La preoccupazione può non essere condivisibile del Viminale sul 14 dicembre come antivigilia di un altro 12 dicembre, sulla ripetizione del 1969, la storia non è mai uguale, e tuttavia le dinamiche lo sono. Le dinamiche si ripetono in modo impressionante. La minaccia violenta viene in parte giustificata, in parte attribuita a infiltrati e provocatori. Che sono invece duemila su ventimila manifestanti, equipaggiati e sincroni, cioè organizzati. La giustificazione sarebbe la riforma universitaria, mentre invece si sa, viene dichiarato e ribadito, che le violenze di martedì erano intese a impedire il voto alla Camera. Del resto, l’università (una riforma che tutte le università vogliono) non giustifica neanche in minima parte quello che è successo. Analoga la compiacenza dei media: l’Ansa e la Rai, seguite a ruota dai giornali, che ribaltano costantemente l’ordine delle violenze. Concordi, contro l’evidenza, come a una parola d’ordine (il “Ruggito del coniglio” sua Radio Due oggi porta a giustificazione della violenza lo scudo fiscale…). Le foto selezionate delle violenze, numerose e circostanziate di poliziotti che picchiano manifestanti, e poche o nulle degli attacchi ai poliziotti, Non si sono viste le asce, né i picconi, un breve spezzone si è avuto in tv di un assalto all’angolo di via del Plebiscito, ma è stato subito tolto dalla circolazione. E i giudici che solleciti come in nessun altro caso rimettono in libertà i violenti fermati dalla polizia.
Analogo il vuoto della politica che dovrebbe gestire la protesta. Che si vuole opportunismo, ma è proprio vuoto. Tutti naturalmente contro la violenza, dal segretario della Fiom che guidava uno dei cortei ai commenti dei giornali, ma tutti schierati. Erri De Luca prospetta la violenza come “necessaria”. Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd alla Camera, fa un’interrogazione per sapere dal governo “chi paga gli infiltrati”. Le considerazioni raccolte da "Repubblica" e il “Manifesto”, miste di psicologismo e sociologismo, il gergo “spontaneista”, sono un calco del sessantovismo - il ’69 non è il ’68: è il movimento cooptato dal Partito, il cursus honorum di base per diventare federale o consigliere comunale.
Il vuoto politico questa volta si estende anche al Quirinale: il presidente Napolitano, che parla ogni giorno, non ha trovato una sola parola per stigmatizzare una manifestazione organizzata per impedire un voto parlamentare. Un fatto che, se non fosse successo, sarebbe inconcepibile. Dopo aver preso la decisione forse definitiva sulla sfiducia, spostandola al 14 dicembre, a dopo il varo delle misure di contenimento della spesa pubblica. Insomma, ben sapendo che cosa è in gioco. Il richiamo della foresta è più forte di ogni ragionamento?
venerdì 17 dicembre 2010
L’ultimo bilancio di Perricone
Sarà l’ultimo bilancio di Antonello Perricone. Del sorridente inflessibile ex manager della Sipra-Rai al tempo dei professori di Prodi. Schieratissimo dapprima per l’Ulivo componente Ds, ora per il Pd componente Popolari, da oltre quattro anni amministratore delegato e direttore generale della Rcs-Corriere della sera. Il miglioramento incontestabile dei risultati quest’anno non lo esime dalle critiche di molti soci. Primi tra essi quelli che dovrebbero essere politicamente dalla sua parte: Mediobanca, Della Valle, e il socio occulto che è in realtà il tutore del gruppo, Giovanni Bazoli.
Rcs nel suo complesso, l’area periodici e quella libraria, e lo stesso “Corriere della sera”, continuerebbero secondo i critici a dare risultati inferiori al potenziale. Con non accorti, o non sufficienti, tagli dei costi, e un insufficiente recupero dei ricavi. Sul fronte pubblicitario e su quello della diffusione. I ricavi pubblicitari diminuiscono percentualmente rispetto a quelli della diffusione. La quale è a sua volta in calo, sia nei quotidiani che nei periodici e nell’editoria. I malumori sono diventati semi pubblici dopo il confronto con i nove mesi del gruppo Repubblica-L’Espresso, con cui Rcs ormai da anni si misura,che ha ottenuto, pur in grave crisi di copie, margini e risultati notevolmente migliori.
Un consiglio freddo ha accolto la sua presentazione auto celebrativa del ritorno all'utile. Tra le critiche anche una a carattere sottilmente politico: l’antiberlusconismo, d’obbligo per un gruppo concorrente diretto di Mondadori, se non di Mediaset, ha pagato ma non nella misura in cui se ne sarebbe avvalsa Sky, concorrente invece di Mediaset. Il “Corriere della sera” è costantemente sotto le 50 copie vendute, e perde lettori in favore del “Giornale”, e ora più che sotto la direzione di Paolo Mieli. Troppo schierata, o poco furba, l’opposizione di Rcs secondo questa critica. A riprova viene portata la tenuta delle consociate spagnole, che non hanno un problema di linea politica, le quali, malgrado la grave crisi dell’economia iberica, presentano miglioramenti sostanziosi sia nella diffusione che nella vendita di pubblicità.
Rcs nel suo complesso, l’area periodici e quella libraria, e lo stesso “Corriere della sera”, continuerebbero secondo i critici a dare risultati inferiori al potenziale. Con non accorti, o non sufficienti, tagli dei costi, e un insufficiente recupero dei ricavi. Sul fronte pubblicitario e su quello della diffusione. I ricavi pubblicitari diminuiscono percentualmente rispetto a quelli della diffusione. La quale è a sua volta in calo, sia nei quotidiani che nei periodici e nell’editoria. I malumori sono diventati semi pubblici dopo il confronto con i nove mesi del gruppo Repubblica-L’Espresso, con cui Rcs ormai da anni si misura,che ha ottenuto, pur in grave crisi di copie, margini e risultati notevolmente migliori.
Un consiglio freddo ha accolto la sua presentazione auto celebrativa del ritorno all'utile. Tra le critiche anche una a carattere sottilmente politico: l’antiberlusconismo, d’obbligo per un gruppo concorrente diretto di Mondadori, se non di Mediaset, ha pagato ma non nella misura in cui se ne sarebbe avvalsa Sky, concorrente invece di Mediaset. Il “Corriere della sera” è costantemente sotto le 50 copie vendute, e perde lettori in favore del “Giornale”, e ora più che sotto la direzione di Paolo Mieli. Troppo schierata, o poco furba, l’opposizione di Rcs secondo questa critica. A riprova viene portata la tenuta delle consociate spagnole, che non hanno un problema di linea politica, le quali, malgrado la grave crisi dell’economia iberica, presentano miglioramenti sostanziosi sia nella diffusione che nella vendita di pubblicità.
L’amore maschile di Sofia
Racconto notturno, che la riproposta di Sky accentua: non il sogno ma l’amore trasognato. L’amore narrato con semplicità, delicato, leggero. Non tanto per la caricaturata ambientazione giapponese quanto per la notte, il buio: il Giappone è bene un altro noi stessi, è l’esagerazione di noi stessi, saprofita, ma qui è un di più, serve a contrasto, contiene e fa la storia il setting notturno, sottolineato dalle lunghe albe grigie. Si può dire l’evidenza dell’insonnia. Che non è esasperazione ma pace interiore.
È però un amore maschile. O è femminile? L’amore leggero è maschile in quanto è, seppure per cenni, sentimentale.
Sofia Coppola, Lost in translation
È però un amore maschile. O è femminile? L’amore leggero è maschile in quanto è, seppure per cenni, sentimentale.
Sofia Coppola, Lost in translation
Problemi di base - 44
spock
Le Scritture Dio dettò con tutti gli errori?
Gli errori di Dio sono il riflesso dell’umana condizione, dicono i rabbini, refrattaria a Dio, e ci credono?
E a proposito, che fa Dio in cielo tutto il giorno, se ha finito di dettare da duemila anni?
Perché ogni cocomero è diverso?
Poiché la felicità non esiste né la libertà, o l’eternità, perché si desiderano, o si temono?
Esiste la paura, e il desiderio, o ce le inventiamo lì per lì?
Come si esercita un compromesso? E cos’è un compromesso?
Un complotto ci dev’essere. Poiché si sa, gli uomini quando non credono a Dio non è che non credano a nulla, credono a tutto. E c’è bisogno di un potere da sbugiardare. Ma dove sta, il complotto?
E anche il mito: non sarà pettegolezzo, stagionato, ripetitivo?
C’è un ordine nel mondo che vuole il disordine? Il cappellano di Kafka lo dice al signor K.: “Non è necessario arrivare alla verità delle cose, basta ritenerle necessarie”.
Fin dove arriva il progresso? Bertoldino si cacciò le pillole del medico “giù a basso nel tafanario”: inventò la supposta, ma per questo diventò Bertoldino.
spock@antiit.eu
Le Scritture Dio dettò con tutti gli errori?
Gli errori di Dio sono il riflesso dell’umana condizione, dicono i rabbini, refrattaria a Dio, e ci credono?
E a proposito, che fa Dio in cielo tutto il giorno, se ha finito di dettare da duemila anni?
Perché ogni cocomero è diverso?
Poiché la felicità non esiste né la libertà, o l’eternità, perché si desiderano, o si temono?
Esiste la paura, e il desiderio, o ce le inventiamo lì per lì?
Come si esercita un compromesso? E cos’è un compromesso?
Un complotto ci dev’essere. Poiché si sa, gli uomini quando non credono a Dio non è che non credano a nulla, credono a tutto. E c’è bisogno di un potere da sbugiardare. Ma dove sta, il complotto?
E anche il mito: non sarà pettegolezzo, stagionato, ripetitivo?
C’è un ordine nel mondo che vuole il disordine? Il cappellano di Kafka lo dice al signor K.: “Non è necessario arrivare alla verità delle cose, basta ritenerle necessarie”.
Fin dove arriva il progresso? Bertoldino si cacciò le pillole del medico “giù a basso nel tafanario”: inventò la supposta, ma per questo diventò Bertoldino.
spock@antiit.eu
giovedì 16 dicembre 2010
L’apprendistato di Emerson in Italia
I primi cinque mesi del 1833 Emerson li passa in Italia, in Sicilia, e poi da Napoli alle Alpi. È un viaggio di formazione, benché compiuto a trent’anni: vedovo della prima moglie, e pastore dimissionario della Chiesa unitaria, il viaggio lo induce alle prime riflessioni, oltre che all’ammirazione delle opere d’arte della natura e dell’ingegno. Specie nella traversata da Boston a Malta, col comandante filosofo del brigantino, e con lo status quasi filosofico del marinaio. “Non ci sono attrattive nella vita da marinaio. Il meglio che sa offrire sono allevi azioni alle pene”. Il comandante sa fare tutte le cose che bisogna fare, compreso farsi obbedire all’istante, e sa tutto il resto, la Bibbia anzi meglio dell’ex pastore Emerson. Sa anche perché l’America è superiore all’Europa, lo sarà guardando al futuro dal 1833: “Lì fanno tutto per puro caso e ignoranza. Quattro caricatori e quattro stivatori del molo di Long Wharf caricano il mio brigantino più in fretta di cento uomini di qualsiasi porto del Mediterraneo”. Emerson ne riferisce un altro esempio: “Sembra che i siciliani abbiano provato qualche volta a portare la loro frutta in America con le proprie navi e che ci abbiano messo, dice lui, centoventi giorni”. Un viaggio che lui invece fa in trenta giorni, trovando “una piccola pozza di mare interno (lo stretto di Gibilterra, n.d.r.) larga appena nove miglia con la stessa precisione con cui si segue una traccia”, dopo tremila miglia di acque burrascose, col solo ausilio di “tre pezzi di legno angolari e una mappa”.
Nasce qui la felicità “a scalare”: si ponga la vita al peggio, ogni suo momento sarà migliore. - non è la perfezione ma è una forma logica: l’attesa è un solido costituente della realtà. E uno dei fondamenti del linguaggio: “Ciò che è espresso nelle parole non è affermato. Deve affermarsi da sé o nessun tipo di grammatica o di verosimiglianza può provarne l’evidenza. Questa massima tiene insieme il mondo”.
Il libro di viaggio non delude, benché pieno di Schidone, Garofalo, Andrea Sacchi e altri artisti pittori d'immaginette - nella visita ripetuta a San Giovanni a Malta si menziona Preti e nient’altro, nemmeno un cenno a Caravaggio. Emerson sa abbastanza italiano, l’ha imparato sui “Promessi sposi” e su una scelta di commedie di Goldoni che non apprezza (“Non c’è nemmeno un’emozione o una scena ben concepita. La sua virtù maggiore consiste nell’essere un buon volume idiomatico”), e sa rappresentare scene ancora vive della Sicilia, di Napoli, di Roma.
Apprezza anche il cerimoniale cattolico, reduce dalla delusione di quello protestante. Flannery O’Connor, la combattiva scrittrice georgiana che professava un robusto cattolicesimo, ha lasciato scritto (“Narratore e credente”): “Quando Emerson, nel 1832, decise che non poteva più celebrare l’Eucarestia a meno che non venissero eliminati il pane e il vino, fu fatto un passo importante nella vaporizzane della religione in America”. Che dobbiamo pensarne?
Ralph Waldo Emerson, Dalla Sicilia alle Alpi, Ibis, pp.204, € 9,50
Nasce qui la felicità “a scalare”: si ponga la vita al peggio, ogni suo momento sarà migliore. - non è la perfezione ma è una forma logica: l’attesa è un solido costituente della realtà. E uno dei fondamenti del linguaggio: “Ciò che è espresso nelle parole non è affermato. Deve affermarsi da sé o nessun tipo di grammatica o di verosimiglianza può provarne l’evidenza. Questa massima tiene insieme il mondo”.
Il libro di viaggio non delude, benché pieno di Schidone, Garofalo, Andrea Sacchi e altri artisti pittori d'immaginette - nella visita ripetuta a San Giovanni a Malta si menziona Preti e nient’altro, nemmeno un cenno a Caravaggio. Emerson sa abbastanza italiano, l’ha imparato sui “Promessi sposi” e su una scelta di commedie di Goldoni che non apprezza (“Non c’è nemmeno un’emozione o una scena ben concepita. La sua virtù maggiore consiste nell’essere un buon volume idiomatico”), e sa rappresentare scene ancora vive della Sicilia, di Napoli, di Roma.
Apprezza anche il cerimoniale cattolico, reduce dalla delusione di quello protestante. Flannery O’Connor, la combattiva scrittrice georgiana che professava un robusto cattolicesimo, ha lasciato scritto (“Narratore e credente”): “Quando Emerson, nel 1832, decise che non poteva più celebrare l’Eucarestia a meno che non venissero eliminati il pane e il vino, fu fatto un passo importante nella vaporizzane della religione in America”. Che dobbiamo pensarne?
Ralph Waldo Emerson, Dalla Sicilia alle Alpi, Ibis, pp.204, € 9,50
Letture - 47
letterautore
Alvaro – Lo sguardo di Alvaro è di sorpresa sul mondo, di scoperta. Non di maniera, scontata, piatta, né di critica, etica, estetica, politica. Eccetto che al Sud, di cui ha creato la maniera, come e forse più di Verga – gentiluomo, quest’ultimo, la cui ambizione era di fiorentinizzarsi, e poi milanesizzarsi.
Chatwin – Dà fascino all’esotismo. L’esotico certo ha un fascino, l’esotismo è maniera, ma Chatwin la supera perché avvicina l’insolito, il diverso, invece di metterlo in posa quale sorpresa a sé stante – il meraviglioso richiude dentro se stessi, con l’ordinario. E ha il dono di legare una narrazione frammentata – di legarla pianamente, non alla Manldelstam, con accensioni liriche cioè, o filosofiche. Anch’esso grazie alla capacità di fare nostro il diverso o remoto: tante piccole finestrelle dell’Avvento apre, che entrano a far parte delle cose domestiche. La Patagonia. Come la Toscana di “Che ci faccio qui”. Anche in “Utz”, che ha un personaggio e una storia, il fascino nasce da questa capacità, di portarci in casa Oriente europeo che pure è diverso. Alla stessa maniera come ha visto gli aborigeni in Australia nelle “Vie del canto”, un accumulo di dettagli tenuto assieme dalla rete del riconoscimento.
Letterato – Quello del letterato si differenza da ogni altra professione in quanto la sua attività non ha apprendistato o iter specifico di formazione, e implica a ogni momento un giudizio di qualità astratto, non correlato a un fine, in un campo specialmente incerto se non infido, l’estetica. In ogni altra attività l’esercizio si svolge senza handicap, se non la tecnica del mestiere, e senza oscure barriere. Una volta che il fabbro abbia imparato a piegare il ferro, e il giornalista a porgere la notizia (quello che vuole o deve dire), il fabbro e il giornalista possono andare in giro a proporsi come fabbro o come giornalista ed essere valutati per quello che sanno fare, senza riserve o arcane motivazioni. Ci sarà anche per lo un giudizio di qualità, ma basato su cose, abilità, rapidità, rapporto costo\servizio, cioè il grado di padronanza delle rispettive tecniche. Nulla del genere esiste per il letterato. Per il professore universitario sì, ma non per lo scrittore, il poeta, il critico militante. La rete di relazioni va costruita personalmente. I criteri sono vaghi e fondamentalmente fortuiti. L’apprezzamento è legato a fattori esterni, non controllabili. Mentre l’ambizione, al contrario, è illimitata: la reputazione cui il fabbro ambisce o il giornalista si trasforma per il letterato nella fama, roba da eternità.
Maschile, femminile – Nell’editoria hanno sensi precisi: il periodico maschile tratta di politica, politica internazionale, economia, società, scienza, arti, letteratura, il femminile di moda, psicologia, cronaca a carattere sessuale, divi, astrologia. La pubblicità è mirata su queste tematiche, diverse per i due generi, per i consumi degli uomini e per quelli delle donne.
Ai femminili si apparentano, come target di diffusione e pubblicità, i periodici di giossip, i familiari (salute, aristocrazie, politici che cantano le romanze napoletane e scrivono poesie, madri coraggiose), quelli di servizio (salute, arredamento, costume).
La divisione non è ideologica (programmatica) ma fattuale, di mercato. Quanto si è voluto dare contenuti “maschili” ai femminili, questi non hanno retto. Quando si è voluto avvicinare le donne alla lettura dei quotidiani (a partire da “Repubblica”) si sono introdotte rubriche di questo tipo: mondanità, consumi, storie personali, casi curiosi.
Oralità - È la comunicazione “calda”, secondo McLuhan, che crea il senso comunitario (villaggio globale). È un’estrapolazione del tribalismo, della società chiusa in se stessa? Nella globalizzazione, fuori cioè dalla tribù, e quindi dal nomadismo, e dal conseguente isolamento del gruppo, è espressione fortemente individualistica: non di tradizioni e miti ma di vissuto sempre pericolosamente contro, gelosi, vendicativi, monomaniaci, paranoici. Forse le comunità rom sperimentano qualcosa del “globalismo” di McLuhan. L’elettronica, cellulare compreso (la disponibilità totale) segmenta e ghettizza, frantuma ulteriormente la società già parcellizzata della condizione urbana, del pendolarismo, degli orari. L’oralità è qui un cavallo di ritorno: consente a ogni desiderio o risentimento di navigare a piacimento, senza nemmeno sottostare alle regole della logica (grammatica, sintassi) cui è tenuta la scrittura.
Poesia – Un repertorio di New Horizon di quindici anni fa, per un esperimento di audio poesia americana. Due pagine di facce d’autore incredibilmente brutte, smorfiose, butterate, tirate, deformate, spente, uomini e donne insieme. Quattro cd e un secolo di poesia: voci incredibilmente false, atteggiate, roboanti, insinuanti, volgari. Com’era Omero? La poesia è acida? Non è un problema di decoro ma di modo d’essere.
Popper – È il filosofo che più e meglio ha mantenuto l’unità del pensare, forse l’unico nel Novecento, a una dimensione “greca”, senza far finta che l’epistemologia non abbia riflessi sul filosofare.
Pound – O dell’impegno. È l’incarnazione della vita impegnata, nell’arte, nella società, nella politica anche – voleva essere Dante. Con errori, inevitabili. Senza malanimo – Pasolini lo incontra per questo.
Il suo “maestro” Yeats era profondamente antidemocratico, ma di Yeats il segretario Pound ha sempre un’impressione irriverente.
S’intende per poundiano l’artificio, lo sperimentalismo. In Italia è poundiano Sanguineti. Mentre l’impegno è prevalente, anche nella ricerca espressiva (linguistica, glottologica, interculturale). Cristina Campo è poundiana più conseguente.
Premi – Gli auguri 1997 di Mondadori sono un paginone di pubblicità con l’elenco di un centinaio, almeno, di premiati. Con autori anche degni, Citati, Bettiza e Spaziani, ma senza un libro che sia rimasto, o almeno meritasse una lettura. I premi si fanno avere ai libri che altrimenti non vanno? Certamente si fanno avere. Tanta abbondanza è il risultato di una politica commerciale.
Proust – I primi due libri della “Ricerca” parlano di Proust infante. Ma non dell’infanzia. Da qui il senso di falso (egotismo)? Fortissimo nel genere, la letteratura del buon ricordo.
“Una duchessa ha sempre trent’anni per un borghese”, Stendhal, “Dell’amore”. Lo snobismo è un vizio, o una virtù? È innocuo, applicandosi a innocui fatti sociali. E alimenta la curiosità, benché di tipo infantile, se non la disponibilità (socialità) – Proust ha cominciato in allegria, con i pastiches e con gli échos, le cronachette mondane. Ma germoglia dal cant inglese, l’ipocrisia come rispetto umano, e quindi è falso, e falsa realtà e rapporti.
letterautore@antiit.eu
mercoledì 15 dicembre 2010
Non si farà la riforma della giustizia
Sarà l’offa per il ritorno di Casini nell’alleanza di governo, e di molti dei finiani nella maggioranza: l’abbandono della cosiddetta riforma della giustizia. Che poi una riforma non è delle procedure, e dei processi, nel senso di un giudizio rapido e certo, ma dei privilegi dei giudici. Che per questo motivo, per difendere la corporazione, insieme con la pompose inaugurazioni dell’anno giudiziario in ermellino, ultimo residuo della pompa fascista, difendono le carriere per tutti, a cieli aperti, senza giudizio di idoneità. E per questo vogliono molti posti di vertice.
C’è chi scommette che senza riforma anche il legittimo impedimento sarà approvato. Passerà cioè al vaglio della Consulta tra un mese del professore De Siervo, altro illustre giureconsulto casiniano. È un fatto che la famosa riforma è sempre stata agitata più che proposta da Berlusconi nella sua ormai lunga carriera politica: mai progettata realmente, cioè, mai approntata in articolato, né calendarizzata nei lavori parlamentari, mai impegnando il governo e i suoi media.
C’è chi scommette che senza riforma anche il legittimo impedimento sarà approvato. Passerà cioè al vaglio della Consulta tra un mese del professore De Siervo, altro illustre giureconsulto casiniano. È un fatto che la famosa riforma è sempre stata agitata più che proposta da Berlusconi nella sua ormai lunga carriera politica: mai progettata realmente, cioè, mai approntata in articolato, né calendarizzata nei lavori parlamentari, mai impegnando il governo e i suoi media.
Il partito dei giudici
È una coincidenza, ma è anche un fatto: il nuovo centro-sinistra con Fini sarebbe solo il partito dei giudici. Niente lega insieme Fini, il Pd e Di Pietro, non la legge elettorale, non il federalismo, non la riforma del lavoro, non la politica dell'immigrazione, solo il patrocinio dei giudici. Che per questo non li indagano, e se debbono li assolvono in istruttoria ad horas. In cambio non chiedendo niente, se non, appunto, che non si cambi l’ordinamento della professione. Anzi, della professione che non si tocchi solo un punto, la commistione di accusa e giudicatura. Per la possibilità doppia che essa dà di maturare avanzamenti, in qualità di giudici e in qualità di procuratori.
Le 156 Procure offrono altrettante posizioni di Procuratore Capo, raddoppiate da quelle di Vicario. Più altrettante di Procuratore Generale. Più altrettante di Procuratore Capo e Vicario delle Procure Antimafia – l’ottimo progetto di Giovanni Falcone che i giudici hanno snaturato a predellino di piccole posizione di potere. Un migliaio di posti di comando. Che sommati a un numero doppio di posizioni nella magistratura giudicante, penale e civile, in Tribunale, Assise, Appello, coprono un terzo di tutta la magistratura.
Le 156 Procure offrono altrettante posizioni di Procuratore Capo, raddoppiate da quelle di Vicario. Più altrettante di Procuratore Generale. Più altrettante di Procuratore Capo e Vicario delle Procure Antimafia – l’ottimo progetto di Giovanni Falcone che i giudici hanno snaturato a predellino di piccole posizione di potere. Un migliaio di posti di comando. Che sommati a un numero doppio di posizioni nella magistratura giudicante, penale e civile, in Tribunale, Assise, Appello, coprono un terzo di tutta la magistratura.
La sconfitta di Fini scompagina la sinistra
Fini ha sfiduciato Berlusconi, certo di abbatterlo, ma la sua mozione è stata bocciata. Il fatto è questo. Era inevitabile, con un "compagno di strada" diventato d’un tratto non solo il peggior nemico di Berlusconi, cui deve praticamente tutto, ma anche laicista e ribaltonista, e inevitabile è emerso martedì un fronte non solo frantumato della sinistra, ma nella confusione e senza idee - dare credito a Fini... Nel blocco berlusconiano non sono pochi, ex socialisti ed ex radicali, che spingono verso un rilancio d’iniziativa politica a tutto campo, anche fuori degli steccati.
Specie per quanto riguarda i temi etici, con un voto sul testamentio biologico, e una revisione della 190 sul termine massimo per l'aborto, riducibile da 24 a 21 settimane. Sul presupposto non peregrino che se la maggioranza ha ora meno voti, tuttavia è più omogenea, o come dicono coesa. E senza alternative: follia pensare a un governo Tremonti con Fini, o viceversa, ipotesi che pure ci hanno propinato.
Fini ha tentato con la mozione un nuovo Raphael – dev’essere la sua idea politica dominante, prendere il potere mandando in piazza gli psicolabili con lo sdegno. L’ha fallita, e non poteva essere che così. Intanto perché Berlusconi non è Craxi - eh sì, sa riconoscere i nemici, e non si lascia intimidire. Ma soprattutto perché il Vaticano ha schierato i cardinali, di fronte al suo laicismo assurdo. E Napolitano ha raffreddato la sfiducia rinviandola. Un atto di vera politica – che fa da sola capire l’abisso con l’incapacità e il golpismo (lo scarso o nullo senso della istituzioni) di Scalfaro: trovarsi un governo Fini-Casini-Bersani-Di Pietro, e passare alla storia quale affossatore dell’euro, deve aver fatto temere al presidente della Repubblica un’altra Santorini, lo sconvolgimento che quattromila anni fa fece scomparire la civiltà dal mediterraneo.
Fini non poteva che perdere, ma gli esiti li paga la sinistra. Il primo segno di debolezza è visto nella dipendenza da Fini. Più che i finiani, capaci come si è visto di smarcarsi, sembrano rimasti succubi di Fini personaggi come la Bindi e Franceschini, e lo stesso Bersani. Che si trincera dietro un “l’avevo detto”. Bersani aveva detto: “Comunque vada, per Berlusconi è una sconfitta”. Anche Vendola ha deluso, il presidente della Regione Puglia che Berlusconi pronosticava leader del centro-sinistra. In una mossa poco pubblicizzata ma sintomatica, ha fatto giudicare “non conformi alle regole” i carichi d’immondizia napoletana che si era impegnato a smaltire, e “respingere alla frontiera”. Tutto per non consentire al governo, e cioè a Berlusconi, di annunciare magari a Natale di avere ripulito Napoli – tenendo perciò Napoli nell’emergenza. E magari per confluire al disordine che s’immaginava per martedì.
Quella dei “disordini organizzati” è in questo momento la preoccupazione maggiore dei berlusconiani. L’orrenda giornata del 14 dicembre avrebbe oscurato il 12 dicembre di piazza Fontana non a caso, e le reazioni dei partiti di sinistra, compreso quello degli ex neofascisti, sono giudicate peggiori delle cosiddette manifestazioni spontanee, e confermano i peggiori dubbi. Si denuncia anche come ripetizione del copione di quarant’anni fa la compiacenza, quando non è giubilo, dei maggiori giornali, che riferiscono degli assalti come di una ragazzata, una fiammata che avrebbe coinvolto tanti ragazzini altrimenti spensierati. Mentre nella sinistra politica ci sarebbe la stessa sottovalutazione, pari pari come nel 1969, alle radici del terrorismo: l’assalto a Roma è opera dei black bloc, di provocatori, di squadracce, i manifestanti erano pacifici e bravi, la questura deve rispondere del finanziere fotografato con la pistola in mano. Una valutazione che sarebbe contraria all’evidenza: l’assalto durato alcune ore, coordinato, quindi organizzato e non estemporaneo.
Specie per quanto riguarda i temi etici, con un voto sul testamentio biologico, e una revisione della 190 sul termine massimo per l'aborto, riducibile da 24 a 21 settimane. Sul presupposto non peregrino che se la maggioranza ha ora meno voti, tuttavia è più omogenea, o come dicono coesa. E senza alternative: follia pensare a un governo Tremonti con Fini, o viceversa, ipotesi che pure ci hanno propinato.
Fini ha tentato con la mozione un nuovo Raphael – dev’essere la sua idea politica dominante, prendere il potere mandando in piazza gli psicolabili con lo sdegno. L’ha fallita, e non poteva essere che così. Intanto perché Berlusconi non è Craxi - eh sì, sa riconoscere i nemici, e non si lascia intimidire. Ma soprattutto perché il Vaticano ha schierato i cardinali, di fronte al suo laicismo assurdo. E Napolitano ha raffreddato la sfiducia rinviandola. Un atto di vera politica – che fa da sola capire l’abisso con l’incapacità e il golpismo (lo scarso o nullo senso della istituzioni) di Scalfaro: trovarsi un governo Fini-Casini-Bersani-Di Pietro, e passare alla storia quale affossatore dell’euro, deve aver fatto temere al presidente della Repubblica un’altra Santorini, lo sconvolgimento che quattromila anni fa fece scomparire la civiltà dal mediterraneo.
Fini non poteva che perdere, ma gli esiti li paga la sinistra. Il primo segno di debolezza è visto nella dipendenza da Fini. Più che i finiani, capaci come si è visto di smarcarsi, sembrano rimasti succubi di Fini personaggi come la Bindi e Franceschini, e lo stesso Bersani. Che si trincera dietro un “l’avevo detto”. Bersani aveva detto: “Comunque vada, per Berlusconi è una sconfitta”. Anche Vendola ha deluso, il presidente della Regione Puglia che Berlusconi pronosticava leader del centro-sinistra. In una mossa poco pubblicizzata ma sintomatica, ha fatto giudicare “non conformi alle regole” i carichi d’immondizia napoletana che si era impegnato a smaltire, e “respingere alla frontiera”. Tutto per non consentire al governo, e cioè a Berlusconi, di annunciare magari a Natale di avere ripulito Napoli – tenendo perciò Napoli nell’emergenza. E magari per confluire al disordine che s’immaginava per martedì.
Quella dei “disordini organizzati” è in questo momento la preoccupazione maggiore dei berlusconiani. L’orrenda giornata del 14 dicembre avrebbe oscurato il 12 dicembre di piazza Fontana non a caso, e le reazioni dei partiti di sinistra, compreso quello degli ex neofascisti, sono giudicate peggiori delle cosiddette manifestazioni spontanee, e confermano i peggiori dubbi. Si denuncia anche come ripetizione del copione di quarant’anni fa la compiacenza, quando non è giubilo, dei maggiori giornali, che riferiscono degli assalti come di una ragazzata, una fiammata che avrebbe coinvolto tanti ragazzini altrimenti spensierati. Mentre nella sinistra politica ci sarebbe la stessa sottovalutazione, pari pari come nel 1969, alle radici del terrorismo: l’assalto a Roma è opera dei black bloc, di provocatori, di squadracce, i manifestanti erano pacifici e bravi, la questura deve rispondere del finanziere fotografato con la pistola in mano. Una valutazione che sarebbe contraria all’evidenza: l’assalto durato alcune ore, coordinato, quindi organizzato e non estemporaneo.
Il 14 dicembre come il 12 dicembre
Sommersa dai media nel dibattito politico, tra gli eterni Fini, Casini e Berlusconi, il 14 dicembre di Roma è oggetto di molto allarme all’Interno. Che sapeva di una giornata di manifestazioni organizzate, ma non nell’ampiezza e della forza che si è manifestata, tale da oscurare il punto più oscuro della storia della pubblica sicurezza, il 12 dicembre 1969 a Milano, la strage di Piazza Fontana.
Molti gli interrogativi preoccupati che circolano per il Viminale. Chi ha portato a Roma i centri sociali del Nord Italia, il giorno della sfiducia? E i disoccupati napoletani? Che c’entra la Fiom con gli studenti di Roma? Che c’entrano gli studenti di Roma col voto di sfiducia? E dov’erano i black bloc? Ritorna, sebbene non detta, la sindrome del 1969, delle manifestazioni infine culminate nella strage. Allora invece che dei black bloc si parlava di anarchici, ma la sottovalutazione o la confusione sarebbe la stessa.
Analoga, sebbene anch’essa non detta, la sensazione che la politica sia oggi altrettanto debole e confusa che nel 1969. Decisa a contrastare la violenza, ma incapace di prevenirla, e anche di confrontarla nelle sue esatte dimensioni. Che sarebbero soprattutto politiche, e non limitate ai facinorosi o agli avventuristi.
Molti gli interrogativi preoccupati che circolano per il Viminale. Chi ha portato a Roma i centri sociali del Nord Italia, il giorno della sfiducia? E i disoccupati napoletani? Che c’entra la Fiom con gli studenti di Roma? Che c’entrano gli studenti di Roma col voto di sfiducia? E dov’erano i black bloc? Ritorna, sebbene non detta, la sindrome del 1969, delle manifestazioni infine culminate nella strage. Allora invece che dei black bloc si parlava di anarchici, ma la sottovalutazione o la confusione sarebbe la stessa.
Analoga, sebbene anch’essa non detta, la sensazione che la politica sia oggi altrettanto debole e confusa che nel 1969. Decisa a contrastare la violenza, ma incapace di prevenirla, e anche di confrontarla nelle sue esatte dimensioni. Che sarebbero soprattutto politiche, e non limitate ai facinorosi o agli avventuristi.
martedì 14 dicembre 2010
Battista, o l’antipolitica feroce di Milano
Pierluigi Battista si deve aggrappare al libro di Serena Vitale, “A Mosca! A Mosca!” per denunciare lunedì sul “Corriere della sera” la spessa cortina di disinformazione che il sovietismo ha stesso sui suoi orrori. In una rubrichina di commenti poco letta. Dove si alterna, una volta al mese o due, con Piero Ostellino, altro liberale residuo del giornale. È proprio vero che i liberali sono finiti allo zoo – almeno, quelli che non sono andati al governo con Berlusconi. Sicuramente quelli del “Corriere della sera”, il giornale di Milano, e della feroce antipolitica della capitale morale d’Italia – “organizzare” cinque o sei cortei, per fortuna andati deserti, a Roma attorno al Parlamento il giorno del voto di fiducia, portando nella capitale come massa d’urto i disoccupati napoletani, che non vanno in giro per niente, è ferocia antipolitica.
Non c’è potere o simulacro che tenga: Milano ha imposto e impone all’Italia Bossi e Berlusconi, e ogni giorno li svilisce, ha imposto e impone Mani Pulite, e ogni giorno moltiplica i corrotti e i corruttori, i giudici compresi, chiede più mercato e meno Stato, ma per conto del Sud, a Milano le sovvenzioni e le aziende pubbliche ci devono essere. Si capisce che il sovietismo italiano non abbia mai fatto ammenda, soprattutto a Milano, e soprattutto al “Corriere della sera”, dove non pochi delitti ha commesso, nel giornale, nel sindacato, nelle politiche aziendali, in forma di censure, isolamenti, siluramenti, e ruberie autorizzate.
Forse per questo Battista deve lanciare la sua invettiva sotto specie di recensione. Perché “A Mosca! A Mosca!” del sovietismo si occupa poco, se non incidentalmente, per i danni che la Vitale, recandosi a trovare Viktor Sklovskij, provocava non volendo a un vicino del linguista, sospettato di essere un dissidente. Non ci sono i compagni italiani a Mosca, o a Praga, non c’è l’hotel Lux, dove i compagni di notte sparivano, denunciati da altri compagni, non c’è l’alcolismo dell’infame breznevismo. E anzi c’è, da ridere certo, la moria provocata dall’antialcolismo di Andropov e Gorbaciov: Serena Vitale è insomma essa stessa politicamente sensibile, sa che non bisogna incidere il sovietismo residuo, imperante nell’editoria e la comunicazione. Battista allora osa di suo, rinforzando la finta recensione con l’irreducibile Kundera: era l’epoca in cui “il poeta regnava a fianco del carnefice”. E con Vargas Llosa al premio Nobel.
Battista del resto avrebbe potuto fare meglio della slavista, raccontare la sua defenestrazione dalla vice-direzione del giornale, insieme con Dario Di Vico e col direttore Paolo Mieli, non molto tempo fa, un paio d’anni, per dare mano ai dossier e ai “padroni”, di cui i sovietisti impenitenti sono gli ascari fedeli, nella loro battaglia contro la politica. Avrebbe almeno potuto dire perché nessun giornale, compreso il suo, non ha dato conto del discorso di Vargas Llosa al premio Nobel. Si limita a citarlo: “L’intellighenzia dell’Occidente sembrava, per frivolezza o opportunismo, soccombere al’incantesimo del socialismo sovietico o, peggio ancora, al sabba sanguinario della rivoluzione culturale cinese”. Insomma, si può criticare “Milano” in una colonnina delle 56 pagine del giornale, ma con prudenza.
Non c’è potere o simulacro che tenga: Milano ha imposto e impone all’Italia Bossi e Berlusconi, e ogni giorno li svilisce, ha imposto e impone Mani Pulite, e ogni giorno moltiplica i corrotti e i corruttori, i giudici compresi, chiede più mercato e meno Stato, ma per conto del Sud, a Milano le sovvenzioni e le aziende pubbliche ci devono essere. Si capisce che il sovietismo italiano non abbia mai fatto ammenda, soprattutto a Milano, e soprattutto al “Corriere della sera”, dove non pochi delitti ha commesso, nel giornale, nel sindacato, nelle politiche aziendali, in forma di censure, isolamenti, siluramenti, e ruberie autorizzate.
Forse per questo Battista deve lanciare la sua invettiva sotto specie di recensione. Perché “A Mosca! A Mosca!” del sovietismo si occupa poco, se non incidentalmente, per i danni che la Vitale, recandosi a trovare Viktor Sklovskij, provocava non volendo a un vicino del linguista, sospettato di essere un dissidente. Non ci sono i compagni italiani a Mosca, o a Praga, non c’è l’hotel Lux, dove i compagni di notte sparivano, denunciati da altri compagni, non c’è l’alcolismo dell’infame breznevismo. E anzi c’è, da ridere certo, la moria provocata dall’antialcolismo di Andropov e Gorbaciov: Serena Vitale è insomma essa stessa politicamente sensibile, sa che non bisogna incidere il sovietismo residuo, imperante nell’editoria e la comunicazione. Battista allora osa di suo, rinforzando la finta recensione con l’irreducibile Kundera: era l’epoca in cui “il poeta regnava a fianco del carnefice”. E con Vargas Llosa al premio Nobel.
Battista del resto avrebbe potuto fare meglio della slavista, raccontare la sua defenestrazione dalla vice-direzione del giornale, insieme con Dario Di Vico e col direttore Paolo Mieli, non molto tempo fa, un paio d’anni, per dare mano ai dossier e ai “padroni”, di cui i sovietisti impenitenti sono gli ascari fedeli, nella loro battaglia contro la politica. Avrebbe almeno potuto dire perché nessun giornale, compreso il suo, non ha dato conto del discorso di Vargas Llosa al premio Nobel. Si limita a citarlo: “L’intellighenzia dell’Occidente sembrava, per frivolezza o opportunismo, soccombere al’incantesimo del socialismo sovietico o, peggio ancora, al sabba sanguinario della rivoluzione culturale cinese”. Insomma, si può criticare “Milano” in una colonnina delle 56 pagine del giornale, ma con prudenza.
Wikileaks e l’inutilità delle ambasciate
Più si leggono i dispacci dell’ambasciatore americano a Roma Thorne, più si resta stupefatti: Wikileaks più che i segreti rivela la stupidità delle ambasciate. Che non è nuova, già ai tempi degli ambasciatori veneti, il periodo e la storia più segnalata della diplomazia, se ne parlava male. Ma Wikileaks ne rivela anche l’inutilità: l’ambasciatore fa i riassunti di “Repubblica”, un giornale che si compra liberamente a un euro, mentre ha a disposizione una struttura di un paio di centinaia di persone, alcuni con forti budget di relazioni esterne, e cioè con molti confidenti e informatori (tutti spesati in alloggi di lusso, e con molte guardie, auto corazzate e altre strutture di sicurezza contro il terrorismo). E non trova di meglio che mettere in imbarazzo il suo governo. Che senza l’Italia in Afghanistan vedrebbe crollare il pilastro principale della sua politica sul fronte islamico. E senza l’Italia nel Medio Oriente, in Libano, Libia, e anche in Iraq, avrebbe molti altri fronti aperti. Mentre in Russia il gas ha disinnescato le residue voglie di superpotenza missilistica – questo lo vede un cieco.
Sicuramente gli Usa hanno più intelligenza diplomatica dei loro ambasciatori, ricchi come sono di think thank, università, centri studi, circoli, gruppi di pressione. Non si spiega altrimenti l’incontestato predominio americano sul mondo intero, lungo ormai due terzi di secolo. Ma l’ambasciata inutile è un orpello o un sitomo?
Sicuramente gli Usa hanno più intelligenza diplomatica dei loro ambasciatori, ricchi come sono di think thank, università, centri studi, circoli, gruppi di pressione. Non si spiega altrimenti l’incontestato predominio americano sul mondo intero, lungo ormai due terzi di secolo. Ma l’ambasciata inutile è un orpello o un sitomo?
La rivoluzione si fa da Murdoch
Ore 14, la Camera respinge la sfiducia a Berlusconi, per Sky Tg 24 è un dettaglio. Anzi, per il tg di Murdoch non è successo nulla: non è stata bocciata la mozione di Fini contro Berlusconi, ci sono solo incidenti in giro per Roma, provocati dalla polizia in assetto da guerra, con abbondanza di immagini, e naturalmente dai black bloc, cioè dai ninja della rivoluzione – Murdoch conosce le parole: la rivoluzione è buona, il potere scatena i provocatori. Varie postazioni sono state organizzate nei luoghi degli scontri previsti, a cui i conduttori devono fare riferimento a scadenza. I reporter non sanno che dire poiché i manifestanti non ci sono, e allora la regia indugia minacciosa attorno a un innocuo elmetto antisommossa, appeso a un paletto antimotorini. Il cronista parlamentare al Senato riferisce di un senatore che ha trovato le misure di sicurezza “più gravi di quella del ‘77” alla Sapienza. Parla di “presidio dei luoghi del potere”. Parla diffusamente di una “manifestazione di popolo” contro la riforma Gelmini – quale riforma, dell’università?
Dopo mezz’ora, riorganizzate le idee, una bellissima giornalista con bellissimi boccoli rossi non riesce a infiammare un accasciato Follini contro Berlusconi: Follini arriva anzi al punto di dire che Fini, l’autore della mozione contro Berlusconi, si dovrebbe dimettere, e a questo punto il collegamento finisce. La bellissima rossa fa allora vedere gli incidenti alla Camera, in cui i finiani si scagliano contro una deputatessa, e mette in circolo la parola “provocazione – cioè: i signori di Fini sono stati provocati dalla deputatessa. Piero Sansonetti, giornalista onesto, non può avallare la provocazione – “Berlusconi ha vinto, non si può dire un’altra cosa”. E allora alla bellissima si spengono gli occhi.
Dopo mezz’ora, riorganizzate le idee, una bellissima giornalista con bellissimi boccoli rossi non riesce a infiammare un accasciato Follini contro Berlusconi: Follini arriva anzi al punto di dire che Fini, l’autore della mozione contro Berlusconi, si dovrebbe dimettere, e a questo punto il collegamento finisce. La bellissima rossa fa allora vedere gli incidenti alla Camera, in cui i finiani si scagliano contro una deputatessa, e mette in circolo la parola “provocazione – cioè: i signori di Fini sono stati provocati dalla deputatessa. Piero Sansonetti, giornalista onesto, non può avallare la provocazione – “Berlusconi ha vinto, non si può dire un’altra cosa”. E allora alla bellissima si spengono gli occhi.
Parentopoli è l’indigenza politica (ex) fascista
Amici di liceo, di botte (politiche), di rugby, di curva Sud: il campionario dei manager scelti per le aziende del Comune di Roma dal sindaco Alemanno, che ora emerge con le inchieste sulle assunzioni di amici e parenti, caratterizza la cultura di destra al governo. Di una certa destra, quella ex neo fascista, che la lunga astinenza nella storia della Repubblica ha confinato all’inerzia, e quindi all’incapacità. è forte per questo la delusione nella cerchia della Polverini, il presidente della Regione Lazio, e tra i residui socialisti e democristiani del partito di Berlsuconi. Alemanno, che da ministro dell’Agricoltura aveva dato qualche segno di capacità politica, da sindaco si è scelto a collaboratori, invece che dei manager capaci, quali una grande città con grandi aziende richiederebbe, i camerati di una vita. Quasi che la gestione di aziende così complesse e difficili fosse una rimpatriata. Un sindaco, una delle poche cariche di governo la cui stabilità è assicurata per un quinquennio, ha un forte strumento nella scelta dei manager, cariche da 300 mila euro l’anno attorno alle quali può assemblare capaci squadre. La gestione di Roma dimostra che per l’ex Msi questo è fuori dall’orizzonte.
Il fatto che il sindaco arrivi per ultimo a capire la gravità della gestione del personale nelle aziende comunali conferma che anche il fiuto politico è scarso fra gli ex camerati di Fini, nonché la capacità gestionale – l’esperienza all’Agricoltura sarà stata accidentale, o forse è l’esito di una tecnostruttura migliore della media (tutti i ministri dell’Agricoltura da qualche anno fanno bene). Non per accidente nessuna proposta o piano, o progetto, è venuto da questi ex giovanotti nei quasi vent’anni in cui hanno girato attorno e dentro il potere. L’unica legge che si ricordi, la Bossi-Fini, è forse la peggiore nella storia della Repubblica. L’uso strumentale della giustizia è il degno complemento di questa indigenza: la Procura che si muove contro Alemanno su iniziativa di Fini.
Il fatto che il sindaco arrivi per ultimo a capire la gravità della gestione del personale nelle aziende comunali conferma che anche il fiuto politico è scarso fra gli ex camerati di Fini, nonché la capacità gestionale – l’esperienza all’Agricoltura sarà stata accidentale, o forse è l’esito di una tecnostruttura migliore della media (tutti i ministri dell’Agricoltura da qualche anno fanno bene). Non per accidente nessuna proposta o piano, o progetto, è venuto da questi ex giovanotti nei quasi vent’anni in cui hanno girato attorno e dentro il potere. L’unica legge che si ricordi, la Bossi-Fini, è forse la peggiore nella storia della Repubblica. L’uso strumentale della giustizia è il degno complemento di questa indigenza: la Procura che si muove contro Alemanno su iniziativa di Fini.
Calogero, poeta prigioniero
“Vita inumana si compie\ ai limiti rigorosi della vita”. Autore per i “felici pochi”, Calogero è poeta postumo, edito e apprezzato dopo la morte, forse suicida, a fine marzo 1961, poco più che cinquantenne, solo nella sua casa di Melicuccà, un paese di campagna ai piedi dell’Aspromonte. Questa antologia, l’unica opera di Calogero ancora in circolazione, che Luigi Tassoni inquadra nell’ermetismo degli anni 1930, benché la formazione di Calogero fosse molto ungarettiana, è una sorta di eco dalla caverna, a volta flebile, a volte urlata, dalla sua solitudine “fisica”. Sofferta a ogni istante, benché da uomo comune, figlio amato, fratello, compaesano, studente, medico praticante. Ne è specchio la scrittura densa, come lo sopraffacesse: il poeta vive in un deserto brulicante, che non riesce ad animare. Répaci dice la sua una poesia “da muro a muro” (“spremuta, intellettualizzata, terribile soliloquio, da muro a juro, dal muro della vita al muro della tomba”). Suoi interlocutori sono il cielo, il mare, il giorno, la notte, e l’amata che parla muta: un “paesaggio duro”, nel quale “la via si stende inerte”. O, "in luogo di un luogo amato,\ la faccia lungimirante\ cortese di Dio".
È un poeta "nato", con uso esperto (sapienziale) della parola, fino quasi al calembour, il gioco di parole intrepido, seppure sempre trasognato, di echi. Con la grazia cioè di una sorta di automatismo, di sonorità più che di associazioni di idee. Lo scrittore “verticale” che inebriò Ungaretti quando ne venne a conoscenza, credendo di vedrci una sua resurrezione. Ma resta sulla pagina un poeta che procede per “astrazioni del sentimento” (Tassoni). Con la nostalgia forte di una perdita, che è un’impossibilità.
“Tutto era calmo, solare\ come un giorno aperto” è memoria inutile, il segno di un fallimento. Che viene dall’esclusione. Montale debutta a trent’anni, ma incontra subito Gobetti, Cecchi e Contini, Pasolini a venti Contini, Calogero a 26 cerca Betocchi ma ne è respinto, per nessun’altra ragione che la differenza, e il rifiuto si ripeterà, costante, per venti anni – il primo riconoscimento arriverà da Sinisgalli nel 1955-56. Malinconico sempre: “Non vale gioia a così pura pena accesa\ o volontà di essere o di morire”. Ma industrioso più che retrattile, anzi ansioso di commercio umano. Fino a un certo punto. Gli ultimi anni, svaporato anche il fidanzamento, cederà all’isolamento, anche dai familiari. Dopo averlo detto: “Sfiorò la gloria la tua speranza\ e la tua ultima volontà di vivere”. Già al tempo del rimpianto, benché inedito, di quando "il cado emistichio, poi la parola\ venivano come angeli\, nella valle,\ dorata".
Calogero resta il poeta dell’assenza, che il verso era inteso a riempire. Esistenziale (caratteriale) ma anche fattuale, geografica: non si poteva – non si può – corrispondere col mondo da Melicuccà, perché si è prigionieri del proprio mondo. Da Casarsa sì, da Melicuccà no. Dove peraltro il rifiuto costringe il poeta a rifugiarsi vieppiù, esauriti man mano i tanti tentativi di essere come gli altri, le letture, gli studi, la corrispondenza, gli studi e poi l’esercizio della medicina (nel senese, il posto probabilmente più chiuso d’Italia - a Campiglia in val d’Orcia, allora deserta e povera e oggi ricchissima e sempre inavvicinabile, da cui dopo pochi mesi nel 1955 fu licenziato da medico condotto), le lettere, gli invii, le visite, le sempre più faticose ripartenze. Il mancato colloquio disintegra ogni resistenza, l’uomo ha bisogno di parlare, anche lo scrittore.
Lorenzo Calogero, Poesie, Rubbettino, pp. 182, € 5,90
È un poeta "nato", con uso esperto (sapienziale) della parola, fino quasi al calembour, il gioco di parole intrepido, seppure sempre trasognato, di echi. Con la grazia cioè di una sorta di automatismo, di sonorità più che di associazioni di idee. Lo scrittore “verticale” che inebriò Ungaretti quando ne venne a conoscenza, credendo di vedrci una sua resurrezione. Ma resta sulla pagina un poeta che procede per “astrazioni del sentimento” (Tassoni). Con la nostalgia forte di una perdita, che è un’impossibilità.
“Tutto era calmo, solare\ come un giorno aperto” è memoria inutile, il segno di un fallimento. Che viene dall’esclusione. Montale debutta a trent’anni, ma incontra subito Gobetti, Cecchi e Contini, Pasolini a venti Contini, Calogero a 26 cerca Betocchi ma ne è respinto, per nessun’altra ragione che la differenza, e il rifiuto si ripeterà, costante, per venti anni – il primo riconoscimento arriverà da Sinisgalli nel 1955-56. Malinconico sempre: “Non vale gioia a così pura pena accesa\ o volontà di essere o di morire”. Ma industrioso più che retrattile, anzi ansioso di commercio umano. Fino a un certo punto. Gli ultimi anni, svaporato anche il fidanzamento, cederà all’isolamento, anche dai familiari. Dopo averlo detto: “Sfiorò la gloria la tua speranza\ e la tua ultima volontà di vivere”. Già al tempo del rimpianto, benché inedito, di quando "il cado emistichio, poi la parola\ venivano come angeli\, nella valle,\ dorata".
Calogero resta il poeta dell’assenza, che il verso era inteso a riempire. Esistenziale (caratteriale) ma anche fattuale, geografica: non si poteva – non si può – corrispondere col mondo da Melicuccà, perché si è prigionieri del proprio mondo. Da Casarsa sì, da Melicuccà no. Dove peraltro il rifiuto costringe il poeta a rifugiarsi vieppiù, esauriti man mano i tanti tentativi di essere come gli altri, le letture, gli studi, la corrispondenza, gli studi e poi l’esercizio della medicina (nel senese, il posto probabilmente più chiuso d’Italia - a Campiglia in val d’Orcia, allora deserta e povera e oggi ricchissima e sempre inavvicinabile, da cui dopo pochi mesi nel 1955 fu licenziato da medico condotto), le lettere, gli invii, le visite, le sempre più faticose ripartenze. Il mancato colloquio disintegra ogni resistenza, l’uomo ha bisogno di parlare, anche lo scrittore.
Lorenzo Calogero, Poesie, Rubbettino, pp. 182, € 5,90
lunedì 13 dicembre 2010
Unicredit in apnea – prima della dissoluzione?
A tre mesi dalla defenestrazione di Profumo Unicredit vaga incerta. Come i suoi padroncini, gli autori del colpo di mano, Biase il taciturno, Palenzona il chiacchierone, due navigati (ex) Dc, gente di potere prima che di idee. La struttura è da completare, le procedure da semplificare, le strategie da inventare. Domani venderanno il Mediocredito, ma giusto perché le Poste lo vogliono e lo hanno chiesto, senza cioè un programma. La banca è ferma a tre mesi fa. Il titolo in Borsa, venduto a 2,40 all’aumento di capitale riuscito di gennaio, ha ora un target price di 2,30. Un prezzo massimo teorico, poiché il titolo naviga attorno a 1,60, dopo essere sceso sotto 1,50. In consiglio e in banca nessuno peraltro parla più con nessuno: le attività ordinarie vanno avanti per inerzia, nessuna novità è stata introdotta e nessuna decisione innovativa viene presa, a parte la tardiva nomina di Ghizzoni ad amministratore delegato, una seconda scelta, se non una terza. L’ipotesi che questo sito avanzava all’indomani del colpo di mano contro Profumo ("Unicredit allo sioglimento")è sempre più concreta.
Più che un progetto industriale, peraltro, Unicredit è stata ed è una conglomerata di banche “bianche”. Se Profumo aveva un progetto industriale, è stato eliminato prima di realizzarlo, o per impedirgli di realizzarlo. Così com’è, Unicredit è un’entità politica: una vasta rete nel mercato del credito, costruita a poco prezzo su entità traballanti, tutte in aree o di orientamento democristiano, in Baviera, Austria, Polonia, Croazia. Senza peraltro nemmeno un progetto politico, non che si possa intravedere dietro la spavalderia provinciale di Palenzona.
Più che un progetto industriale, peraltro, Unicredit è stata ed è una conglomerata di banche “bianche”. Se Profumo aveva un progetto industriale, è stato eliminato prima di realizzarlo, o per impedirgli di realizzarlo. Così com’è, Unicredit è un’entità politica: una vasta rete nel mercato del credito, costruita a poco prezzo su entità traballanti, tutte in aree o di orientamento democristiano, in Baviera, Austria, Polonia, Croazia. Senza peraltro nemmeno un progetto politico, non che si possa intravedere dietro la spavalderia provinciale di Palenzona.
Ombre - 71
Show mascelluto di Fini dalla Annunziata, che tace. La grande giornalista sembra anzi in reverente ammirazione. Anche all’incredibile professione di costituzionalismo: “Se passa con 10 voti in più lascio”. E se fossero 9?
Fini indica Tremonti per la successione. Che li ha furiosamente contestato in altri governi, e costretto alle dimissioni nel 2003. Ma Annunziata non se lo ricorda.
Si producono periodicamente schemi e grafici per illustrate lo “schema Ponzi” adottato da Madoff. Che è la truffa più semplice, prendere i soldi a prestito per non restituirli.
La finanza ha bisogno di essere scienza, mentre è pratica, anche elementare: come guadagnare con i soldi altrui. L’ingegneria finanziaria è solo la carta colorata, coi nastrini, del “pacco”.
Dapprima Bondi, poi Brunetta per motivi di donne, poi ancora Bondi per i figliastri, poi Vespa, poi Bondi di nuovo: la rubrica delle lettere del “Corriere della sera” è affollatissima di personalità. Che dicono cose succose, gossip di prima mano: chi ha tagliato i fondi ai beni culturali, senza che Totò Settis se ne accorgesse, chi ha devastato il Pincio (per farci un garage…) e l’Agro Romano, chi ha curato Pompei con le ruspe, chi e quando ha impedito a Vespa di parlare del suo libro, a Milano. Cose che a Roma tutti sanno, ma a Milano si possono dire evidentemente solo nella rubrica delle lettere, sotto minaccia avvocatesca. È l’unico modo di forzare il minculpop?
Albertini si candida a Milano per il Nuovo Centro, contro Letizia Moratti: pagine e peana. Albertini, dopo due giorni, rinuncia, e dice che voterà Moratti: poche righe. L’ordine è tassativo in cronaca, o è un riflesso condizionato – il giornalista non deve obbedire, ha proprio il paraocchi.
Dopo l’eolico si fanno truffe semplici perfino sulla “Borsa” delle emissioni di Co2, le compravendite di capacità d’inquinamento fra chi scarica meno del consentito e chi scarica di più: chi vende non paga l’Iva, facendo sparire la “società” venditrice. La “coscienza verde” è più corrompibile?
Due giovani svedesi che si dicono stuprate da un lato, Wikileaks, l’antipolitica al potere dall’altra: due casi politicamente corretti, cioè indiscutibili, si scontrano. Ma l’elettronica prevale sulla femmina: si sussurra molto contro le due donne.
“Sembra incredibile, ma ogni tanto gli uomini, le istituzioni e l’opinione pubblica mostrano anche segni di una civiltà”, così Magris apre sul “Corriere della sera” il suo commento al fermo illegale del marocchino di Brembate. Eppure Magris non è un saturnino, è uomo e scrittore socievole e equilibrato. La “società civile” ha appestato pure lui?
La Federazione calcio ha indagato la partita Siena-Inter, l’ultima del campionato scorso, perché il Presidente del Siena avrebbe incitato i suoi a vincerla, promettendo forse un premio. Ma non ha indagato Lazio-Inter di una settimana prima, in cui la squadra romana ha giocato per perdere, l’ha detto e l’ha fatto. Giocare per vincere è dunque un reato, giocare per perdere no. Poi si dice che l’Italia è corrotta.
Ha nominato De Gennaro, Ciancimino figlio, e subito è stato imputato di calunnia, nonché di favoreggiamento e rivelazione di segreti d’ufficio. Mentre poteva impunemente allegramente nominare, non solo Berlusconi e Dell’Utri, ma anche Ciampi, Mancino eccetera. Senza vergogna.
Ciancimino è a conoscenza di segreti d’ufficio?
Casini dice Berlusconi “un uomo allo sbando” (“Non voglio polemizzare con il premier, Berlusconi è un uomo allo sbando”). Mentre Berlusconi gli telefona per il compleanno, affettuoso come sempre, fanno sapere entrambi. Quello democristiano dev’essere un diverso genere di umanità, più che un diverso galateo.
Ciancimino jr. s’impappina, accusa De Gennaro, e ne riceve in cambio le intercettazioni dei suoi legami mafiosi – alcune, certo, non tutte. A questo punto il non-pentito non potrebbe più essere testimone comodo d’accusa. Ma non per tutti. Da Palermo il dottor Ingroia lo giudica sempre attendibile, “caso per caso”. Come a dire: quando fa comodo a me. Che lo rende quasi simpatico, non fosse che il dottore è un Procuratore della Repubblica. Carica come si sa insindacabile e ineliminabile, è come un sacramento. Ma potrebbe rinunciare allo stipendio che gli paghiamo?
Fini indica Tremonti per la successione. Che li ha furiosamente contestato in altri governi, e costretto alle dimissioni nel 2003. Ma Annunziata non se lo ricorda.
Si producono periodicamente schemi e grafici per illustrate lo “schema Ponzi” adottato da Madoff. Che è la truffa più semplice, prendere i soldi a prestito per non restituirli.
La finanza ha bisogno di essere scienza, mentre è pratica, anche elementare: come guadagnare con i soldi altrui. L’ingegneria finanziaria è solo la carta colorata, coi nastrini, del “pacco”.
Dapprima Bondi, poi Brunetta per motivi di donne, poi ancora Bondi per i figliastri, poi Vespa, poi Bondi di nuovo: la rubrica delle lettere del “Corriere della sera” è affollatissima di personalità. Che dicono cose succose, gossip di prima mano: chi ha tagliato i fondi ai beni culturali, senza che Totò Settis se ne accorgesse, chi ha devastato il Pincio (per farci un garage…) e l’Agro Romano, chi ha curato Pompei con le ruspe, chi e quando ha impedito a Vespa di parlare del suo libro, a Milano. Cose che a Roma tutti sanno, ma a Milano si possono dire evidentemente solo nella rubrica delle lettere, sotto minaccia avvocatesca. È l’unico modo di forzare il minculpop?
Albertini si candida a Milano per il Nuovo Centro, contro Letizia Moratti: pagine e peana. Albertini, dopo due giorni, rinuncia, e dice che voterà Moratti: poche righe. L’ordine è tassativo in cronaca, o è un riflesso condizionato – il giornalista non deve obbedire, ha proprio il paraocchi.
Dopo l’eolico si fanno truffe semplici perfino sulla “Borsa” delle emissioni di Co2, le compravendite di capacità d’inquinamento fra chi scarica meno del consentito e chi scarica di più: chi vende non paga l’Iva, facendo sparire la “società” venditrice. La “coscienza verde” è più corrompibile?
Due giovani svedesi che si dicono stuprate da un lato, Wikileaks, l’antipolitica al potere dall’altra: due casi politicamente corretti, cioè indiscutibili, si scontrano. Ma l’elettronica prevale sulla femmina: si sussurra molto contro le due donne.
“Sembra incredibile, ma ogni tanto gli uomini, le istituzioni e l’opinione pubblica mostrano anche segni di una civiltà”, così Magris apre sul “Corriere della sera” il suo commento al fermo illegale del marocchino di Brembate. Eppure Magris non è un saturnino, è uomo e scrittore socievole e equilibrato. La “società civile” ha appestato pure lui?
La Federazione calcio ha indagato la partita Siena-Inter, l’ultima del campionato scorso, perché il Presidente del Siena avrebbe incitato i suoi a vincerla, promettendo forse un premio. Ma non ha indagato Lazio-Inter di una settimana prima, in cui la squadra romana ha giocato per perdere, l’ha detto e l’ha fatto. Giocare per vincere è dunque un reato, giocare per perdere no. Poi si dice che l’Italia è corrotta.
Ha nominato De Gennaro, Ciancimino figlio, e subito è stato imputato di calunnia, nonché di favoreggiamento e rivelazione di segreti d’ufficio. Mentre poteva impunemente allegramente nominare, non solo Berlusconi e Dell’Utri, ma anche Ciampi, Mancino eccetera. Senza vergogna.
Ciancimino è a conoscenza di segreti d’ufficio?
Casini dice Berlusconi “un uomo allo sbando” (“Non voglio polemizzare con il premier, Berlusconi è un uomo allo sbando”). Mentre Berlusconi gli telefona per il compleanno, affettuoso come sempre, fanno sapere entrambi. Quello democristiano dev’essere un diverso genere di umanità, più che un diverso galateo.
Ciancimino jr. s’impappina, accusa De Gennaro, e ne riceve in cambio le intercettazioni dei suoi legami mafiosi – alcune, certo, non tutte. A questo punto il non-pentito non potrebbe più essere testimone comodo d’accusa. Ma non per tutti. Da Palermo il dottor Ingroia lo giudica sempre attendibile, “caso per caso”. Come a dire: quando fa comodo a me. Che lo rende quasi simpatico, non fosse che il dottore è un Procuratore della Repubblica. Carica come si sa insindacabile e ineliminabile, è come un sacramento. Ma potrebbe rinunciare allo stipendio che gli paghiamo?
Se Otranto era meglio turca
Tre saggi “incolti” – non finiti? abbozzati? – attorno a una pretesa di cultura superiore. Il saggio sullo storico turco – la traduzione - è perfino disgustoso: un atto di contrizione di fronte a un linguaggio spudorato. L’islam non nasconde i suoi limiti, non li camuffa, e come fa un europeo, cristiano, colto, a professarsi peccatore nei suoi confronti – era meglio un Salento ottomano? “Signora di Otranto” è invece un saggio turistico: una fantasia sul niente. E tuttavia la rinascita di Otranto deve molto a questa salentina di adozione.
Maria Corti, Otranto allo specchio
Maria Corti, Otranto allo specchio
domenica 12 dicembre 2010
Il diritto al governo della Destra - Berlusconi 5
È Berlusconi un vuoto che riempie un vuoto? La seconda parte del quesito è certamente un fatto, che si avvia a compiere i cento anni, dal dissolvimento della Destra storica dopo la Grande Guerra. L’Italia, nelle periodiche oscillazioni dell’opinione, in astratto salutari all’organismo, sbocchi di cui ha bisogno, quando va a destra è quasi un secolo che non trova una leadership, non una democratica, un partito, un’indicazione di governo. La Dc c’è riuscita a tratti, quando ha governato bene: la scelta atlantica, la scelta europeista, l’euro. Ma la Dc si è dissolta proprio quando l’opinione svoltava decisamente a destra, ormai sono quasi vent’anni: per un governo stabile, per minori tasse, per minori vincoli al lavoro. In questo cambiamento radicale, l’Italia non ha trovato perciò pronti buoni maestri. Molti vi si sono sostituiti: i giudici, la Lega, i reduci Dc. Ma senza convincere, anche perché i difetti presentavano evidenti, l’opportunismo e anche la contraddittorietà. Non ci si può impadronire della giustizia e usarla come una clava. Non si può chiedere il decentramento e insieme l’abolizione del Sud. Oppure meno Stato e più Stato insieme. Né si può propagandare l’uninominale per allargare la presa del Parlamento sul governo invece di riequilibrarla. E per accentuare l’impotenza parlamentare invece di ridurla. Per ultimo, nell’impasse che s'era creato, Berlusconi ha occupato gli spazi, una prateria aperta, e l’opinione di destra, sempre prevalente, ha pensato di avere trovato una guida capace.
Berlusconi è bene o male in Italia il cambiamento. L’unico cambiamento possibile in Italia, cioè non rovinoso come sarebbe buttarsi con Bossi, o con Fini, o con altri avventurieri minori, seppure portati da certa sinistra. E il cambiamento è indispensabile alla democrazia. La rappresentanza popolare, la divisione dei poteri, la mediazione incessante sono poca cosa rispetto al ricambio. La democrazia è un caleidoscopio, lento, di gruppi di ogni colore sociale che entrano nel focus del potere, ne comprendono i meccanismi, se ne avvantaggiano, e lo rivitalizzano. È il meccanismo della speranza rinnovata.
Le democrazie bloccate – quella italiana, quella giapponese – possono produrre più guasti, pur restando in un ordinamento democratico (elezioni periodiche, libertà di organizzazione e espressione), di un regime totalitario. Per esempio, in Italia, l’enorme numero di morti politici, la corruttela elevata a criterio d’ordine (la spartizione o lottizzazione), l’inefficienza e gli altissimi costi delle opere e dei servizi pubblici. In una tale situazione il sistema dei controlli (checks-and-balance) è d’altronde regolarmente inceppato. Mentre le istituzioni democratiche fatalmente derivano all’inconsistenza: sono simulacri dell’opinione pubblica la Rai, o della giustizia e della divisione dei poteri il Csm e la Corte Costituzionale – organismi probabilmente rispettabili ma, in assenza di ricambio, inaffidabili. Il cambiamento è necessario per mantenere aperta e diffusa l’opinione pubblica, dandole una funzione di controllo realmente popolare, invece che, come è, di parte,e più per gli interessi costituiti e opachi. Solo così si dà un senso democratico alla cultura di massa, che altrimenti è niente più di un mercato di consumo.
I suoi nemici epitomizzano in Berlusconi un’Italia da “Grande Fratello”, arrogante, vacua, alla perpetua ricerca del “successo”, inteso come “scandalo”, col connesso guadagno facile. Questa parentesi è sempre necessaria quando si parla di Berlusconi, uno che si insediato per vent’anni alla guida politica dell’Italia venendo da una vita di venditore, d’immobili, di pubblicità, di belle fiche in tv. Ma, seppure il legame di questi fenomeni con Berlusconi fosse giusto, che Berlusconi ne sia espressione o addirittura il demiurgo malefico, è sbagliata l’identificazione dell’Italia alla tv, a quella tv. Il problema si pone ma al contrario: l’omologazione avviene non per la supina quiescenza del Paese ma per la prepotenza del mezzo, direttamente e indirettamente, sulla società. Più indirettamente che direttamente: il mezzo non ha poteri ipnotici, contrariamente alle sciocchezze che si vanno scrivendo, ma è quello che si dice e si vuole che sia. Dai suoi strateghi commerciali, quindi anche da Berlusconi, Ma col contributo, determinante e non disinteressato, dei media, o intellettualità. Con un sostegno attivo dichiarato (consulenze, collaborazioni, presenze, contratti, cachet) e anche con quello critico.
Non è l’Italia che è malata di Sanremo. L’Italia vede il festival, se lo vede, e se lo dimentica, la mattina va a lavorare. È il gran parlare che ne fanno i media di ogni bordo, telegiornali, giornali, tv concorrenti, editorialisti, filosofi, medici (quanti medici non parlano di Sanremo? dietisti, estetici, dermatologi, fisiologi), nonché direttamente tutti gli interessati, discografici, parolieri, musicisti, specialisti di marketing, pubblicitari, che distorce l’evento, e lo impone al Paese. In breve: la realtà è quella che è, buona e cattiva, il discorso su questa realtà è perverso e prevaricante. L’Italia sarà malata, più malata che la media degli altri paesi di pari storia e cultura, ma l’Italia intellettuale.
Il discorso della audience e dei lettori da inseguire e alimentare non è il falso problema dell’uovo e della gallina, ma piuttosto della panineria, o della mensa aziendale, del consumo cioè semiobbligato: il lettore e l’ascoltatore consuma quello che gli viene offerto, più o meno di malavoglia, e non ha scelta se non quella di non vedere il programma o cercarne un altro – non mangiare o scegliere un’altra caffetteria. Con difficoltà, questo è vero – come è sempre difficile trovare una caffetteria migliore, vendono tutte prodotti di catering standardizzati. Ma perché il discorso sulla televisione – come quello del panino, di cui non si può fare a meno – crea modelli, schemi, reazioni, insomma linguaggi, sempre più uniformi e poveri. Non è vero, ma allo stesso modo del “Grande Fratello” bisognerebbe dire la sua tv, la tv dell’Italia, anche la miriade di programmi facinorosi d’informazione, di ascolto altrettanto grande ma di peggiore turpitudine. Se è turpe esibire glutei e tette, e dire le parolacce – ma non lo è, è solo un’esibizione di lussuria povera, e sempre castigata, moralistica – che dire della calunnia, dell’odio, e dei dossier (non tanto) segreti che hanno preso il posto del giornalismo?
Il problema Berlusconi, quello vero, è che catalizza l’opinione e i voti malgrado difetti colossali. Di carattere, d’interesse personale, e soprattutto d’immagine, cioè di gusto. E forse, malgrado l’ambizione, d’interesse alla politica. Il problema è che per una massa solida d’italiani non c’è alternativa, non migliore di un Berlusconi – il panorama è in effetti sconsolante, di vecchie carcasse, ancorché giovanili, e riti obsoleti, ripetitivi, in fondo anche nauseanti. E cattivi: ecco, l’opposizione sa essere solo cattiva. Mentre Berlusconi, che è il padrone per antonomasia, il prototipo del riccone, come egli stesso si definisce, non ha mai licenziato nessuno. Non ha mai sottopagato nessuno – eh sì, anche la vicenda delle battone è veritiera in questo senso.
È così che le attese sono andate deluse (“è Berlusconi un vuoto?”). Uno che paga le ragazze settemila euro per fargli compagnia a cena e ascoltare le sue canzoni non ha tutte le rotelle a posto. Quattordici o quindici ragazze. Per non dire del gusto: tutte facce postribolari, come le dame baresi che infiocchettavano i pranzi romani a palazzo Grazioli. Mentre potrebbe avere gratis al desco, se non ha nemmeno un’amica, le belle parlamentari del suo partito. Che tra l’altro lo applaudirebbero entusiaste.
Mentre, sull'altro versante, è necessario sempre aprire questa parentesi, la Procura di Milano senza vergogna, invece di fargli un processo vero, uno solo, gliene fa dieci, cento, indaga anche i suoi avvocati, cosa inconcepibile in qualsiasi concezione della giustizia, e niente. L’indignazione non basta, anche se è molto milanese, di una città cioè “indignata di professione”, una macchietta alla De Sica – cioè: di Milano, che ci governa, bisogna aver paura: “l’indignazione”, direbbe Dario Fo, “è l’arma dei coglioni”. Ci vuole un capo d’accusa, uno solo. “Chi è condannato a difendersi”, dice Kafka ne “La tana”, “perisce”. Berlusconi no. E dunque? Sarà, come si è tentato di spiegare più volte, un prodotto di successo di quel marketing che è la sua professione e il suo segreto d'imprenditore - il venditore abile. In questa epoca che si vuole di mercato. A fronte di una opposizione in buona parte in malafede, oltre che incapace.
Ma il fatto importante è il costante, ormai ventennale, predominio della opinione di destra, anche quando le leggi elettorali hanno fatto vincere il centro-sinistra. E anzi il prevalere dell’opinione di destra nello stesso centro-sinistra. Il fatto – il problema politico dell’Italia – è dunque questo: un paese che vuole essere governato da destra, con meno tasse, meno vincoli di legge, e un governo stabile, non trova lo sbocco cui avrebbe diritto. In questa legislatura, dopo avere votato Berlusconi alle politiche, e la destra alle amministrative in contemporanea con le politiche, ha continuato a votare massicciamente Berlusconi anche nelle successive due tornate amministrative. Quasi a voler prevenire uno scontato tentativo di ribaltone. Che è sempre costante in Italia, contro i governi di destra come contro quelli di sinistra: c’è un partito della crisi che sempre sovverte ogni decisione elettorale. E questo è il secondo aspetto del problema – del fatto: c’è un partito dell’instabilità molto prepotente, che ogni volta è in grado di sconfessare il voto.
La pratica della instabilità può non essere organizzata - ma lo è: è una mentalità e una politica, quella del tanto peggio tanto meglio, su cui molte carriere spudoratamente si imbastiscono, che la caduta del Muro sembra avere rafforzato (liberato, diffuso) invece di liberarcene. Puntata apparentemente sulla corruzione e sulla mafia onnipresenti, ora anche sulla prostituzione, domani chissà, sulla droga, la camorra, la 'ndrangheta e il riciclaggio di denaro, la triade cinese... L'oggetto è inimportante, il crimine, anche quando c'è, è un fatto, tutti ne sono a conoscenza, la droga, il riciclaggio, gli appalti, ciò che importa non è combattere il crimine ma creare scandalo. Più spesso con le indiscrezioni, le voci, le dicerie, e i falsi avvisi di reato, cioè senza fondamento. Che sarebbero un altro reato, la diffamazione, ma in Italia sono zona franca, e anzi fanno l'opinione pubblica cosiddetta qualificata, dei grandi giornali e i famosi opinionisti. Questo partito ha vinto facilmente con Scalfaro alla presidenza della Repubblica. Con Ciampi non c’è riuscito. Con Napolitano c’è riuscito una volta, e ci ritenta.
Se Berlusconi è un vuoto è questione da rimandare. Le quattro votazioni a suo favore in due anni indicano un elettorato profondamente deciso a farsi valere, anche contro venti e tempeste. Considerando cioè le debolezze di Berlusconi un’invenzione dei suoi nemici, giudici, giornalisti e servizi segreti, o del partito della crisi. Oppure considerandole vere ma irrilevanti. È anche questione a questo punto marginale: il fatto – il problema – è che c’è un’opinione di destra, liberale, decentrazionista, liberista, che ha diritto ad avere uno sbocco politico. In astratto, in quanto opinione maggioritaria, e in concreto: l’Italia altrimenti resta bloccata – il debito cioè, il costo del lavoro, la stabilità del lavoro e del reddito, la produttività, e l’equilibrio sociale che alla produzione del reddito è collegato (sanità, pensioni, assistenza).
È questo un bene o un male? È un bene, ma non sarà opera del diavolo? L’alternanza è un bene per la democrazia, ma Berlusconi? Che è un bugiardo, e anche un cialtrone? Un po’ è da capire e compatire, perché è vittima della giustizia politica, la quale è insidiosa e disgustosa – oltre che nemica della democrazia, la democrazia anzitutto è giustizia. Ma lui o non capisce, o c’inzuppa il pane. Il che non meraviglierebbe, essendo egli milanese come la giustizia che lo perseguita. E così quest’uomo che ci avrà governati per vent’anni non resterà nelle storie come un Raffles o un Rocambole, ladro fantasioso. Non è nemmeno un Landru, freddo assassino. Non spia i suoi nemici. Non gli manda la coca in ufficio, come usa a Milano, non gli mette le ragazzine a letto. È un superficiale, non considera nemmeno che dei nemici killer e ladri gli stiano alle costole, di cui Milano invece è piena, non solo a palazzo di Giustizia. È perfino incapace, pur avendo fatto tanti soldi: paga puttane sboccate cifre iperboliche, perché stiano a tavola con lui, magari senza nemmeno scoparle. E si fa scrutinare ogni singolo atto da persone che paga profumatamente, cameriere, maggiordomi, portieri, lacché, se scopa, mettiamo una volta al mese, ha pure settantacinque anni, o se non scopa, tutto si sa di lui, al soldo della feroce antipolitica della sua Milano. Un uomo, insomma, non eccezionale. Che dà la misura degli altri, i suoi avversari.
Berlusconi di destra sarebbe anche contestabile, ma è la collocazione che lui vuole – unico peraltro: il conformismo è sempre a sinistra in Italia. E questo scombina le collocazioni tra destra e sinistra. O meglio dà un contributo al rimescolamento. Con Bossi e Di Pietro che vengono collocati a sinistra, pur essendo di destra a tutti gli effetti, e anzi di destra estrema, razzista l’uno, autoritario l’altro. E con loro una miriade di intellettuali e giornalisti di destra, e di destra estrema, che sono diventati collaboratori e anzi pilastri della sinistra. Berlusconi contribuisce perché propone una destra che viene criticata da una destra che si pone a sinistra. Mentre tanti sinceri socialisti e comunisti sono con lui, Sacconi, Brunetta, Ferrara, Iannuzzi, Vertone, Tremonti, Frattini, Bonaiuti, lo stesso Bondi, in aggiunta al defunto Colletti. Mentre sono contro di lui Fini, Di Pietro e altri sbirri della democrazia, tutta la magistratura, fino al Csm e alla Corte Costituzionale, tutti i servizi segreti, più o meno deviati, pubblici e privati. Oltre ai giornalisti suoi beneficati, che lui ha lanciato o premiato, Travaglio, Guzzanti, Mentana, Severgnini, la lista è lunga.
Alla fine, Berlusconi è, come all’inizio, quello che l’opposizione (non) è. L’antiberlsuconismo quotidiano, a ogni ora del giorno, sulla Rai e su Sky, nei telegiornali, nei talk show, nelle sit-com e nelle rubriche di cucina, sarà pure un modo di ricompattare le masse in fuga dalla sinistra, ma è un modo fraudolento. Cioè complessivamente sempre controproducente: se avvicina un giovane allontana due adulti. Dire che l’uso fraudolento dei mass media è della sinistra sembra un’esagerazione ma così è. Perché incita all’odio. In assenza di argomenti. Che ci sarebbero (il lavoro, il reddito, la guerra in Afghanistan, o nel Libano) ma l’antiberlusconismo li oblitera. Costruendo una trincea che sa di propaganda. Ripetitiva, il che urta i più. E disciplinata, il che urta le persone sensibili, quelle del 5 per cento, che col voto determinano le maggioranze, richiamando inevitabilmente la “Fattoria degli animali”.
Ma non bisogna perdere la fede. “Luz che la sberlusiss” è l’inizio dell’inno a Belisama, la dea celtica che dai sotterranei del Duomo continua a generare acqua e zolfo. Un etimologista, anche antiberlusconiano, non potrebbe negare l’ascendenza, da Berlusconi a questa luce che sbrilluccica. Due Dee l’archeosofia mette a capo di Milano, la Madonna in cima al Duomo, aurea, sole di primavera, e nel lago segreto sotto il Duomo Belisama, forza tellurica, dea lunare. E dunque Berlusconi è forza tellurica e lunare: si capisce che la città ce lo imponga e poi lo trafigga, o lo copra di merda. Perché Milano è così, che fa la Madonna e anche l’Antimadonna. Non bisogna disperare, ma capire e mirare.
Berlusconi è bene o male in Italia il cambiamento. L’unico cambiamento possibile in Italia, cioè non rovinoso come sarebbe buttarsi con Bossi, o con Fini, o con altri avventurieri minori, seppure portati da certa sinistra. E il cambiamento è indispensabile alla democrazia. La rappresentanza popolare, la divisione dei poteri, la mediazione incessante sono poca cosa rispetto al ricambio. La democrazia è un caleidoscopio, lento, di gruppi di ogni colore sociale che entrano nel focus del potere, ne comprendono i meccanismi, se ne avvantaggiano, e lo rivitalizzano. È il meccanismo della speranza rinnovata.
Le democrazie bloccate – quella italiana, quella giapponese – possono produrre più guasti, pur restando in un ordinamento democratico (elezioni periodiche, libertà di organizzazione e espressione), di un regime totalitario. Per esempio, in Italia, l’enorme numero di morti politici, la corruttela elevata a criterio d’ordine (la spartizione o lottizzazione), l’inefficienza e gli altissimi costi delle opere e dei servizi pubblici. In una tale situazione il sistema dei controlli (checks-and-balance) è d’altronde regolarmente inceppato. Mentre le istituzioni democratiche fatalmente derivano all’inconsistenza: sono simulacri dell’opinione pubblica la Rai, o della giustizia e della divisione dei poteri il Csm e la Corte Costituzionale – organismi probabilmente rispettabili ma, in assenza di ricambio, inaffidabili. Il cambiamento è necessario per mantenere aperta e diffusa l’opinione pubblica, dandole una funzione di controllo realmente popolare, invece che, come è, di parte,e più per gli interessi costituiti e opachi. Solo così si dà un senso democratico alla cultura di massa, che altrimenti è niente più di un mercato di consumo.
I suoi nemici epitomizzano in Berlusconi un’Italia da “Grande Fratello”, arrogante, vacua, alla perpetua ricerca del “successo”, inteso come “scandalo”, col connesso guadagno facile. Questa parentesi è sempre necessaria quando si parla di Berlusconi, uno che si insediato per vent’anni alla guida politica dell’Italia venendo da una vita di venditore, d’immobili, di pubblicità, di belle fiche in tv. Ma, seppure il legame di questi fenomeni con Berlusconi fosse giusto, che Berlusconi ne sia espressione o addirittura il demiurgo malefico, è sbagliata l’identificazione dell’Italia alla tv, a quella tv. Il problema si pone ma al contrario: l’omologazione avviene non per la supina quiescenza del Paese ma per la prepotenza del mezzo, direttamente e indirettamente, sulla società. Più indirettamente che direttamente: il mezzo non ha poteri ipnotici, contrariamente alle sciocchezze che si vanno scrivendo, ma è quello che si dice e si vuole che sia. Dai suoi strateghi commerciali, quindi anche da Berlusconi, Ma col contributo, determinante e non disinteressato, dei media, o intellettualità. Con un sostegno attivo dichiarato (consulenze, collaborazioni, presenze, contratti, cachet) e anche con quello critico.
Non è l’Italia che è malata di Sanremo. L’Italia vede il festival, se lo vede, e se lo dimentica, la mattina va a lavorare. È il gran parlare che ne fanno i media di ogni bordo, telegiornali, giornali, tv concorrenti, editorialisti, filosofi, medici (quanti medici non parlano di Sanremo? dietisti, estetici, dermatologi, fisiologi), nonché direttamente tutti gli interessati, discografici, parolieri, musicisti, specialisti di marketing, pubblicitari, che distorce l’evento, e lo impone al Paese. In breve: la realtà è quella che è, buona e cattiva, il discorso su questa realtà è perverso e prevaricante. L’Italia sarà malata, più malata che la media degli altri paesi di pari storia e cultura, ma l’Italia intellettuale.
Il discorso della audience e dei lettori da inseguire e alimentare non è il falso problema dell’uovo e della gallina, ma piuttosto della panineria, o della mensa aziendale, del consumo cioè semiobbligato: il lettore e l’ascoltatore consuma quello che gli viene offerto, più o meno di malavoglia, e non ha scelta se non quella di non vedere il programma o cercarne un altro – non mangiare o scegliere un’altra caffetteria. Con difficoltà, questo è vero – come è sempre difficile trovare una caffetteria migliore, vendono tutte prodotti di catering standardizzati. Ma perché il discorso sulla televisione – come quello del panino, di cui non si può fare a meno – crea modelli, schemi, reazioni, insomma linguaggi, sempre più uniformi e poveri. Non è vero, ma allo stesso modo del “Grande Fratello” bisognerebbe dire la sua tv, la tv dell’Italia, anche la miriade di programmi facinorosi d’informazione, di ascolto altrettanto grande ma di peggiore turpitudine. Se è turpe esibire glutei e tette, e dire le parolacce – ma non lo è, è solo un’esibizione di lussuria povera, e sempre castigata, moralistica – che dire della calunnia, dell’odio, e dei dossier (non tanto) segreti che hanno preso il posto del giornalismo?
Il problema Berlusconi, quello vero, è che catalizza l’opinione e i voti malgrado difetti colossali. Di carattere, d’interesse personale, e soprattutto d’immagine, cioè di gusto. E forse, malgrado l’ambizione, d’interesse alla politica. Il problema è che per una massa solida d’italiani non c’è alternativa, non migliore di un Berlusconi – il panorama è in effetti sconsolante, di vecchie carcasse, ancorché giovanili, e riti obsoleti, ripetitivi, in fondo anche nauseanti. E cattivi: ecco, l’opposizione sa essere solo cattiva. Mentre Berlusconi, che è il padrone per antonomasia, il prototipo del riccone, come egli stesso si definisce, non ha mai licenziato nessuno. Non ha mai sottopagato nessuno – eh sì, anche la vicenda delle battone è veritiera in questo senso.
È così che le attese sono andate deluse (“è Berlusconi un vuoto?”). Uno che paga le ragazze settemila euro per fargli compagnia a cena e ascoltare le sue canzoni non ha tutte le rotelle a posto. Quattordici o quindici ragazze. Per non dire del gusto: tutte facce postribolari, come le dame baresi che infiocchettavano i pranzi romani a palazzo Grazioli. Mentre potrebbe avere gratis al desco, se non ha nemmeno un’amica, le belle parlamentari del suo partito. Che tra l’altro lo applaudirebbero entusiaste.
Mentre, sull'altro versante, è necessario sempre aprire questa parentesi, la Procura di Milano senza vergogna, invece di fargli un processo vero, uno solo, gliene fa dieci, cento, indaga anche i suoi avvocati, cosa inconcepibile in qualsiasi concezione della giustizia, e niente. L’indignazione non basta, anche se è molto milanese, di una città cioè “indignata di professione”, una macchietta alla De Sica – cioè: di Milano, che ci governa, bisogna aver paura: “l’indignazione”, direbbe Dario Fo, “è l’arma dei coglioni”. Ci vuole un capo d’accusa, uno solo. “Chi è condannato a difendersi”, dice Kafka ne “La tana”, “perisce”. Berlusconi no. E dunque? Sarà, come si è tentato di spiegare più volte, un prodotto di successo di quel marketing che è la sua professione e il suo segreto d'imprenditore - il venditore abile. In questa epoca che si vuole di mercato. A fronte di una opposizione in buona parte in malafede, oltre che incapace.
Ma il fatto importante è il costante, ormai ventennale, predominio della opinione di destra, anche quando le leggi elettorali hanno fatto vincere il centro-sinistra. E anzi il prevalere dell’opinione di destra nello stesso centro-sinistra. Il fatto – il problema politico dell’Italia – è dunque questo: un paese che vuole essere governato da destra, con meno tasse, meno vincoli di legge, e un governo stabile, non trova lo sbocco cui avrebbe diritto. In questa legislatura, dopo avere votato Berlusconi alle politiche, e la destra alle amministrative in contemporanea con le politiche, ha continuato a votare massicciamente Berlusconi anche nelle successive due tornate amministrative. Quasi a voler prevenire uno scontato tentativo di ribaltone. Che è sempre costante in Italia, contro i governi di destra come contro quelli di sinistra: c’è un partito della crisi che sempre sovverte ogni decisione elettorale. E questo è il secondo aspetto del problema – del fatto: c’è un partito dell’instabilità molto prepotente, che ogni volta è in grado di sconfessare il voto.
La pratica della instabilità può non essere organizzata - ma lo è: è una mentalità e una politica, quella del tanto peggio tanto meglio, su cui molte carriere spudoratamente si imbastiscono, che la caduta del Muro sembra avere rafforzato (liberato, diffuso) invece di liberarcene. Puntata apparentemente sulla corruzione e sulla mafia onnipresenti, ora anche sulla prostituzione, domani chissà, sulla droga, la camorra, la 'ndrangheta e il riciclaggio di denaro, la triade cinese... L'oggetto è inimportante, il crimine, anche quando c'è, è un fatto, tutti ne sono a conoscenza, la droga, il riciclaggio, gli appalti, ciò che importa non è combattere il crimine ma creare scandalo. Più spesso con le indiscrezioni, le voci, le dicerie, e i falsi avvisi di reato, cioè senza fondamento. Che sarebbero un altro reato, la diffamazione, ma in Italia sono zona franca, e anzi fanno l'opinione pubblica cosiddetta qualificata, dei grandi giornali e i famosi opinionisti. Questo partito ha vinto facilmente con Scalfaro alla presidenza della Repubblica. Con Ciampi non c’è riuscito. Con Napolitano c’è riuscito una volta, e ci ritenta.
Se Berlusconi è un vuoto è questione da rimandare. Le quattro votazioni a suo favore in due anni indicano un elettorato profondamente deciso a farsi valere, anche contro venti e tempeste. Considerando cioè le debolezze di Berlusconi un’invenzione dei suoi nemici, giudici, giornalisti e servizi segreti, o del partito della crisi. Oppure considerandole vere ma irrilevanti. È anche questione a questo punto marginale: il fatto – il problema – è che c’è un’opinione di destra, liberale, decentrazionista, liberista, che ha diritto ad avere uno sbocco politico. In astratto, in quanto opinione maggioritaria, e in concreto: l’Italia altrimenti resta bloccata – il debito cioè, il costo del lavoro, la stabilità del lavoro e del reddito, la produttività, e l’equilibrio sociale che alla produzione del reddito è collegato (sanità, pensioni, assistenza).
È questo un bene o un male? È un bene, ma non sarà opera del diavolo? L’alternanza è un bene per la democrazia, ma Berlusconi? Che è un bugiardo, e anche un cialtrone? Un po’ è da capire e compatire, perché è vittima della giustizia politica, la quale è insidiosa e disgustosa – oltre che nemica della democrazia, la democrazia anzitutto è giustizia. Ma lui o non capisce, o c’inzuppa il pane. Il che non meraviglierebbe, essendo egli milanese come la giustizia che lo perseguita. E così quest’uomo che ci avrà governati per vent’anni non resterà nelle storie come un Raffles o un Rocambole, ladro fantasioso. Non è nemmeno un Landru, freddo assassino. Non spia i suoi nemici. Non gli manda la coca in ufficio, come usa a Milano, non gli mette le ragazzine a letto. È un superficiale, non considera nemmeno che dei nemici killer e ladri gli stiano alle costole, di cui Milano invece è piena, non solo a palazzo di Giustizia. È perfino incapace, pur avendo fatto tanti soldi: paga puttane sboccate cifre iperboliche, perché stiano a tavola con lui, magari senza nemmeno scoparle. E si fa scrutinare ogni singolo atto da persone che paga profumatamente, cameriere, maggiordomi, portieri, lacché, se scopa, mettiamo una volta al mese, ha pure settantacinque anni, o se non scopa, tutto si sa di lui, al soldo della feroce antipolitica della sua Milano. Un uomo, insomma, non eccezionale. Che dà la misura degli altri, i suoi avversari.
Berlusconi di destra sarebbe anche contestabile, ma è la collocazione che lui vuole – unico peraltro: il conformismo è sempre a sinistra in Italia. E questo scombina le collocazioni tra destra e sinistra. O meglio dà un contributo al rimescolamento. Con Bossi e Di Pietro che vengono collocati a sinistra, pur essendo di destra a tutti gli effetti, e anzi di destra estrema, razzista l’uno, autoritario l’altro. E con loro una miriade di intellettuali e giornalisti di destra, e di destra estrema, che sono diventati collaboratori e anzi pilastri della sinistra. Berlusconi contribuisce perché propone una destra che viene criticata da una destra che si pone a sinistra. Mentre tanti sinceri socialisti e comunisti sono con lui, Sacconi, Brunetta, Ferrara, Iannuzzi, Vertone, Tremonti, Frattini, Bonaiuti, lo stesso Bondi, in aggiunta al defunto Colletti. Mentre sono contro di lui Fini, Di Pietro e altri sbirri della democrazia, tutta la magistratura, fino al Csm e alla Corte Costituzionale, tutti i servizi segreti, più o meno deviati, pubblici e privati. Oltre ai giornalisti suoi beneficati, che lui ha lanciato o premiato, Travaglio, Guzzanti, Mentana, Severgnini, la lista è lunga.
Alla fine, Berlusconi è, come all’inizio, quello che l’opposizione (non) è. L’antiberlsuconismo quotidiano, a ogni ora del giorno, sulla Rai e su Sky, nei telegiornali, nei talk show, nelle sit-com e nelle rubriche di cucina, sarà pure un modo di ricompattare le masse in fuga dalla sinistra, ma è un modo fraudolento. Cioè complessivamente sempre controproducente: se avvicina un giovane allontana due adulti. Dire che l’uso fraudolento dei mass media è della sinistra sembra un’esagerazione ma così è. Perché incita all’odio. In assenza di argomenti. Che ci sarebbero (il lavoro, il reddito, la guerra in Afghanistan, o nel Libano) ma l’antiberlusconismo li oblitera. Costruendo una trincea che sa di propaganda. Ripetitiva, il che urta i più. E disciplinata, il che urta le persone sensibili, quelle del 5 per cento, che col voto determinano le maggioranze, richiamando inevitabilmente la “Fattoria degli animali”.
Ma non bisogna perdere la fede. “Luz che la sberlusiss” è l’inizio dell’inno a Belisama, la dea celtica che dai sotterranei del Duomo continua a generare acqua e zolfo. Un etimologista, anche antiberlusconiano, non potrebbe negare l’ascendenza, da Berlusconi a questa luce che sbrilluccica. Due Dee l’archeosofia mette a capo di Milano, la Madonna in cima al Duomo, aurea, sole di primavera, e nel lago segreto sotto il Duomo Belisama, forza tellurica, dea lunare. E dunque Berlusconi è forza tellurica e lunare: si capisce che la città ce lo imponga e poi lo trafigga, o lo copra di merda. Perché Milano è così, che fa la Madonna e anche l’Antimadonna. Non bisogna disperare, ma capire e mirare.
Consolidare il debito, non c’è altra via
Rifinanziati i debiti dei paesi insolventi, per ora solo due, Grecia e Irlanda, il problema del debito che pesa sull’euro si ripropone insoluto. Forse non sono soldi buttati al vento, ma quasi. Un consolidamento è imprescindibile. Oppure l’abbandono dell’euro alla svalutazione, alla sospensione, alla riperimetrazione. Tutte soluzioni politicamente impraticabili, pena il dissolvimento di tutta l’Unione Europea (il "Financial Times" minaccia oggi l'abbandono del Fondo di coesione, il singolo più grosso capitolo di spesa dell'Unione, 347 miliardi di euro, perché i paesi che ne avrebbero più tratto profitto, Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, sono quelli che più hanno messo a rischio la stabilità monetaria: cioè, si minaccia il dissolvimento dell'Ue per molto meno).
Anche il consolidamento è impraticabile, ma non in astratto né in perpetuo. La cancelliera Merkel si è opposta all’avvio del consolidamento europeo attraverso l’emissione di Eurobond (il trasferimento parziale dei debiti nazionali in debito europeo), ma questa è l’unica strada valida. L’unica cioè alternativa ai salvataggi dei singoli debiti, che il mercato giustamente non considererà mai definitivi, o accettabili in perpetuo – il salvataggio non è la soluzione del problema. La cancelliera, che affetta di considerare i salvataggi la ricetta giusta, in realtà non ne è convinta - non ha convinto i suoi elettori, non ci ha nemmeno tentato, che non sono i tedeschi che pagano per l’euro forte, ma sono gli altri europei che pagano per un euro tedesco. Bisogna fare la politica dei proprio mezzi, non eccedere in pretese: l’Europa è forse la maggiore area integrata di produzione e consumo (la vecchia “Fortezza Europa”) ma non è la maggiore area economica del mondo, e nemmeno la seconda – e potrebbe non essere a breve nemmeno la terza.
L’altra soluzione, prospettata da Mario Draghi, va nell’eccesso opposto. Draghi propone la “soluzione italiana” del 1992, con se stesso alla direzione generale del Tesoro e Ciampi alla Banca d’Italia: un avanzo primario, nella gestione pubblica, colossale e stabile, in grado di abbattere il debito in una diecina d’anni, mediante forti tagli di spesa e nuove tasse. Un modello che “ucciderebbe” cioè la residua capacità di crescita dell’economia (gli effetti perversi del vincolo debito sono esaminati in dettaglio in “Consolidare il debito”, lo studio in blog il 2 marzo 2009, http://www.antiit.com/2009/03/consolidare-il-debito.html). L’Italia sopravvisse nel 1992 proprio per il presupposto della cura da cavallo che Draghi propone: la svalutazione del 40 per cento della lira, grazie alla quale la macchina continuò a lavorare ancora per l’esportazione. Per un paio d’anni, non di più. Nei diciotto mesi da metà 1995 a fine 1996 si perdettero un milione 750 mila posti di lavoro. La deflazione, senza un taglio netto al debito, si può dire da allora cronica in Italia, con tassi annui di crescita raramente superiori all’1 per cento, e in tre anni perfino negativi.
Delle tre ventilate resta valido solo il consolidamento: la riduzione in qualche forme del debito accumulato.
Anche il consolidamento è impraticabile, ma non in astratto né in perpetuo. La cancelliera Merkel si è opposta all’avvio del consolidamento europeo attraverso l’emissione di Eurobond (il trasferimento parziale dei debiti nazionali in debito europeo), ma questa è l’unica strada valida. L’unica cioè alternativa ai salvataggi dei singoli debiti, che il mercato giustamente non considererà mai definitivi, o accettabili in perpetuo – il salvataggio non è la soluzione del problema. La cancelliera, che affetta di considerare i salvataggi la ricetta giusta, in realtà non ne è convinta - non ha convinto i suoi elettori, non ci ha nemmeno tentato, che non sono i tedeschi che pagano per l’euro forte, ma sono gli altri europei che pagano per un euro tedesco. Bisogna fare la politica dei proprio mezzi, non eccedere in pretese: l’Europa è forse la maggiore area integrata di produzione e consumo (la vecchia “Fortezza Europa”) ma non è la maggiore area economica del mondo, e nemmeno la seconda – e potrebbe non essere a breve nemmeno la terza.
L’altra soluzione, prospettata da Mario Draghi, va nell’eccesso opposto. Draghi propone la “soluzione italiana” del 1992, con se stesso alla direzione generale del Tesoro e Ciampi alla Banca d’Italia: un avanzo primario, nella gestione pubblica, colossale e stabile, in grado di abbattere il debito in una diecina d’anni, mediante forti tagli di spesa e nuove tasse. Un modello che “ucciderebbe” cioè la residua capacità di crescita dell’economia (gli effetti perversi del vincolo debito sono esaminati in dettaglio in “Consolidare il debito”, lo studio in blog il 2 marzo 2009, http://www.antiit.com/2009/03/consolidare-il-debito.html). L’Italia sopravvisse nel 1992 proprio per il presupposto della cura da cavallo che Draghi propone: la svalutazione del 40 per cento della lira, grazie alla quale la macchina continuò a lavorare ancora per l’esportazione. Per un paio d’anni, non di più. Nei diciotto mesi da metà 1995 a fine 1996 si perdettero un milione 750 mila posti di lavoro. La deflazione, senza un taglio netto al debito, si può dire da allora cronica in Italia, con tassi annui di crescita raramente superiori all’1 per cento, e in tre anni perfino negativi.
Delle tre ventilate resta valido solo il consolidamento: la riduzione in qualche forme del debito accumulato.
Vacanze intelligenti, viaggiatore insensibile
Scritti, purtroppo, turistici, quasi tutti, sul genere vacanze intelligenti. Benché in forma di frammenti, con molti bianchi. Lo scrittore di “Donna di Porto Pym” (Azzorre), “Notturno indiano” (India), “Requiem” e “Sostiene Pereira” (Lisbona), non avrà la letteratura di viaggio nelle sue corde. Che è anzitutto disponibilità: Tabucchi, per dire, studioso lusitanista, è insofferente ai tanti segni di pietismo cattolico lasciati dai portoghesi in giro per il mondo, mentre viaggiare è riconoscere gli altri.
Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli, pp.269, € 17,50
Antonio Tabucchi, Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli, pp.269, € 17,50