è un capolavoro dell’imperialismo, la durezza politica inclusa.
Laicismo – Il problema con i massoni è, come con i comunisti, che non lasciano vivere: la cultura laica è intollerante. Dei cattolici invece, oberati dal senso di colpa, si può profittare.
Opposizione – La destra non la sa fare, non in democrazia. La sinistra ci riesce meglio che al governo. I due orientamenti hanno funzione distinta?
astolfo@antiit.eu
Secondi pensieri - (58)
zeulig
Capitalismo – Si rapporta alla Riforma in quanto si confonde con la libertà politica (Max Weber lo sa, che non lo dice: l’identificazione si fa in Italia in chiave anticlericale). Il liberalismo non è il diritto al dissent (tolleranza), né quello alla proprietà (borghesia). Nasce dalla riforma come movimento religioso e come movimento politico, contro l’unità della società politica (impero): la libertà politica è un diritto incomprimibile, quindi non “tollerabile”. E si accompagna in principio all’uguaglianza – quindi fa a meno della proprietà.
La religiosità non c’entra, se non nel senso dell’ecclesìa, della comunità d’interessi – da cui le leggi, e la protezione della proprietà. In sé è insensibilità all’accumulo.
Comunismo – È imploso nel momento di minor vigore del capitalismo. Nell’età difensiva delle Thatcher e dei Reagan, dei write-off e degli stati di crisi, esaurita l’onda lunga del fordismo, il combianto di consumi di massa e del welfare. La sua carica era solo antagonistica: proprio quan do il capitalismo si è riconosciuto nella crisi costante il comunismo è crollato, come se gli fosse mancato l’appoggio che lo teneva su. È un caso di saprofitismo?
Al suo meglio è romantico. Quindi costituzionalmente crudele – con sé stesso e con gli altri – e cioè disfattista. È così che alla fine del suo lungo secolo ha lasciato solo rovine.
Tanta degna passione, ben motivata, la passione politica che ha incontrato il più vasto consenso popolare, senza paragoni nella storia, scompare senza lasciare traccia, se non sanguinaria. È un’illusione? Ma la violenza è stata, è, reale. Sulle osa e sulle coscienze di masse altrettanto sterminate di povera gente. La politica non è per il popolo? È possibile. Ma il popolo non ha avuto una funzione in nessuna esperienza comunista, da Mosca alla Cina e a Cuba, se non come derivata della funzione intellettuale. Il comunismo è stato un tentativo dei filosofi di governare la realtà. Da qui il suo fascino, e la capacità di persuasione: far passare per liberazione la coazione, non soltanto dei corpi ma pure delle coscienze e persino delle passioni e degli affetti, tra i sessi, in famiglia, con gli amici. È l’orrore della sua realtà, per la cattiva coscienza dietro la violenza scatenata.
Cristo - È quello che Dio non è: buono, giusto, tranquillo, a volte perfino indolente. Non disprezza nessuno, non condanna. Ma per questo non è nemmeno un uomo.
Dio – È il presente.
È fantasia. Ce lo stiamo creando. Se, nella storia del mondo compressa in ventiquattro ore, quella nota, religione compresa, prende appena pochi secondi, siamo agli inizi.
È l’uomo eternizzato, si vede dai difetti, che son costanti: umorale, vendicativo, simulatore. Ogni Dio lo è, non soltanto quello della Bibbia.
Quello della Bibbia è un Dio di verità. Per questo è terribile: la verità, intesa filosoficamente, è distruttiva. Ed è incomprensibile: la ragione non ha Dio.
Per questo la Bibbia e la lingua ebraica non conoscono il Caso? L’effetto è il finto razionalismo e il finto mistero che confluiscono nella Cabbala.
C’è chi lo risolve nell’amore. Che è amore per l’uomo. Che maschera l’amore di se stessi. Che è la negazione di Dio: l’amore è la negazione di Dio, in quanto orgoglio da Ersatz.
Erotismo – È “fatto” e non natura, modo: l’immaginazione, visiva e onirica, l’autosuggestione, la memoria (che è immagine) prevalgono sulla “cosa” naturale e fisica. Come lo vogliono i creatori di moda e di gusto, che sono gay o asessuati: il corpo è un manichino, per crearvi attorno l’attrazione del “fatto” – in forma di opulenza o magrezza, tette o chiappe, viso o gambe, nudità o pudore.
Morte – Pensare alla morte è essere morti dentro.
Non c’è (incombe) se si vive nel presente. La storia è il presente. La storia tradizionale (current, comune) è mancanza, paura, desidero. Il presente è accettazione senza residui: è gioia. Dio è il presente.
In un certo senso siamo tutti morti, se passiamo dal nulla al nulla. Senza lasciare traccia, se non artificiosa: affetti, reputazione, fama.
Purezza– Crea molte mancanze. Sia quella chimico-fisica (dei material, dei procedimenti), sia quella etica, e quella religiosa (quante eresie!), e ora quella etnica e razziale. È però sempre in cima alla virtù.
Storia – È l’esemplificazione della fisica – il gesto efficace: correre, toccare, colpire, tagliare… La fisica dà forma alla storia.
Quello che la fisica si spiega meno sono i fenomeni naturali. Se non c’è la storia non c’è la fisica (la natura).
Più a lungo è storia di cose: aria, acqua, fuoco, pietra. La natura dell’uomo (del mondo) è nelle cose.
Verità – È distruttiva, se intesa filosoficamente, come esercizio critico. Nulla vi si sottrae, nemmeno la stessa critica, o il criterio e la finalità della critica, e questa debolezza ne dice l’inconsistenza. Ogni verità è per questo sempre ultima.
zeulig@antiit.eu
Capitalismo – Si rapporta alla Riforma in quanto si confonde con la libertà politica (Max Weber lo sa, che non lo dice: l’identificazione si fa in Italia in chiave anticlericale). Il liberalismo non è il diritto al dissent (tolleranza), né quello alla proprietà (borghesia). Nasce dalla riforma come movimento religioso e come movimento politico, contro l’unità della società politica (impero): la libertà politica è un diritto incomprimibile, quindi non “tollerabile”. E si accompagna in principio all’uguaglianza – quindi fa a meno della proprietà.
La religiosità non c’entra, se non nel senso dell’ecclesìa, della comunità d’interessi – da cui le leggi, e la protezione della proprietà. In sé è insensibilità all’accumulo.
Comunismo – È imploso nel momento di minor vigore del capitalismo. Nell’età difensiva delle Thatcher e dei Reagan, dei write-off e degli stati di crisi, esaurita l’onda lunga del fordismo, il combianto di consumi di massa e del welfare. La sua carica era solo antagonistica: proprio quan do il capitalismo si è riconosciuto nella crisi costante il comunismo è crollato, come se gli fosse mancato l’appoggio che lo teneva su. È un caso di saprofitismo?
Al suo meglio è romantico. Quindi costituzionalmente crudele – con sé stesso e con gli altri – e cioè disfattista. È così che alla fine del suo lungo secolo ha lasciato solo rovine.
Tanta degna passione, ben motivata, la passione politica che ha incontrato il più vasto consenso popolare, senza paragoni nella storia, scompare senza lasciare traccia, se non sanguinaria. È un’illusione? Ma la violenza è stata, è, reale. Sulle osa e sulle coscienze di masse altrettanto sterminate di povera gente. La politica non è per il popolo? È possibile. Ma il popolo non ha avuto una funzione in nessuna esperienza comunista, da Mosca alla Cina e a Cuba, se non come derivata della funzione intellettuale. Il comunismo è stato un tentativo dei filosofi di governare la realtà. Da qui il suo fascino, e la capacità di persuasione: far passare per liberazione la coazione, non soltanto dei corpi ma pure delle coscienze e persino delle passioni e degli affetti, tra i sessi, in famiglia, con gli amici. È l’orrore della sua realtà, per la cattiva coscienza dietro la violenza scatenata.
Cristo - È quello che Dio non è: buono, giusto, tranquillo, a volte perfino indolente. Non disprezza nessuno, non condanna. Ma per questo non è nemmeno un uomo.
Dio – È il presente.
È fantasia. Ce lo stiamo creando. Se, nella storia del mondo compressa in ventiquattro ore, quella nota, religione compresa, prende appena pochi secondi, siamo agli inizi.
È l’uomo eternizzato, si vede dai difetti, che son costanti: umorale, vendicativo, simulatore. Ogni Dio lo è, non soltanto quello della Bibbia.
Quello della Bibbia è un Dio di verità. Per questo è terribile: la verità, intesa filosoficamente, è distruttiva. Ed è incomprensibile: la ragione non ha Dio.
Per questo la Bibbia e la lingua ebraica non conoscono il Caso? L’effetto è il finto razionalismo e il finto mistero che confluiscono nella Cabbala.
C’è chi lo risolve nell’amore. Che è amore per l’uomo. Che maschera l’amore di se stessi. Che è la negazione di Dio: l’amore è la negazione di Dio, in quanto orgoglio da Ersatz.
Erotismo – È “fatto” e non natura, modo: l’immaginazione, visiva e onirica, l’autosuggestione, la memoria (che è immagine) prevalgono sulla “cosa” naturale e fisica. Come lo vogliono i creatori di moda e di gusto, che sono gay o asessuati: il corpo è un manichino, per crearvi attorno l’attrazione del “fatto” – in forma di opulenza o magrezza, tette o chiappe, viso o gambe, nudità o pudore.
Morte – Pensare alla morte è essere morti dentro.
Non c’è (incombe) se si vive nel presente. La storia è il presente. La storia tradizionale (current, comune) è mancanza, paura, desidero. Il presente è accettazione senza residui: è gioia. Dio è il presente.
In un certo senso siamo tutti morti, se passiamo dal nulla al nulla. Senza lasciare traccia, se non artificiosa: affetti, reputazione, fama.
Purezza– Crea molte mancanze. Sia quella chimico-fisica (dei material, dei procedimenti), sia quella etica, e quella religiosa (quante eresie!), e ora quella etnica e razziale. È però sempre in cima alla virtù.
Storia – È l’esemplificazione della fisica – il gesto efficace: correre, toccare, colpire, tagliare… La fisica dà forma alla storia.
Quello che la fisica si spiega meno sono i fenomeni naturali. Se non c’è la storia non c’è la fisica (la natura).
Più a lungo è storia di cose: aria, acqua, fuoco, pietra. La natura dell’uomo (del mondo) è nelle cose.
Verità – È distruttiva, se intesa filosoficamente, come esercizio critico. Nulla vi si sottrae, nemmeno la stessa critica, o il criterio e la finalità della critica, e questa debolezza ne dice l’inconsistenza. Ogni verità è per questo sempre ultima.
zeulig@antiit.eu