L’asilo politico a Battisti è anzitutto un problema del Brasile. In secondo luogo di quella sinistra francese che ha patria solo in Italia, a Parigi detta anche sinistra caviale, il cui alfiere è Carla Bruni. Di questa più che di quello. Lula è stato certamente condizionato dai rapporti che i fuoriusciti brasiliani della sua generazione hanno stabilito a Parigi, la capitale che li aveva ospitati, nei lunghi anni dopo il 1963, dal suo ex ministro della giustizia Genro, uomo forte del partito, e da altri. La decisione del presidente brasiliano non è un impegno per la libertà, in neppure minima percentuale, è un caso di glamour. Come dire, Parigi val sempre bene una messa – ma laica, e non molto glamour, dalle muse che si vedono: è una Parigi che fa il verso a se stessa, con qualche italianista confuso(Sollers), qualche furbo miracolato dal pubblico italiano (Pennac, Lévy), e orfani di Mitterrand che disperatamente hanno bisogno di fare notizia, Delanoë, Hollande, Badinter, Guigou.
Per chi in qualche modo è stato vicino agi esuli brasiliani di quarant’anni fa, fossero politici o solo cantanti, è uno sberleffo e, se la questione non fosse una stronzata (l’editore italiano di Battisti e Vargas è il solito Berlusconi), un tradimento. Non può infatti che chiedersi: era il loro esilio di allora comparabile, seppure lontanamente, a quello di Battisti, protetto da Carla Bruni e Vargas? Sarebbe terribile. Non c'è possibilità di fare di Battisti un Raskolnikov, come la Vargas ambirebbe: quello di Dostoevskij uccideva per aver letto dei libri, che non è proprio il caso di Battisti, e dopo tutto alla fine capiva il male commesso.
Considerare Battisti un rifugiato politico è gettare un’ombra sull’asilo politico. Tanto più se si compara lo stato di diritto politico in Brasile con quello che, bene o male, resiste in italia – queste comparazioni sono odiose, ma non bisogna esimersi dalla realtà. Fa male che un paese come il Brasile, grande, complesso, pieno di problemi ma anche di aspettative, sia governato a capriccio, il diritto considerando un fatto di signoria. Qui non c’entra il diritto d’asilo, Battisti è un omicida plurimo con poco o nullo spessore politico, c’entra solo qualche invito all’Eliseo.
Più terribile, e certa, è l’indigenza del giornalismo italiano. E più di quello che si vuole interprete della sinistra italiana, che poi è quello dei grandi giornali, di più nome e maggiore tiratura. Ai quali dobbiamo ammirazione professa per le donne di Parigi, e la chiamata alle armi contro il Brasile. Anzi, contro Berlusconi, che, mangiatore di banane, non ha impedito a Lula il bel gesto. Se non si è venduto Battisti per gli affari di Fiat e Telecom - come se il Brasile fosse una repubblica delle banane.
sabato 1 gennaio 2011
Letture - 48
letterautore
Dante – La “Vita nova” è un romanzetto d’amore, che tanto fervore di fantasie alimenta, quasi una fissazione. Se non sembrasse un’autoedizione commentata dei proprio sonetti, o un compitino per il maestro. È un diario al confessore, una confessione allo psicanalista – entrambi un po’ retori, attenti cioè alla forma, come ogni specialista (scienziato).
Divismo – È tutto falso, l’immagine bella-e-buona e quella cattiva. Le storie di abiezione, quelle dell’infanzia vanno molto, e quelle d’amore e bellezza, le tresche del grande Fratello, le veline con i calciatori, il fidanzamento di George Clooney, mere “sedute” di fotostorie. Marlene Dietrich ne è il prototipo, che ha vissuto una vita, per settanta lunghi anni, del glamour creato da von Strohem e “L’angelo azzurro”, inventandosi di farsi cinque amanti al giorno, oppure di non tollerare il sesso, e una storia d’amore lunga trent’anni con Remarque, che si dichiarava impotente. Giorgio Dell’Arti su “Io Donna” la immortala in uno dei suoi aneddoti recenziori, nell’atto di entrare nello Studio Ovale da John Kennedy, che si denuda e all’uscita le chiede: “Hai mai fatto l’amore con mio padre Joe? Bene, finalmente un posto in cui sono arrivato prima io”. Quando Marlene aveva sessant’anni.
Il mito è tutto falso?
Manzoni – È una consolazione per Emerson, che legge “I Promessi sposi” a Firenze nel 1833: “Aver conosciuto questo moralista così elevato e eloquente è una gioia del tuto inaspettata”. Manzoni è romanziere per non essere confessore, predicatore: “Renzo e Lucia”, continua Emerosn, “Fra Cristoforo e Federico Borromeo, sono tutti personaggi straordinari e – elogio massimo – tutti incitano i lettori alla virtù”.
La Spagna che è mezzo vandala e mezzo araba, coi suoi olè, Allah, a ogni bella ragazza che passa, e ojalà, insh’allah – questa al Manzoni è mancata, nel tanto colore che butta sopra la Spagna.
Il suo catalogo è certo impressionante: mafia, stupro, aborto, anche in convento, gli sciacalli nella peste, la corruzione della giustizia e della religione, morte, puzza, idiozia. Non c’è altro romanzo, gotico, nero, che accumuli così tanta turpitudine. Tanto più per un’anima pia, che si assolve nella Provvidenza, e proprio perché si assolve. Pretendendo che Dio lo ascolti e lo aiuti.
Odissea – È il viaggio del ritorno – della famiglia, della tradizione, dell’ordine. L’avventura è l’“Iliade”, capricciosa, imprevedibile. Odisseo non cerca la sorpresa, la evita (la gode passivamente), la sua spinta è il “nostos”, è l’uomo delle radici, in ogni luogo cerca la sua casa.
Poeta e\o gentiluomo – Voltaire, in visita nel 1726 da Congreve che ammirava, al secondo dei suoi cinque anni di studio Londra, si trovò davanti un vecchio uomo che si schermiva: “Sono solo un gentiluomo”. Al che il futuro filosofo si offese. “Non faccio visita a un mero gentiluomo”, gli fa dire il Dr.Johnson nella “Vita di Boswell”. E: “Fosse stato così a mal partito da ridursi a un mero gentiluomo, non sarei mai andato a vederlo: fui disgustato moltissimo da una tale irragionevole esibizione di vanità”. Ralph Waldo Emerson dice invece: “Un gentiluomo, suppongo, è raro quanto un genio”. È vero che lo dice girando per l’Italia, nel 1833.
Congreve, a 56 anni, era semicieco, tormentato dalla gotta (morirà tre anni dopo), in disgrazia con i critici.
Proust - Anticipa la still motion, il procedimento cinematografico del movimento attraverso la ripetizione dell’immagine. Che diventa ossessiva, quindi significativa, per il semplice fatto della ripetizione – le tette che Andy Warhol mostra palpitanti, su e giù, su e giù, luce e ombra, per una quindicina di minuti portano a immaginare, sopra, sotto, dietro, ogni cosa. La ripetizione dà anche corpo (senso) al tempo lungo.
Due vene ha irresistibili (dominanti): il patetico e il comico. Il molto patetico non può essere che ironico, cioè sarcastico. Ma lo strano è che convivono: Proust non è autocritico. Perché vive il melodramma, la forma originaria del romanzo cioè. Non occupata dalla verosimiglianza, e anzi impegnata, se si potesse dire, a eccedere, contro ogni logica e perfino il buongusto: l’adattamento del meraviglioso (mitico, fiabesco, ….) alle vicende di amore e morte, archetipiche del romanzo. Mme Verdurin che diventa principessa di Guermantes è pura opera – che invera il progetto della “Ricerca”, il matrimonio tra borghesia e nobiltà, patrimonio e genealogia, avere e essere.
Ha il fascino della letteratura. Della vita per la letteratura non solo (tutti gli artisti vivono dell’arte e per l’arte: sono artificiosi), ma della letteratura come mondo ricreato, della sapienza e dell’etica (estetica).
È il primo scrittore senza un filo di divino. Nemmeno come evento sociale. E frequentava le chiese.
Uno scrittore perfettamente secolarizzato, senza residui cioè, ansie nostalgie. Scrive febbrile, programmando anche le pause, per fare prima della morte, senza una smorfia di disgusto, un grano di depressione. Un’incertezza, una caduta di tensione.
Se è qualcuno, fra tutti, della “Ricerca”, è Mlle Vinteuil. Il moralismo della scene lesbica non può che averlo “oggetto” e non “soggetto” – una “scena primordiale” a rovescio, da adulto verso una “figlia” degenere. Sarà alla fine l’amico di Mlle Vinteuil a curarsi di salvare le testimonianze del musicista – dare persistenza all’arte.
Come storia d’amore a “Ricerca” è piuttosto la storia, debole, della morte (la fine, l’impossibilità, l’inconsistenza) dell’amore.
Albertine è probabilmente il personaggio più scritto di tutta la “Ricerca”, occupandone un buon terzo, una buona metà delle “Fanciulle in fiore”, la parte centrale di “Sodoma e Gomorra II”, i capitolo che i curatori dell’edizione 1954 della Pléiade titolano poeticamente “Gelosia nei confronti dl Albertine”, “Le intermittenze del cuore”, “I misteri di Albertine”, e le prime due grandi narrative di “Sodoma e Gomorra III”, “La Prigioniera” e “La Fuggitiva”, o “Albertine scomparsa”. Più, molto più, dei più noti Swann, Odette, Gilberte, e di Verdurin, Saint-Loup, i Guermantes, Charlus compreso. Volendo leggere la “Ricerca” per quello che è, non per come è stata stilizzata dai suoi grandi lettori, è l’ossessione più coltivata. Per questo è odioso doverla immaginare nelle sembianze mostacciute e quadrate di Alfred, lo chauffeur fedifrago: Albertine falsifica tutto. A partire dalla stessa descrizione della gelosia. Mille pagine, o duemila quante sono, di anatomia sul tavolo al centro dell’emiciclo, fredda.
Della sua insensibilità alle cose il tratto più sorprendente è la mancanza di ogni traccia della questione ebraica. Che a Parigi c’era, in ogni minuto evento della vita quotidiana, e nel linguaggio. Negli anni di Dreyfus, dei processi di condanna e di revisione. Da parte del figlio di madre ebrea, amico di ebrei anche praticanti, come Mme Straus. Questione di tatto? Ma i nobili e gli intellettuali c’erano dentro, pro e contro. Compresi alcuni amici intimi di Proust – tra essi Léon Daudet, antisemtita acceso. Mentre il personaggio intellettuale più ambiguamente ridicolo della “Ricerca” ha nome ebraico, Bloch. E la traccia è, più o meno voluta, doppiamente rivelatrice, direbbe Freud, se Bloch è modellato, Come sembra, su un poetastro del filone parnassiano che si distinse per l’antisemitismo, Quillard.
È una causa, o una conseguenza, del rifiuto della madre, dietro il devotissimo attaccamento (l’amore-odio freudiano – anche di Pasolini)? Il padre, apparentemente ignorato, era cattolico e colpevolista. E Proust giovane non legge e non consiglia di leggere che autori della tradizione dell’attualità cattolica. La religione naturalmente non c’entra: i Proust, genitori e figlio, non erano religiosi e non se ne facevano un problema. È un fatto d’identificazione, solo apparentemente sociale, poiché ebree erano molte persone in vista, molto naturalmente accettate, Dreyfus o non Dreyfus, della Terza Repubblica.
Romanticismo – L’idea romantica dell’amore (della storia d’amore) e della donna è opera di donne: “Lettere portoghesi”, D’Aulnoy, Lafayette.
Il canone lo stabilisce la signorina Phillips, anch'essa puro Seicento, di un secolo cioè che non credeva ai sentimenti. Anche se non dell'amore propriamente romantico, ma di quello sentimentale: il sentimentalismo nasce, come dice Oscar Wilde, per mano di Katherine Phillips. Che però non è sola, sono sempre donne a volerlo, da “La principessa di Clèves” a “La signora delle camelie” eccetera – l’autore della “Signora”, Alexandre Dumas figlio,si pregiava del titolo di “femministo”. Le donne che solitamente sono realiste.
Ma, poi, non c’è storia d’amore infelice (romantico vuol dire infelice) che non sia maschile, da Richardson in poi - meno di un secolo dopo Mme de Lafayette. Mentre le “Lettere portoghesi” si rivelano maschili, di Guillerages. Resta da accertare il sesso di D'Aulnoy, Lafayette e Phillips. O la natura ludica dell'amore romantico-sentimentale.
letterautore@antiit.eu
Dante – La “Vita nova” è un romanzetto d’amore, che tanto fervore di fantasie alimenta, quasi una fissazione. Se non sembrasse un’autoedizione commentata dei proprio sonetti, o un compitino per il maestro. È un diario al confessore, una confessione allo psicanalista – entrambi un po’ retori, attenti cioè alla forma, come ogni specialista (scienziato).
Divismo – È tutto falso, l’immagine bella-e-buona e quella cattiva. Le storie di abiezione, quelle dell’infanzia vanno molto, e quelle d’amore e bellezza, le tresche del grande Fratello, le veline con i calciatori, il fidanzamento di George Clooney, mere “sedute” di fotostorie. Marlene Dietrich ne è il prototipo, che ha vissuto una vita, per settanta lunghi anni, del glamour creato da von Strohem e “L’angelo azzurro”, inventandosi di farsi cinque amanti al giorno, oppure di non tollerare il sesso, e una storia d’amore lunga trent’anni con Remarque, che si dichiarava impotente. Giorgio Dell’Arti su “Io Donna” la immortala in uno dei suoi aneddoti recenziori, nell’atto di entrare nello Studio Ovale da John Kennedy, che si denuda e all’uscita le chiede: “Hai mai fatto l’amore con mio padre Joe? Bene, finalmente un posto in cui sono arrivato prima io”. Quando Marlene aveva sessant’anni.
Il mito è tutto falso?
Manzoni – È una consolazione per Emerson, che legge “I Promessi sposi” a Firenze nel 1833: “Aver conosciuto questo moralista così elevato e eloquente è una gioia del tuto inaspettata”. Manzoni è romanziere per non essere confessore, predicatore: “Renzo e Lucia”, continua Emerosn, “Fra Cristoforo e Federico Borromeo, sono tutti personaggi straordinari e – elogio massimo – tutti incitano i lettori alla virtù”.
La Spagna che è mezzo vandala e mezzo araba, coi suoi olè, Allah, a ogni bella ragazza che passa, e ojalà, insh’allah – questa al Manzoni è mancata, nel tanto colore che butta sopra la Spagna.
Il suo catalogo è certo impressionante: mafia, stupro, aborto, anche in convento, gli sciacalli nella peste, la corruzione della giustizia e della religione, morte, puzza, idiozia. Non c’è altro romanzo, gotico, nero, che accumuli così tanta turpitudine. Tanto più per un’anima pia, che si assolve nella Provvidenza, e proprio perché si assolve. Pretendendo che Dio lo ascolti e lo aiuti.
Odissea – È il viaggio del ritorno – della famiglia, della tradizione, dell’ordine. L’avventura è l’“Iliade”, capricciosa, imprevedibile. Odisseo non cerca la sorpresa, la evita (la gode passivamente), la sua spinta è il “nostos”, è l’uomo delle radici, in ogni luogo cerca la sua casa.
Poeta e\o gentiluomo – Voltaire, in visita nel 1726 da Congreve che ammirava, al secondo dei suoi cinque anni di studio Londra, si trovò davanti un vecchio uomo che si schermiva: “Sono solo un gentiluomo”. Al che il futuro filosofo si offese. “Non faccio visita a un mero gentiluomo”, gli fa dire il Dr.Johnson nella “Vita di Boswell”. E: “Fosse stato così a mal partito da ridursi a un mero gentiluomo, non sarei mai andato a vederlo: fui disgustato moltissimo da una tale irragionevole esibizione di vanità”. Ralph Waldo Emerson dice invece: “Un gentiluomo, suppongo, è raro quanto un genio”. È vero che lo dice girando per l’Italia, nel 1833.
Congreve, a 56 anni, era semicieco, tormentato dalla gotta (morirà tre anni dopo), in disgrazia con i critici.
Proust - Anticipa la still motion, il procedimento cinematografico del movimento attraverso la ripetizione dell’immagine. Che diventa ossessiva, quindi significativa, per il semplice fatto della ripetizione – le tette che Andy Warhol mostra palpitanti, su e giù, su e giù, luce e ombra, per una quindicina di minuti portano a immaginare, sopra, sotto, dietro, ogni cosa. La ripetizione dà anche corpo (senso) al tempo lungo.
Due vene ha irresistibili (dominanti): il patetico e il comico. Il molto patetico non può essere che ironico, cioè sarcastico. Ma lo strano è che convivono: Proust non è autocritico. Perché vive il melodramma, la forma originaria del romanzo cioè. Non occupata dalla verosimiglianza, e anzi impegnata, se si potesse dire, a eccedere, contro ogni logica e perfino il buongusto: l’adattamento del meraviglioso (mitico, fiabesco, ….) alle vicende di amore e morte, archetipiche del romanzo. Mme Verdurin che diventa principessa di Guermantes è pura opera – che invera il progetto della “Ricerca”, il matrimonio tra borghesia e nobiltà, patrimonio e genealogia, avere e essere.
Ha il fascino della letteratura. Della vita per la letteratura non solo (tutti gli artisti vivono dell’arte e per l’arte: sono artificiosi), ma della letteratura come mondo ricreato, della sapienza e dell’etica (estetica).
È il primo scrittore senza un filo di divino. Nemmeno come evento sociale. E frequentava le chiese.
Uno scrittore perfettamente secolarizzato, senza residui cioè, ansie nostalgie. Scrive febbrile, programmando anche le pause, per fare prima della morte, senza una smorfia di disgusto, un grano di depressione. Un’incertezza, una caduta di tensione.
Se è qualcuno, fra tutti, della “Ricerca”, è Mlle Vinteuil. Il moralismo della scene lesbica non può che averlo “oggetto” e non “soggetto” – una “scena primordiale” a rovescio, da adulto verso una “figlia” degenere. Sarà alla fine l’amico di Mlle Vinteuil a curarsi di salvare le testimonianze del musicista – dare persistenza all’arte.
Come storia d’amore a “Ricerca” è piuttosto la storia, debole, della morte (la fine, l’impossibilità, l’inconsistenza) dell’amore.
Albertine è probabilmente il personaggio più scritto di tutta la “Ricerca”, occupandone un buon terzo, una buona metà delle “Fanciulle in fiore”, la parte centrale di “Sodoma e Gomorra II”, i capitolo che i curatori dell’edizione 1954 della Pléiade titolano poeticamente “Gelosia nei confronti dl Albertine”, “Le intermittenze del cuore”, “I misteri di Albertine”, e le prime due grandi narrative di “Sodoma e Gomorra III”, “La Prigioniera” e “La Fuggitiva”, o “Albertine scomparsa”. Più, molto più, dei più noti Swann, Odette, Gilberte, e di Verdurin, Saint-Loup, i Guermantes, Charlus compreso. Volendo leggere la “Ricerca” per quello che è, non per come è stata stilizzata dai suoi grandi lettori, è l’ossessione più coltivata. Per questo è odioso doverla immaginare nelle sembianze mostacciute e quadrate di Alfred, lo chauffeur fedifrago: Albertine falsifica tutto. A partire dalla stessa descrizione della gelosia. Mille pagine, o duemila quante sono, di anatomia sul tavolo al centro dell’emiciclo, fredda.
Della sua insensibilità alle cose il tratto più sorprendente è la mancanza di ogni traccia della questione ebraica. Che a Parigi c’era, in ogni minuto evento della vita quotidiana, e nel linguaggio. Negli anni di Dreyfus, dei processi di condanna e di revisione. Da parte del figlio di madre ebrea, amico di ebrei anche praticanti, come Mme Straus. Questione di tatto? Ma i nobili e gli intellettuali c’erano dentro, pro e contro. Compresi alcuni amici intimi di Proust – tra essi Léon Daudet, antisemtita acceso. Mentre il personaggio intellettuale più ambiguamente ridicolo della “Ricerca” ha nome ebraico, Bloch. E la traccia è, più o meno voluta, doppiamente rivelatrice, direbbe Freud, se Bloch è modellato, Come sembra, su un poetastro del filone parnassiano che si distinse per l’antisemitismo, Quillard.
È una causa, o una conseguenza, del rifiuto della madre, dietro il devotissimo attaccamento (l’amore-odio freudiano – anche di Pasolini)? Il padre, apparentemente ignorato, era cattolico e colpevolista. E Proust giovane non legge e non consiglia di leggere che autori della tradizione dell’attualità cattolica. La religione naturalmente non c’entra: i Proust, genitori e figlio, non erano religiosi e non se ne facevano un problema. È un fatto d’identificazione, solo apparentemente sociale, poiché ebree erano molte persone in vista, molto naturalmente accettate, Dreyfus o non Dreyfus, della Terza Repubblica.
Romanticismo – L’idea romantica dell’amore (della storia d’amore) e della donna è opera di donne: “Lettere portoghesi”, D’Aulnoy, Lafayette.
Il canone lo stabilisce la signorina Phillips, anch'essa puro Seicento, di un secolo cioè che non credeva ai sentimenti. Anche se non dell'amore propriamente romantico, ma di quello sentimentale: il sentimentalismo nasce, come dice Oscar Wilde, per mano di Katherine Phillips. Che però non è sola, sono sempre donne a volerlo, da “La principessa di Clèves” a “La signora delle camelie” eccetera – l’autore della “Signora”, Alexandre Dumas figlio,si pregiava del titolo di “femministo”. Le donne che solitamente sono realiste.
Ma, poi, non c’è storia d’amore infelice (romantico vuol dire infelice) che non sia maschile, da Richardson in poi - meno di un secolo dopo Mme de Lafayette. Mentre le “Lettere portoghesi” si rivelano maschili, di Guillerages. Resta da accertare il sesso di D'Aulnoy, Lafayette e Phillips. O la natura ludica dell'amore romantico-sentimentale.
letterautore@antiit.eu
giovedì 30 dicembre 2010
Chi non vuole stragi porti le prove
Nella campagna vibonese una famiglia stermina un’altra. Dopo esserne stata una vita la vittima, di soprusi, prevaricazioni, percosse.
Le denunce regolari di questi soprusi non avevano mai avuto seguito. “Perché non era mai stato fatto il nome dei responsabili”, fanno scrivere i carabinieri e la Procura della Repubblica di Vibo Valentia. No, i responsabili nei paesi li conoscono tutti, quindi anche i giudici e i carabinieri. La colpa dei denuncianti è che non avevano mai “portato le prove” contro gli autori dei soprusi: testimonianze di terzi, per esempio, o la flagranza di reato.
“Siamo all’epoca barbarica”, dice il Procuratore Capo di Vibo Valentia Spagnuolo. Sì, ma chi sono i barbari? Una denuncia penale in Calabria avvia al più un processo “privato”: il denunciante deve provare da solo, in tribunale, i reati che lamenta. Cioè coinvolgere altre persone nei soprusi, le prevaricazioni e le percosse quali testimoni, per condanne che comunque saranno lievissime. Ancora più difficile è tenere i colpevoli con l’ascia in mano o con la tanica di benzina, in attesa che arrivino i carabinieri per redigere il verbale.
L’orrore del Procuratore Spagnuolo nasce da una storia personale, probabilmente - il nome dice che dev’essere nato e cresciuto nei palazzi di Giustizia (figlio di giudice, nipote di giudice?). E dalla Legge, certo. La Legge dice questo, perlomeno in Calabria: chi vuole accusare qualcuno porti le prove. In Calabria il garantismo è ferreo. E anche socialmente impegnato: per i criminali accertati è più ferreo che per gli altri, magari incensurati.
Le denunce regolari di questi soprusi non avevano mai avuto seguito. “Perché non era mai stato fatto il nome dei responsabili”, fanno scrivere i carabinieri e la Procura della Repubblica di Vibo Valentia. No, i responsabili nei paesi li conoscono tutti, quindi anche i giudici e i carabinieri. La colpa dei denuncianti è che non avevano mai “portato le prove” contro gli autori dei soprusi: testimonianze di terzi, per esempio, o la flagranza di reato.
“Siamo all’epoca barbarica”, dice il Procuratore Capo di Vibo Valentia Spagnuolo. Sì, ma chi sono i barbari? Una denuncia penale in Calabria avvia al più un processo “privato”: il denunciante deve provare da solo, in tribunale, i reati che lamenta. Cioè coinvolgere altre persone nei soprusi, le prevaricazioni e le percosse quali testimoni, per condanne che comunque saranno lievissime. Ancora più difficile è tenere i colpevoli con l’ascia in mano o con la tanica di benzina, in attesa che arrivino i carabinieri per redigere il verbale.
L’orrore del Procuratore Spagnuolo nasce da una storia personale, probabilmente - il nome dice che dev’essere nato e cresciuto nei palazzi di Giustizia (figlio di giudice, nipote di giudice?). E dalla Legge, certo. La Legge dice questo, perlomeno in Calabria: chi vuole accusare qualcuno porti le prove. In Calabria il garantismo è ferreo. E anche socialmente impegnato: per i criminali accertati è più ferreo che per gli altri, magari incensurati.
La sindrome del 15 maggio
Il 15 maggio è del 1848. E il luogo è Parigi, ben più risoluto e risolutivo di Roma. Ma la sindrome è la stessa: l’assalto al potere, la sovversione, il colpo di mano, il bignami dell’Ottantanove. Il 23 aprile si era votato a Parigi per l’Assemblea Costituente, per la prima volta al mondo a suffragio universale. I francesi avevano votato entusiasti, l’84 per cento degli aventi diritto, “una percentuale da record che in Francia è rimasta nei secoli ineguagliata”, dice Luciano Canfora nell’inoppugnabile “La democrazia. Storia di un’ideologia” – con qualche approssimazione, “i secoli” essendo solo uno e mezzo (bisogna sempre sperare). Ma non votarono la sinistra, che il suffragio universale aveva voluto: “Di estrazione popolare (furono) solo 26 deputati”, su 900.
Il 15 maggio lo facciamo raccontare allo stesso Canfora: “La Costituente s’insediò il 4 maggio. Il 15 maggio, sotto l’impulso di Blanqui, Raspail, Barbès, gli operai invasero l’Assemblea ma furono scacciati con la forza dalla Guardia Nazionale… Il motivo dell’attacco al Parlamento appena eletto era di pretendere un impegno a restaurare, anche con l’intervento armato, la libertà della Polonia”. Il motivo vero, nella stesa sintassi incerta, era di abbattere il governo. “La scena del 15 maggio era stata rovinosa”, continua Canfora: “Centocinquantamila persone in marcia verso il Parlamento al grido di “Viva la Polonia!”, quando invadono l’Assemblea si trovano a chiedere altro”. A parte il fatto che non c’erano a Parigi centocinquantamila operai, ammesso che fossero tutti a manifestare per la Polonia, è vero: “I capi, Blanqui e Barbès, rivaleggiano in estremismo”, eccetera, e alla fine della giornata non hanno più nessuno al seguito.
Uno sciopero generale per un contratto locale, proclamato da un sindacato di categoria, la Fiom, non è dunque un fatto anomalo. Né lo è la identificazione del potere in un palazzo, il solo peraltro nel quale il popolo può mettere becco. La stesa Fiom ha già tentato l’assalto al Parlamento il 14 dicembre, con i disoccupati napoletani e altre avanguardie. “15 Maggio” può essere ogni giorno, o dovremo dire d’ora in poi “28 gennaio”? O “14 dicembre”? Il problema sarà solo trovare 150 mila “disoccupati napoletani”.
Il 15 maggio lo facciamo raccontare allo stesso Canfora: “La Costituente s’insediò il 4 maggio. Il 15 maggio, sotto l’impulso di Blanqui, Raspail, Barbès, gli operai invasero l’Assemblea ma furono scacciati con la forza dalla Guardia Nazionale… Il motivo dell’attacco al Parlamento appena eletto era di pretendere un impegno a restaurare, anche con l’intervento armato, la libertà della Polonia”. Il motivo vero, nella stesa sintassi incerta, era di abbattere il governo. “La scena del 15 maggio era stata rovinosa”, continua Canfora: “Centocinquantamila persone in marcia verso il Parlamento al grido di “Viva la Polonia!”, quando invadono l’Assemblea si trovano a chiedere altro”. A parte il fatto che non c’erano a Parigi centocinquantamila operai, ammesso che fossero tutti a manifestare per la Polonia, è vero: “I capi, Blanqui e Barbès, rivaleggiano in estremismo”, eccetera, e alla fine della giornata non hanno più nessuno al seguito.
Uno sciopero generale per un contratto locale, proclamato da un sindacato di categoria, la Fiom, non è dunque un fatto anomalo. Né lo è la identificazione del potere in un palazzo, il solo peraltro nel quale il popolo può mettere becco. La stesa Fiom ha già tentato l’assalto al Parlamento il 14 dicembre, con i disoccupati napoletani e altre avanguardie. “15 Maggio” può essere ogni giorno, o dovremo dire d’ora in poi “28 gennaio”? O “14 dicembre”? Il problema sarà solo trovare 150 mila “disoccupati napoletani”.
La democrazia contro il suffragio universale
La democrazia è il suffragio universale. Il suffragio universale non decide niente. La democrazia non è niente. Canfora è qui sillogistico, e il sillogismo è inoppugnabile. Ma è come fare la scoperta dell’Africa, la quale era stata scoperta prima di Gesù Cristo. Ed è falso, ma di questo Canfora non si occupa – il parlamentarismo in effetti è noioso, tutte quelle procedure, i commi, i regolamenti. Il definitivo assunto lo sopraffà che la Colpa è della democrazia: “Si può essere tranquilli nell’affermare che proprio il «terzo soggetto» ha il non piccolo «merito» di avere innescato l’inferno del Novecento”. Il terzo soggetto “sarebbero le cosiddette «democrazie liberali»”, alle quali si devono quindi le guerre, l’Olocausto, l’atomica, le purghe e la pulizia etnica. Ogni tanto fa bene leggere i libri a distanza, ogni libro contiene una dose segreta di divertimento, che subito magari non si percepisce.
“La Democrazia. Storia di un’ideologia” è un libro d’autore. Canfora è un filologo tourné narratore. Che questa dote da qualche tempo vuole applicare alla politica. Come il suo alter ego Arthur Rosenberg degli anni della repubblica di Weimar, da lui celebrato nel “Comunista senza partito”, antichista, storico. Non fosse che la politica non si fa raccontare: troppo immediata, troppo sputtanata (sotto gli occhi di tutti), troppo complicata, se non dallo storico con pinze forti e nervi solidi. Molto è incontestabile: la democrazia della razza bianca, per esempio. Ma che altro, oltre la democrazia? Canfora non lo dice. Sì, la lotta di classe, ma lui la rievoca per riderne: i furiosi assalti dei parigini ai Parlamenti da loro appena eletti, o le forze armate in rivolta nel novembre 1918 in Germania che invocano il rispetto dei regolamenti. Molto invece è contestabile. Gorbačëv compare di striscio. Stalin ricorre molto, ma senza lo stalinismo. Con lunghe tediose tirate di “marxismo volgare”. Che si accettano perché sono state rimproverate (“linguaggio da Germania Democratica”) dai suoi referee tedeschi, ma che avrebbero fatto inorridire Marx - e lo stesso Canfora in altra esegetica, quando spiega “cos’ha voluto dire Tucidide”.
Eccepire non si può: scrittore irriverente, benché filologo acuto, Canfora ama il ruolo di chi dice il re nudo. Qui lo esercita specialmente nei confronti della famosa “democrazia ateniese”. Il prologo è del resto chiaro: è l’apologo di Garibaldi, buon dittatore “sprovvisto di senso politico”, Napoleone, Alessandro Magno, che Rousseau chiude con l’apologia del “potere dispotico”, e a varie riprese di Churchill, altro uomo di polso. Più che una rappresentazione, o una storia, Canfora fa una critica della democrazia, parola e concetto che nascono in greco come “sistema liberticida”, spiega, la forza violenta del popolo – demos è popolo, “kràtos indica appunto la forza nel suo violento esplicarsi”.
Canfora è un eretico che non condanna lo stalinismo. Anzi, da storico, benché improvvisato, lo apprezza e lo vuole rivalutato. Marginalizzato (a un breve scritto sull’istruzione) nel rifacimento della storia greca cui chiamava Arnaldo Momigliano, curata in sette grossi tomi per Einaudi da Salvatore Settis, Canfora la sta riscrivendo da alcuni anni da corsaro con devastanti incursioni sul concetto greco, appunto, di democrazia, connesso alla schiavitù, e alla violenza delle maggioranze. Nonché all’invenzione dei “barbari”. Da cui le equazioni: “Grecia = Europa = libertà\democrazia; Persia = Asia = schiavitù”. Mentre la democrazia è invenzione della corte persiana, e la schiavitù è essenziale alla polis, al cittadino politico. I lettori di Canfora ne sono da tempo edotti. Qui lo schema è riprodotto per dire che a lungo si è perpetuato, fino alla guerra fredda, l’Ovest contro l’Est, o le “due Europe”. Anche se “fino alla conquista araba (640-642 a.C.), dunque un secolo dopo Giustiniano, Grecia, Palestina, Egitto e Balcani sono l’Oriente, l’Europa «orientale»”. Mentre “dall’altro lato del Mediterraneo, all’epoca di Agostino, è l’Africa del Nord la parte più civilizzata dell’Occidente”. I confini tra Est e Ovest insomma sono stati mutevoli – gli arabi, per esempio, tagliando il Mediterraneo in due, hanno dato “corpo (al)l’«Europa di Carlo Magno»”, all’Europa del Nord cioè e a quella del Sud – ma durevoli.
Questo senso della durata o delle ricorrenze Canfora ha forte. Il patto Hitler-Stalin l’aveva già fatto lo zar Alessandro, il futuro padre della Santa Alleanza, con Napoleone: il patto di Tilsit per spartirsi l’Europa – senza, neanche allora, scongiurare l’invasione. Mentre De Gaulle è un altro Luigi Napoleone. Anzi, un Boulanger più fortunato. Robespierre è un repubblicano francese, uno dei tanti, ce ne sono sempre molti, fino a Mendès-France che lo teneva alla parete. E c’è “un riecheggiamento paolino” nella Costituzione sovietica del 1936, un’eco di san Paolo. Il libro si segnala perché all’uscita cinque anni fa suscitò scandalo, essendosi l’editore tedesco Beck rifiutato di pubblicarlo - ma non per queste ricorrenze, o le altre trovate sfiziose di Canfora. Il libro rientra in una collana, Fare l’Europa, diretta da Jacques Le Goff, che cinque editori importanti in Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna, pubblicano in contemporanea. L’editore tedesco lo rifiutò con una serie di contestazioni, che faranno poi l’oggetto della satira di Canfora in “L’occhio di Zeus”, ma sostanzialmente, benché progressista, per apologia dello stalinismo. Il maggiore degli storici tedeschi sentiti dall’editore Beck come referee, Hans-Ulrich Wehler, è arrivato a dire che “nella sua dogmatica stupidità Canfora eccede le produzioni della Germania Democratica negli anni sessanta e settanta”. E questo è vero.
Canfora, che non cita i gulag nemmeno per caso, non cita, è vero, nemmeno il Diamat, il materialismo dialettico di tanti misfatti, beniamino della Germania orientale. Ma non si nasconde. Procede citando Marx e Engels, come nei vecchi libri di storia degli anni 1960-1970. Bolla il suffragio universale “inoffensivo e addomesticabile” fin dal suo primo apparire, con l’Ottantanove. E la democrazia riduce alle “cricche” già al tempo della Belle Époque e del balletto Excelsior. In una delle prime pagine, la 23, dice tutto. Rivendica per l’Afghanistan “l’«illuminismo» autoritario-statale di epoca sovietica”, che “aveva portato i diritti civili alle donne e l’alfabetizzazione coatta, ma fu sconfitto dalla guerriglia di cultura «talebana» armata e pagata dalla Cia”. Irride al ritorno religioso, “perfino Gorbačëv ha riscoperto il culto di Maria”. Denuncia la guerra del Vaticano e degli Usa alla Federazione jugoslava, col ricorso ai “fondamentalisti islamici dall’Arabia Saudita al Sudan al Pakistan – accorsi come «volontari», con armi americane, a sostegno della Bosnia, e subito dopo dell’Uck kosovaro. Evoca il ritorno del “razzismo soft” degli antichi greci contro i barbari “sotto la sconcertante formula «(es)portare la democrazia»”. Sempre disinvolto, a suo garbo. Gli inglesi fa “subentrare ai nazisti nella lotta contro i partigiani greci”. E della Polonia solo ricorda con gusto che Stalin ne diceva: “Un paese non è necessariamente innocente solo perché è piccolo”. Commentando, senza più: “Le recenti rivelazioni sul furioso antisemitismo dei Polacchi durante l’occupazione nazista sembrano confermare l’amara diagnosi”. Qui ricorre Glemp, il cardinale, per chiedere perdono, e basta: niente Giovanni Paolo II, Solidarnosc’, Jaruzelski. Pierre Mendès-France si segnala per essere “ebreo e «giacobino» sentimentalmente”. Mentre Maurice Duverger, il costituzionalista francese, è insolentito per molte pagine, senza motivo – Duverger è stato eletto al Parlamento europeo nel 1989 dal Pci, mentre Canfora dieci anni più tardi, candidato del Pdci, non è stato eletto, ma questa differenza di esiti non è ragione sufficiente. Che dirne: oltre che della celebrata leggerezza, un elogio dovrebbe essere possibile della superficialità, perché no.
A ragione sarcastico sulla retorica che ci governa, Canfora è per ciò stesso cinico. O allora da Grande Fratello, all’insolenza che ci governa dalla tv opponendo altrettante cazzate. Il contrario quindi dello staliniano, anche se forse gli dispiacerebbe. Il suo è un sberleffo pure a Marx – a Engels meno che a Marx. Involontario? Canfora, sempre appassionato di Togliatti, è stuzzicato anche dalle mediocrità di Gramsci, logiche e filologiche. Né nasconde il metodo, che anzi celebra rifacendosi a Marx, “Le lotte di classe in Francia” e “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”: “Come ogni grande storico che tratti di materia contemporanea, bruciante, Marx è profondamente coinvolto e non lesina l’arma del sarcasmo: tutto è fuorché un olimpico narratore e al tempo stesso dimostra una conoscenza minuziosa dei fatti, delle polemiche, della pubblicistica e degli contri parlamentari”. Tutto peraltro vero, se non che Marx obietterebbe, per quanto immodesto, alla qualifica di “grande storico”.
Cosa resta? È un libro di storia delle idee, anche se non appassionante come altri di Canfora, e un libro d’autore, umorale, passabilmente informato ma “tagliato”, del tutto fuori del cerchiobottismo del millennio. Il peggio – il meglio? – del libro è che uno scrittore irriverente come Canfora sia approdato al sovietismo, uno che ha demolito tanti orpelli della classicità, compresa la democrazia in Atene, che rispolvera la lotta di classe contro il suffragio universale. Un libro dunque benemerito, ma non un trattato. E un caso, anche appariscente, come i vecchi Libretti Rossi d’antiquariato a Pechino, di editoria bolscevica: falsa cioè, bugiarda, violenta. Tanto più in quanto si pretende antisovietica. Opportunista più che colpevole, poiché evidentemente ha un mercato. Non di autore opportunista, non Canfora né Le Goff, ma di un certo modo di fare cultura, il mercato della cultura (ma è l’opinione: l’opinione pubblica), col linguaggio della Terza Internazionale, che Canfora critica ma di cui adotta gli strumenti, del Cominform già Comintern. Offrendo un caso ormai raro di prosa anni Sessanta, tra Breznev e la contestazione, o dell’intelligenza radicale a uso del sovietismo: lo smascheramento münzenberghiano. Di cui ripete gli stilemi come da manuale: le contraddizioni, la democrazia avanzata, le società capitalistiche, le democrazie capitalistiche, i condizionali, i “cosiddetti”, le virgolette allusive – Rosenberg non le avrebbe usate: una cosa è, oppure non è. L'Europa ne esce come nel primo terzomondismo, anni 1950-1960, malata di etnocentrismo, malata - l'Europa e non altri.
È dunque un libro sorprendente. Ma senza il richiamo della nostalgia, anzi duramente conservatore, nel senso della realpolitik, contro il liberalismo in tutte le sue forme e il suffragio universale. Forse, effettivamente, Canfora non sa di essere modello Comintern, attardato. Willi Münzenberg, il capo della propaganda del Comintern, è del resto il vero leader del Novecento europeo, che da solo vale più di Madison Avenue e tutta l’industria della persuasione occulta: inventore di un linguaggio e costruttore di una forma mentis come si vede intramontabili, inossidabili, indistruttibili, più forti pure del geniaccio di Canfora. Willi che fece una filosofia e un’arte della doppiezza leninista, della faziosità cioè, del mascheramento, unicamente interessato al potere, duro, esclusivo, alla sua dottrina e prassi, invece che alla giustizia e all’interesse comune.
L'Opera dei pupi al “Corriere della sera”
La polemica invece è sgraziata, anzi sguaiata, “L’Occhio di Zeus” è un pamphlet cattivo e un cattivo pamphlet. In Francia e in Gran Bretagna il libro non ha fatto storia – l’editore inglese Blackwell ha semplificato la questione col semplice cambio del titolo, in “Democracy in Europe: a history”. La Germania non è rimasta molto scossa dal rifiuto di Beck, editore progressista, di pubblicare “La democrazia” di Canfora. Qualcuno ha ricordato che a un altro libro della stesa collana, quello della storica tedesca Gisela Bock sulla storia delle donne, era stata rifiutata la pubblicazione in Francia da Seuil, editore altrettanto progressista che Beck a Monaco. Gli editori tedeschi subentrati a Beck hanno glissato sulle polemiche, forti peraltro del successo immediato di pubblico. Oskar Lafontaine, il leader della Nuova Sinistra, nella postfazione alla quarta edizione non sembra entusiasta. Si limita a ripetere, con Canfora, Tucidide e Pericle, che la democrazia non c’era ad Atene perché c’era la schiavitù. Criticando per il resto chi, in Germania, nel 2007, voleva portare l’età della pensione a 67 anni, e non si occupava di ridurre la disoccupazione di massa – mentre si trattava di scelte politiche, nel quadro della democrazia, che per di più già dopo due anni si dimostrano azzeccate. E tuttavia, così vanno le cose, se il libro ha dovuto attendere due anni per essere pubblicato da altro editore, benché la traduzione fosse già pronta, “L’Occhio di Zeus” è stato tradotto e pubblicato quasi all’impronta. È che il pamphlet coronava un Historikerstreit all’italiana, pieno di querimonie e contumelie, senza reali “questioni storiografiche” – insomma sapido, o ciò che ci si attende “dall’Italia”, direbbe lo stesso Canfora.
A metà novembre 2005, all’annuncio del rifiuto di Beck di pubblicare “La democrazia”, il “Corriere della sera” di Paolo Mieli aveva sollevato con continuità, e con molti interlocutori, il caso. Canfora aveva ribattuto a ogni puntata, bollando variamente i suoi critici, sempre nel più puro stile Terza Internazionale – che non sia una dimensione dello spirito, forse Willi Münzenberg non ha inventato nulla? Al caporedattore di Beck, Detlef Felken, che il 18 novembre lo accusa di avere minimizzato i crimini di Stalin, Canfora oppone: “Ma Adenauer fu revanscista”. Al mite Viktor Zaslavsky, storico di Katyn, nonché di varie turpitudini di Stalin, oppone il 23 novembre “Der geplante Tod” di Bacque - gliela oppone in tedesco, “La morte pianificata”, e non nell’originale, “Altre perdite”, o nella traduzione italiana, “Gli altri lager”: pianificato sarebbe stato, scrive Canfora, “l’annientamento da parte Usa di centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi” a guerra finita.
A conclusione del dibattito, il 26 novembre, Canfora accusa chi lo critica di avere “i nervi scoperti”, cioè di essere in qualche modo un fascista. Con Mieli, si suppone, che tenta di rimediare con la grafica, Adenauer rappresentando con Kennedy nel 1963, e Molotov e le truppe sovietiche nel 1939 con i nazisti. Una sorta di Opera dei pupi, benché si sia svolta sul serioso e maggiore quotidiano italiano. A Palermo il signor Cuticchio fa recitare l'Opera dei pupi a un gruppo di sodali marionette, che ormai sanno tutto l'uno dell'altra dopo generazioni di vita insieme, ma quando sono in scena se ne dicono e se ne fanno di tutti i colori, per poi tornarsene tranquille in deposito. Se non che, nel caso, si tratta di opera di storia. Anche Canfora, ora che non c'è più il Muro, fa fgura di giapponese perduto nella giungla, non antipatico, non facesse opera di storico.
A poche settimane dalle bastonature reciproche fra i collaboratori di Mieli, a marzo del 2006, Canfora pubblica un gustoso pamphlet, “L’occhio di Zeus”, in sui si diverte a demolire Detlef Felken, il capo redattore di Beck. Che non gli contesta, è vero, l’impostazione del saggio, ma una ventina d’imprecisioni o errori. E qui crolla lo Historikerstreit, nella volgarità cioè. Canfora addebita metà delle contestazioni alla traduzione tedesca – alla quale pure ha collaborato. E per metà all’invidia del redattore capo, “autore di un solo libro”, e al suo consulente principale, Hans-Ulrich Wehler, che pure è storico stimato della Scuola di Bielefeld, che ha avviato con Reinhart Koselleck, della storia centrata sugli eventi socio-culturali più che su quelli politici, oltre che socialista. Quali fonti autorevoli sulla “Pace di Yalta”, che i cinque gli contestano (“Non c’è una pace di Yalta”), Canfora può addurre un programma di “History Channel”, per abbonati di Murdoch, e Vittorio Zucconi, il giornalista di “Repubblica” che ha lasciato il Msi per l’ex Pci.
A uno dei suo critici sul “Corriere della sera” Canfora si era rivolto, nella replica finale, senza nominarlo secondo la vecchia prassi delle cellule di partito, come a “un giovane studioso che collabora ogni tanto a questo giornale”. È Luzzatto. “Uno scrutinio sistematico non solo dei libri di Canfora, ma dei testi e dei discorsi di tanta parte del’intellighenzia ex, post o neocomunista, rivelerebbe qualcosa come un negazionismo all’italiana: il desolante spettacolo di una sinistra culturale che continua a minimizzare i crimini del comunismo”, aveva scritto il 24 novembre Sergio Luzzatto – che dopo qualche mese dovrà lasciare la collaborazione al “Corriere della sera”. Ma è subito dopo la replica di Canfora che il giornale già corregge il tiro: se ne incarica il liberale Pierluigi Battista. Che il 28 novembre elenca tutti i casi in cui l’Occidente dà ragione a Canfora: la condanna di Matvejevic in Croazia, l’arresto di Pahmuk in Turchia, il negazionismo di Irving. Introducendo l’argomento con l’autorità di Cioran: “Aveva ragione Cioran a sostenere che la tolleranza liberale ha un che di irrimediabilmente sangue”. Irrimediabilmente forse no, ma sì in questa cultura, post, ex e neobrezneviana. Robert Conquest, lo storico inglese autore nel 1968 dell’opera definitiva (non contestata) sulle purghe staliniane, “Il grande terrore”, lamenterà il 5 dicembre sul “Wall Street Journal”: “Alcune voci in Italia si sono sentite in difesa di questo libro, un triste paradosso quando si ricordi che la sinistra italiana, e perfino i comunisti italiani, furono tra i primi denuncianti dello stalinismo negli anni 1960”.
La ”morte pianificata” di Canfora nasce da un errore di James Bacque, il romanziere canadese che ne è l’autore. Partito dalla dizione “altre perdite” delle relazioni militari Usa all’indomani della guerra, Bacque si accorse una trentina d’anni fa che essa si applicava ai prigionieri di guerra. E che questi prigionieri erano stati declassati a Disarmed Enemy Forces, sul presupposto che si erano arresi dopo l’armistizio, ma nell’intento di privarli del trattamento di miglior favore che le convenzioni di Ginevra prevedono per i prigionieri, e quindi di nutrirli e curarli non come le forze armate americane ma come i civili dei paesi dove erano confinati, la Germania, l’Austria. Dopodiché desunse che “altre perdite” significava prigionieri deceduti per malattia o per fame. E calcolò queste perdite, sulla base di uno specifico rapporto di un campo, in un terzo dei prigionieri o Def. Un terzo del totale dei prigionieri o Def ammontava, calcolò, a 800.000-1.000.000 di “altre perdite”. Ma non è vero, ormai è accertato che gli americani non lasciarono morire fra 800 mila e un milione di soldati prigionieri.
Germania e Austria furono alla fame, per un anno dopo la fine della guerra, e nella confusione, anche perché pieni di profughi dall’Est, tra essi molti prigionieri-Def, che preferivano arrendersi all’Ovest, soprattutto i collaborazionisti dei paesi occupati. Eisenhower si trovò, già a metà 1945, a dover nutrire 17 milioni di profughi, tra i quali incluse i prigionieri-Def, e autorizzò per tutti la razione ridotta di 1.550 calorie al giorno. Molti quindi non ressero, specie all’inverno. Bacque arriva al milione di “altre perdite” attraverso un errore di valutazione e uno di fatto. Questo è un errore di battitura, un 3 per cento diventato 30 per cento. L’errore di valutazione è nella testimonianza di un colonnello ultranovantenne, che non si ricordava bene cosa volesse dire “altre perdite”. Erano le “perdite” che i comandanti registravano principalmente per trasferimenti ad altri campi, i prigionieri erano contesi per il lavoro forzato, oppure liberati senza incriminazione, tra essi tutta la Milizia Popolare, 664 mila vecchi e adolescenti, due terzi del “milione mancante” di Bacque. Un autogoal? A Canfora non interessa sapere se gli americani hanno lasciato morire un milione di tedeschi, oppure diecimila. Il fascismo, giustamente, è uno.
Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia
L’occhio di Zeus
“La Democrazia. Storia di un’ideologia” è un libro d’autore. Canfora è un filologo tourné narratore. Che questa dote da qualche tempo vuole applicare alla politica. Come il suo alter ego Arthur Rosenberg degli anni della repubblica di Weimar, da lui celebrato nel “Comunista senza partito”, antichista, storico. Non fosse che la politica non si fa raccontare: troppo immediata, troppo sputtanata (sotto gli occhi di tutti), troppo complicata, se non dallo storico con pinze forti e nervi solidi. Molto è incontestabile: la democrazia della razza bianca, per esempio. Ma che altro, oltre la democrazia? Canfora non lo dice. Sì, la lotta di classe, ma lui la rievoca per riderne: i furiosi assalti dei parigini ai Parlamenti da loro appena eletti, o le forze armate in rivolta nel novembre 1918 in Germania che invocano il rispetto dei regolamenti. Molto invece è contestabile. Gorbačëv compare di striscio. Stalin ricorre molto, ma senza lo stalinismo. Con lunghe tediose tirate di “marxismo volgare”. Che si accettano perché sono state rimproverate (“linguaggio da Germania Democratica”) dai suoi referee tedeschi, ma che avrebbero fatto inorridire Marx - e lo stesso Canfora in altra esegetica, quando spiega “cos’ha voluto dire Tucidide”.
Eccepire non si può: scrittore irriverente, benché filologo acuto, Canfora ama il ruolo di chi dice il re nudo. Qui lo esercita specialmente nei confronti della famosa “democrazia ateniese”. Il prologo è del resto chiaro: è l’apologo di Garibaldi, buon dittatore “sprovvisto di senso politico”, Napoleone, Alessandro Magno, che Rousseau chiude con l’apologia del “potere dispotico”, e a varie riprese di Churchill, altro uomo di polso. Più che una rappresentazione, o una storia, Canfora fa una critica della democrazia, parola e concetto che nascono in greco come “sistema liberticida”, spiega, la forza violenta del popolo – demos è popolo, “kràtos indica appunto la forza nel suo violento esplicarsi”.
Canfora è un eretico che non condanna lo stalinismo. Anzi, da storico, benché improvvisato, lo apprezza e lo vuole rivalutato. Marginalizzato (a un breve scritto sull’istruzione) nel rifacimento della storia greca cui chiamava Arnaldo Momigliano, curata in sette grossi tomi per Einaudi da Salvatore Settis, Canfora la sta riscrivendo da alcuni anni da corsaro con devastanti incursioni sul concetto greco, appunto, di democrazia, connesso alla schiavitù, e alla violenza delle maggioranze. Nonché all’invenzione dei “barbari”. Da cui le equazioni: “Grecia = Europa = libertà\democrazia; Persia = Asia = schiavitù”. Mentre la democrazia è invenzione della corte persiana, e la schiavitù è essenziale alla polis, al cittadino politico. I lettori di Canfora ne sono da tempo edotti. Qui lo schema è riprodotto per dire che a lungo si è perpetuato, fino alla guerra fredda, l’Ovest contro l’Est, o le “due Europe”. Anche se “fino alla conquista araba (640-642 a.C.), dunque un secolo dopo Giustiniano, Grecia, Palestina, Egitto e Balcani sono l’Oriente, l’Europa «orientale»”. Mentre “dall’altro lato del Mediterraneo, all’epoca di Agostino, è l’Africa del Nord la parte più civilizzata dell’Occidente”. I confini tra Est e Ovest insomma sono stati mutevoli – gli arabi, per esempio, tagliando il Mediterraneo in due, hanno dato “corpo (al)l’«Europa di Carlo Magno»”, all’Europa del Nord cioè e a quella del Sud – ma durevoli.
Questo senso della durata o delle ricorrenze Canfora ha forte. Il patto Hitler-Stalin l’aveva già fatto lo zar Alessandro, il futuro padre della Santa Alleanza, con Napoleone: il patto di Tilsit per spartirsi l’Europa – senza, neanche allora, scongiurare l’invasione. Mentre De Gaulle è un altro Luigi Napoleone. Anzi, un Boulanger più fortunato. Robespierre è un repubblicano francese, uno dei tanti, ce ne sono sempre molti, fino a Mendès-France che lo teneva alla parete. E c’è “un riecheggiamento paolino” nella Costituzione sovietica del 1936, un’eco di san Paolo. Il libro si segnala perché all’uscita cinque anni fa suscitò scandalo, essendosi l’editore tedesco Beck rifiutato di pubblicarlo - ma non per queste ricorrenze, o le altre trovate sfiziose di Canfora. Il libro rientra in una collana, Fare l’Europa, diretta da Jacques Le Goff, che cinque editori importanti in Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna, pubblicano in contemporanea. L’editore tedesco lo rifiutò con una serie di contestazioni, che faranno poi l’oggetto della satira di Canfora in “L’occhio di Zeus”, ma sostanzialmente, benché progressista, per apologia dello stalinismo. Il maggiore degli storici tedeschi sentiti dall’editore Beck come referee, Hans-Ulrich Wehler, è arrivato a dire che “nella sua dogmatica stupidità Canfora eccede le produzioni della Germania Democratica negli anni sessanta e settanta”. E questo è vero.
Canfora, che non cita i gulag nemmeno per caso, non cita, è vero, nemmeno il Diamat, il materialismo dialettico di tanti misfatti, beniamino della Germania orientale. Ma non si nasconde. Procede citando Marx e Engels, come nei vecchi libri di storia degli anni 1960-1970. Bolla il suffragio universale “inoffensivo e addomesticabile” fin dal suo primo apparire, con l’Ottantanove. E la democrazia riduce alle “cricche” già al tempo della Belle Époque e del balletto Excelsior. In una delle prime pagine, la 23, dice tutto. Rivendica per l’Afghanistan “l’«illuminismo» autoritario-statale di epoca sovietica”, che “aveva portato i diritti civili alle donne e l’alfabetizzazione coatta, ma fu sconfitto dalla guerriglia di cultura «talebana» armata e pagata dalla Cia”. Irride al ritorno religioso, “perfino Gorbačëv ha riscoperto il culto di Maria”. Denuncia la guerra del Vaticano e degli Usa alla Federazione jugoslava, col ricorso ai “fondamentalisti islamici dall’Arabia Saudita al Sudan al Pakistan – accorsi come «volontari», con armi americane, a sostegno della Bosnia, e subito dopo dell’Uck kosovaro. Evoca il ritorno del “razzismo soft” degli antichi greci contro i barbari “sotto la sconcertante formula «(es)portare la democrazia»”. Sempre disinvolto, a suo garbo. Gli inglesi fa “subentrare ai nazisti nella lotta contro i partigiani greci”. E della Polonia solo ricorda con gusto che Stalin ne diceva: “Un paese non è necessariamente innocente solo perché è piccolo”. Commentando, senza più: “Le recenti rivelazioni sul furioso antisemitismo dei Polacchi durante l’occupazione nazista sembrano confermare l’amara diagnosi”. Qui ricorre Glemp, il cardinale, per chiedere perdono, e basta: niente Giovanni Paolo II, Solidarnosc’, Jaruzelski. Pierre Mendès-France si segnala per essere “ebreo e «giacobino» sentimentalmente”. Mentre Maurice Duverger, il costituzionalista francese, è insolentito per molte pagine, senza motivo – Duverger è stato eletto al Parlamento europeo nel 1989 dal Pci, mentre Canfora dieci anni più tardi, candidato del Pdci, non è stato eletto, ma questa differenza di esiti non è ragione sufficiente. Che dirne: oltre che della celebrata leggerezza, un elogio dovrebbe essere possibile della superficialità, perché no.
A ragione sarcastico sulla retorica che ci governa, Canfora è per ciò stesso cinico. O allora da Grande Fratello, all’insolenza che ci governa dalla tv opponendo altrettante cazzate. Il contrario quindi dello staliniano, anche se forse gli dispiacerebbe. Il suo è un sberleffo pure a Marx – a Engels meno che a Marx. Involontario? Canfora, sempre appassionato di Togliatti, è stuzzicato anche dalle mediocrità di Gramsci, logiche e filologiche. Né nasconde il metodo, che anzi celebra rifacendosi a Marx, “Le lotte di classe in Francia” e “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”: “Come ogni grande storico che tratti di materia contemporanea, bruciante, Marx è profondamente coinvolto e non lesina l’arma del sarcasmo: tutto è fuorché un olimpico narratore e al tempo stesso dimostra una conoscenza minuziosa dei fatti, delle polemiche, della pubblicistica e degli contri parlamentari”. Tutto peraltro vero, se non che Marx obietterebbe, per quanto immodesto, alla qualifica di “grande storico”.
Cosa resta? È un libro di storia delle idee, anche se non appassionante come altri di Canfora, e un libro d’autore, umorale, passabilmente informato ma “tagliato”, del tutto fuori del cerchiobottismo del millennio. Il peggio – il meglio? – del libro è che uno scrittore irriverente come Canfora sia approdato al sovietismo, uno che ha demolito tanti orpelli della classicità, compresa la democrazia in Atene, che rispolvera la lotta di classe contro il suffragio universale. Un libro dunque benemerito, ma non un trattato. E un caso, anche appariscente, come i vecchi Libretti Rossi d’antiquariato a Pechino, di editoria bolscevica: falsa cioè, bugiarda, violenta. Tanto più in quanto si pretende antisovietica. Opportunista più che colpevole, poiché evidentemente ha un mercato. Non di autore opportunista, non Canfora né Le Goff, ma di un certo modo di fare cultura, il mercato della cultura (ma è l’opinione: l’opinione pubblica), col linguaggio della Terza Internazionale, che Canfora critica ma di cui adotta gli strumenti, del Cominform già Comintern. Offrendo un caso ormai raro di prosa anni Sessanta, tra Breznev e la contestazione, o dell’intelligenza radicale a uso del sovietismo: lo smascheramento münzenberghiano. Di cui ripete gli stilemi come da manuale: le contraddizioni, la democrazia avanzata, le società capitalistiche, le democrazie capitalistiche, i condizionali, i “cosiddetti”, le virgolette allusive – Rosenberg non le avrebbe usate: una cosa è, oppure non è. L'Europa ne esce come nel primo terzomondismo, anni 1950-1960, malata di etnocentrismo, malata - l'Europa e non altri.
È dunque un libro sorprendente. Ma senza il richiamo della nostalgia, anzi duramente conservatore, nel senso della realpolitik, contro il liberalismo in tutte le sue forme e il suffragio universale. Forse, effettivamente, Canfora non sa di essere modello Comintern, attardato. Willi Münzenberg, il capo della propaganda del Comintern, è del resto il vero leader del Novecento europeo, che da solo vale più di Madison Avenue e tutta l’industria della persuasione occulta: inventore di un linguaggio e costruttore di una forma mentis come si vede intramontabili, inossidabili, indistruttibili, più forti pure del geniaccio di Canfora. Willi che fece una filosofia e un’arte della doppiezza leninista, della faziosità cioè, del mascheramento, unicamente interessato al potere, duro, esclusivo, alla sua dottrina e prassi, invece che alla giustizia e all’interesse comune.
L'Opera dei pupi al “Corriere della sera”
La polemica invece è sgraziata, anzi sguaiata, “L’Occhio di Zeus” è un pamphlet cattivo e un cattivo pamphlet. In Francia e in Gran Bretagna il libro non ha fatto storia – l’editore inglese Blackwell ha semplificato la questione col semplice cambio del titolo, in “Democracy in Europe: a history”. La Germania non è rimasta molto scossa dal rifiuto di Beck, editore progressista, di pubblicare “La democrazia” di Canfora. Qualcuno ha ricordato che a un altro libro della stesa collana, quello della storica tedesca Gisela Bock sulla storia delle donne, era stata rifiutata la pubblicazione in Francia da Seuil, editore altrettanto progressista che Beck a Monaco. Gli editori tedeschi subentrati a Beck hanno glissato sulle polemiche, forti peraltro del successo immediato di pubblico. Oskar Lafontaine, il leader della Nuova Sinistra, nella postfazione alla quarta edizione non sembra entusiasta. Si limita a ripetere, con Canfora, Tucidide e Pericle, che la democrazia non c’era ad Atene perché c’era la schiavitù. Criticando per il resto chi, in Germania, nel 2007, voleva portare l’età della pensione a 67 anni, e non si occupava di ridurre la disoccupazione di massa – mentre si trattava di scelte politiche, nel quadro della democrazia, che per di più già dopo due anni si dimostrano azzeccate. E tuttavia, così vanno le cose, se il libro ha dovuto attendere due anni per essere pubblicato da altro editore, benché la traduzione fosse già pronta, “L’Occhio di Zeus” è stato tradotto e pubblicato quasi all’impronta. È che il pamphlet coronava un Historikerstreit all’italiana, pieno di querimonie e contumelie, senza reali “questioni storiografiche” – insomma sapido, o ciò che ci si attende “dall’Italia”, direbbe lo stesso Canfora.
A metà novembre 2005, all’annuncio del rifiuto di Beck di pubblicare “La democrazia”, il “Corriere della sera” di Paolo Mieli aveva sollevato con continuità, e con molti interlocutori, il caso. Canfora aveva ribattuto a ogni puntata, bollando variamente i suoi critici, sempre nel più puro stile Terza Internazionale – che non sia una dimensione dello spirito, forse Willi Münzenberg non ha inventato nulla? Al caporedattore di Beck, Detlef Felken, che il 18 novembre lo accusa di avere minimizzato i crimini di Stalin, Canfora oppone: “Ma Adenauer fu revanscista”. Al mite Viktor Zaslavsky, storico di Katyn, nonché di varie turpitudini di Stalin, oppone il 23 novembre “Der geplante Tod” di Bacque - gliela oppone in tedesco, “La morte pianificata”, e non nell’originale, “Altre perdite”, o nella traduzione italiana, “Gli altri lager”: pianificato sarebbe stato, scrive Canfora, “l’annientamento da parte Usa di centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi” a guerra finita.
A conclusione del dibattito, il 26 novembre, Canfora accusa chi lo critica di avere “i nervi scoperti”, cioè di essere in qualche modo un fascista. Con Mieli, si suppone, che tenta di rimediare con la grafica, Adenauer rappresentando con Kennedy nel 1963, e Molotov e le truppe sovietiche nel 1939 con i nazisti. Una sorta di Opera dei pupi, benché si sia svolta sul serioso e maggiore quotidiano italiano. A Palermo il signor Cuticchio fa recitare l'Opera dei pupi a un gruppo di sodali marionette, che ormai sanno tutto l'uno dell'altra dopo generazioni di vita insieme, ma quando sono in scena se ne dicono e se ne fanno di tutti i colori, per poi tornarsene tranquille in deposito. Se non che, nel caso, si tratta di opera di storia. Anche Canfora, ora che non c'è più il Muro, fa fgura di giapponese perduto nella giungla, non antipatico, non facesse opera di storico.
A poche settimane dalle bastonature reciproche fra i collaboratori di Mieli, a marzo del 2006, Canfora pubblica un gustoso pamphlet, “L’occhio di Zeus”, in sui si diverte a demolire Detlef Felken, il capo redattore di Beck. Che non gli contesta, è vero, l’impostazione del saggio, ma una ventina d’imprecisioni o errori. E qui crolla lo Historikerstreit, nella volgarità cioè. Canfora addebita metà delle contestazioni alla traduzione tedesca – alla quale pure ha collaborato. E per metà all’invidia del redattore capo, “autore di un solo libro”, e al suo consulente principale, Hans-Ulrich Wehler, che pure è storico stimato della Scuola di Bielefeld, che ha avviato con Reinhart Koselleck, della storia centrata sugli eventi socio-culturali più che su quelli politici, oltre che socialista. Quali fonti autorevoli sulla “Pace di Yalta”, che i cinque gli contestano (“Non c’è una pace di Yalta”), Canfora può addurre un programma di “History Channel”, per abbonati di Murdoch, e Vittorio Zucconi, il giornalista di “Repubblica” che ha lasciato il Msi per l’ex Pci.
A uno dei suo critici sul “Corriere della sera” Canfora si era rivolto, nella replica finale, senza nominarlo secondo la vecchia prassi delle cellule di partito, come a “un giovane studioso che collabora ogni tanto a questo giornale”. È Luzzatto. “Uno scrutinio sistematico non solo dei libri di Canfora, ma dei testi e dei discorsi di tanta parte del’intellighenzia ex, post o neocomunista, rivelerebbe qualcosa come un negazionismo all’italiana: il desolante spettacolo di una sinistra culturale che continua a minimizzare i crimini del comunismo”, aveva scritto il 24 novembre Sergio Luzzatto – che dopo qualche mese dovrà lasciare la collaborazione al “Corriere della sera”. Ma è subito dopo la replica di Canfora che il giornale già corregge il tiro: se ne incarica il liberale Pierluigi Battista. Che il 28 novembre elenca tutti i casi in cui l’Occidente dà ragione a Canfora: la condanna di Matvejevic in Croazia, l’arresto di Pahmuk in Turchia, il negazionismo di Irving. Introducendo l’argomento con l’autorità di Cioran: “Aveva ragione Cioran a sostenere che la tolleranza liberale ha un che di irrimediabilmente sangue”. Irrimediabilmente forse no, ma sì in questa cultura, post, ex e neobrezneviana. Robert Conquest, lo storico inglese autore nel 1968 dell’opera definitiva (non contestata) sulle purghe staliniane, “Il grande terrore”, lamenterà il 5 dicembre sul “Wall Street Journal”: “Alcune voci in Italia si sono sentite in difesa di questo libro, un triste paradosso quando si ricordi che la sinistra italiana, e perfino i comunisti italiani, furono tra i primi denuncianti dello stalinismo negli anni 1960”.
La ”morte pianificata” di Canfora nasce da un errore di James Bacque, il romanziere canadese che ne è l’autore. Partito dalla dizione “altre perdite” delle relazioni militari Usa all’indomani della guerra, Bacque si accorse una trentina d’anni fa che essa si applicava ai prigionieri di guerra. E che questi prigionieri erano stati declassati a Disarmed Enemy Forces, sul presupposto che si erano arresi dopo l’armistizio, ma nell’intento di privarli del trattamento di miglior favore che le convenzioni di Ginevra prevedono per i prigionieri, e quindi di nutrirli e curarli non come le forze armate americane ma come i civili dei paesi dove erano confinati, la Germania, l’Austria. Dopodiché desunse che “altre perdite” significava prigionieri deceduti per malattia o per fame. E calcolò queste perdite, sulla base di uno specifico rapporto di un campo, in un terzo dei prigionieri o Def. Un terzo del totale dei prigionieri o Def ammontava, calcolò, a 800.000-1.000.000 di “altre perdite”. Ma non è vero, ormai è accertato che gli americani non lasciarono morire fra 800 mila e un milione di soldati prigionieri.
Germania e Austria furono alla fame, per un anno dopo la fine della guerra, e nella confusione, anche perché pieni di profughi dall’Est, tra essi molti prigionieri-Def, che preferivano arrendersi all’Ovest, soprattutto i collaborazionisti dei paesi occupati. Eisenhower si trovò, già a metà 1945, a dover nutrire 17 milioni di profughi, tra i quali incluse i prigionieri-Def, e autorizzò per tutti la razione ridotta di 1.550 calorie al giorno. Molti quindi non ressero, specie all’inverno. Bacque arriva al milione di “altre perdite” attraverso un errore di valutazione e uno di fatto. Questo è un errore di battitura, un 3 per cento diventato 30 per cento. L’errore di valutazione è nella testimonianza di un colonnello ultranovantenne, che non si ricordava bene cosa volesse dire “altre perdite”. Erano le “perdite” che i comandanti registravano principalmente per trasferimenti ad altri campi, i prigionieri erano contesi per il lavoro forzato, oppure liberati senza incriminazione, tra essi tutta la Milizia Popolare, 664 mila vecchi e adolescenti, due terzi del “milione mancante” di Bacque. Un autogoal? A Canfora non interessa sapere se gli americani hanno lasciato morire un milione di tedeschi, oppure diecimila. Il fascismo, giustamente, è uno.
Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia
L’occhio di Zeus
martedì 28 dicembre 2010
Problemi di base - 45
spock
Si chiede il proustiano Piperno di Proust: “Come è potuto accadere che questo campione di generosità, il più umano e il più tenero dei romanzieri, il più comico e feroce dei moralisti, sia passato alla storia come lo snobissimo cantore di un mondo rarefatto esclusivo e in irreversibile disfacimento?” Come?
Che ne sa il papa del preservativo? Sa come si fa?
Perché gli uomini di Dio non sanno non essere volgari?
Perché siamo così infelici con una stampante Epson?
Perché usare una stampante Epson?
È il 3 per cento del pil il numero segreto del’Europa? Che sarà mai?
Si dirà: morire per il 3 per cento del pil?
Poiché il paradiso terrestre, secondo i paleontologi del Vaticano, stava in Africa, sull’altopiano del Kenya, Adamo e Eva erano neri?
La risposta è: lo divennero dopo la colpa. Parlavano ebraico?
Se la religione è l’oppio dei popoli, e tutti i popoli sono religiosi, sono i popoli oppiomani? Per il sillogismo categorico.
Luciano Canfora, che ama Stalin, molto, perché non lo vuole dire?
spock@antiit.eu
Si chiede il proustiano Piperno di Proust: “Come è potuto accadere che questo campione di generosità, il più umano e il più tenero dei romanzieri, il più comico e feroce dei moralisti, sia passato alla storia come lo snobissimo cantore di un mondo rarefatto esclusivo e in irreversibile disfacimento?” Come?
Che ne sa il papa del preservativo? Sa come si fa?
Perché gli uomini di Dio non sanno non essere volgari?
Perché siamo così infelici con una stampante Epson?
Perché usare una stampante Epson?
È il 3 per cento del pil il numero segreto del’Europa? Che sarà mai?
Si dirà: morire per il 3 per cento del pil?
Poiché il paradiso terrestre, secondo i paleontologi del Vaticano, stava in Africa, sull’altopiano del Kenya, Adamo e Eva erano neri?
La risposta è: lo divennero dopo la colpa. Parlavano ebraico?
Se la religione è l’oppio dei popoli, e tutti i popoli sono religiosi, sono i popoli oppiomani? Per il sillogismo categorico.
Luciano Canfora, che ama Stalin, molto, perché non lo vuole dire?
spock@antiit.eu
Il delitto tra (generali dei) carabinieri
Poteva essere un capolavoro involontario. Le prime trenta-quaranta pagine, col generale, uomo di potere, che dialoga con la moglie morta e con i figli dall’alto dell’aereo che lo porta verso la morte, mentre gioca d’astuzia col suo ministro e con gli altri generali, sono un racconto fortissimo. Poi, contro i suoi stessi propositi, il figlio sociologo passa da questo mondo, che conosce perché ci è cresciuto, alle sofisticherie palermitane, allora, 1982, immutate come oggi, e non fa più di un lunghissimo articolo genere “Panorama” o “Espresso”.
Conoscere per sapere, cioè riconoscere, nell’ambito dello stesso linguaggio, degli stessi comportamenti, è del tutto diverso dal conoscere per apprendere. Soprattutto quando, per apprendere, si assume l’abito etnologico. Che è sempre sbagliato, non solo quando è “sbagliato” (razzista), ma anche quando è “giusto” (aperto). Si sbanda in entrambi i casi, fuorviati dal fatto stesso di considerare gli altri diversi. La diversità, certo, è il sale della vita. Ma anche le forme della delinquenza sono diverse: dal furto con destrezza al pizzo odiosamente imposto. Mentre poi siamo tutti uguali, e anche nella Sicilia cattiva ci sono aspetti interessanti, o in quella buona ignominie terrificanti: la violenza è in agguato non perché gli altri sono diversi ma perché sono uguali.
Resta, oltre al racconto iniziale, una sensazione d’inermità. Per la cortina di pettegolezzi, dispetti, indifferenza che i carabinieri creano attorno a chi cerca giustizia, sia pure egli un carabiniere, anzi un generale dei carabinieri (il risentimento distingue anche le memorie del generale Bozzo, collaboratore del generale Dalla Chiesa). E per l’indifferenza e anzi l’ostilità con cui le vittime della mafia vengono trattate dalle forze dell’ordine e dalla magistratura.
Nando Dalla Chiesa, Delitto imperfetto
Conoscere per sapere, cioè riconoscere, nell’ambito dello stesso linguaggio, degli stessi comportamenti, è del tutto diverso dal conoscere per apprendere. Soprattutto quando, per apprendere, si assume l’abito etnologico. Che è sempre sbagliato, non solo quando è “sbagliato” (razzista), ma anche quando è “giusto” (aperto). Si sbanda in entrambi i casi, fuorviati dal fatto stesso di considerare gli altri diversi. La diversità, certo, è il sale della vita. Ma anche le forme della delinquenza sono diverse: dal furto con destrezza al pizzo odiosamente imposto. Mentre poi siamo tutti uguali, e anche nella Sicilia cattiva ci sono aspetti interessanti, o in quella buona ignominie terrificanti: la violenza è in agguato non perché gli altri sono diversi ma perché sono uguali.
Resta, oltre al racconto iniziale, una sensazione d’inermità. Per la cortina di pettegolezzi, dispetti, indifferenza che i carabinieri creano attorno a chi cerca giustizia, sia pure egli un carabiniere, anzi un generale dei carabinieri (il risentimento distingue anche le memorie del generale Bozzo, collaboratore del generale Dalla Chiesa). E per l’indifferenza e anzi l’ostilità con cui le vittime della mafia vengono trattate dalle forze dell’ordine e dalla magistratura.
Nando Dalla Chiesa, Delitto imperfetto
lunedì 27 dicembre 2010
L’Anticristo è l’Europa
L’Anticristo si è impadronito dell’Europa, piccolo borghese. Non è Hitler, anche se l’antisemitismo resta l’occhio ricorrente di Roth sulla storia, fin dalle prime narrazioni. Emigrato politico contro Hitler già da un anno quando scrisse questa perorazione, Roth si pone altre priorità: l’Anticristo è il piccolo borghese (altro suo prisma deformante: perfino il bolscevico rappresenta, nel “Viaggio in Russia", come piccolo borghese), il cinema, la guerra, il giornalismo (i Messaggeri delle mille lingue, agli ordini del Signore delle mille lingue), il razzismo, l’ateismo, il carbone e gli altri veleni, e naturalmente anche l’antisemitismo. Riprendendo i tempi di “Fuga senza fine. Una storia vera”, il romanzo con cui era diventato famoso sette anni prima, scritto anch’esso a Parigi, benché da inviato speciale e non da profugo, in chiave di perorazione – se non già di “Zipper e suo padre”, le prime prove.
È un modesto, essenziale, Elémire Zolla in anticipo. Ma con il consueto fiuto del grande viaggiatore politico, delle escursioni apprezzate in Urss, in Italia eccetera. E non irreale: in questo controavvento molto rothiano, intelligente e mite, l’apocalisse è più vera e profetica che nella violenta redazione originale, evangelica. Tanto più per essere Roth, e voler essere, integrato o assimilato, uno dei tanti, che non ributta una sua diversità sulla cristianità in cui vive, muovendosi quindi tra eventi (fino al Concordato del futuro papa Pacelli con Hitler, a quello precedente con Mussolini, e a uno immaginario con la Metro-Goldwin-Meyer) e simboli noti. Perfino commovente è il suo credo da assimiliato, direbbe sprezzante Scholem, che è anche l’unico modo veramente cristiano di rapportarsi all’ebraismo, alla religione e cioè e al popolo che per primi dissero che “tutti gli uomini di tutti i popoli sono figli uguali di Dio”. Un’integrazione che lo fa purtroppo, con Canetti e Hannah Arendt, il grande scrittore ebreo germanico non assunto, a differenza del Kafka di Max Brod, nel canone ebraico. Nel saggio coevo “L’autodifesa dello spirito” Roth può rivendicare addolorato il privilegio degli scrittori ebrei nei confronti degli scrittori “ariani”: “Siamo gli unici rappresentanti dell’Europa”. Qui ribadisce: “Chi è cristiano stima gli ebrei”. E: “Chi odia gli ebrei è un pagano e non un cristiano. Colui che in generale può odiare, non importa chi, è un pagano e non un cristiano”.
È, collocandolo al suo tempo, non leggendolo cioè retrospettivamente, l’anti-Arbeiter, il “Lavoratore” di Jünger, impregnato della Sorge di Heidegger, la cura o disponibilità umana. Semplice e diretto, più ingenuo anche – gli anni 1930 sono stati anche questo, l’ultimo sprazzo di rivolta romantica contro il macchinismo (prima che la rivolta confluisse purtroppo in Hitler, il vero anticristo). Rivolto all’Europa più che alla Germania: la colpa che intravvede nell’afflizione è di una cultura prima che della tribù, di quella questa essendo in parte vittima.
“L’Anticristo” non è presentato, e forse non è, opera maggiore di J.Roth. Ma rovescia la prospettiva di Magris che “fonda” Roth, (“Lontano da dove. J.Roth e la tradizione ebraico-orientale”, 1971), che l’esilio isola “dalla pienezza e dalla totalità della vita vera”. Perché mostra che non c’è niente in lui che non sia vero, anche nell’esilio – quello politico a Parigi come quello esistenziale. Nella forma tragica, piuttosto che epica, che la sua conoscenza in questa perorazione prende, in particolare per quanto concerne l’antisemitismo, l’anticristo cui dedica i quattro sottili paragrafi finali, ritracciandolo in Israele, in Germania, e a Parigi tra gli uomini di buona volontà. Nello sdoppiamento, per l’insopprimibile senso dell’ebraismo e del cristianesimo intrecciati, dell’allogeno e dell’indigeno (non ci sono indigeni), del bene e del male, di Dio e dell’Anticristo. Appartenenze che Roth gioca nella distinzione tra Vaterland e Heimat, la patria dei nazionalisti del sangue e la patria della case e della lingua, del sangue anche ma allora in guerra, della vicendevole appartenenza comune, del sentire religioso, della storia, della quotidianeità. Problematico più che assertivo, come solo poteva esserlo chi nel 1934 era pur sempre germanico, di lingua, di storia – per chi altri scrive lo scrittore germanico se non un pubblico germanico? Di eloquenza fine, rispettosa, seppure accorata.
Di Magris Roth identifica piuttosto l’immagine seminale, “L’Ulisse ebraico-orientale”, il saggio del 1970. Certamente non quella di “Nostalgia della fine”, il ritratto che lo stesso Magris ha fatto di Roth sul “Corriere della sera” il 27 maggio 1979, per i quarant’anni della morte, come “maschera della verità”, partendo dal vezzo dello scrittore di divertirsi con intervistatori e biografi: “Nelle ultime opere di Roth un universalismo cattolico, imperiale e teneramente comprensivo dei fugaci erori dei sensi, si affianca fraternamente al senso ebraiico della vita, intesa quale esilio e a un’attesa messianica, identificata come il richiamo di un annullamento cui si continua peraltro a resistere tenacemente”. Dove peraltro il “si” del tenace resistente è Roth: un’intelligenza tenace della vita, malgrado le insidie ripetute del nulla che è la cifra del secolo – J.Roth ha visto tanto, ma morendo nel 1939 non ha visto il peggio.
Joseph Roth, L’Anticristo, Editori Riuniti, pp.165, € 9,90
È un modesto, essenziale, Elémire Zolla in anticipo. Ma con il consueto fiuto del grande viaggiatore politico, delle escursioni apprezzate in Urss, in Italia eccetera. E non irreale: in questo controavvento molto rothiano, intelligente e mite, l’apocalisse è più vera e profetica che nella violenta redazione originale, evangelica. Tanto più per essere Roth, e voler essere, integrato o assimilato, uno dei tanti, che non ributta una sua diversità sulla cristianità in cui vive, muovendosi quindi tra eventi (fino al Concordato del futuro papa Pacelli con Hitler, a quello precedente con Mussolini, e a uno immaginario con la Metro-Goldwin-Meyer) e simboli noti. Perfino commovente è il suo credo da assimiliato, direbbe sprezzante Scholem, che è anche l’unico modo veramente cristiano di rapportarsi all’ebraismo, alla religione e cioè e al popolo che per primi dissero che “tutti gli uomini di tutti i popoli sono figli uguali di Dio”. Un’integrazione che lo fa purtroppo, con Canetti e Hannah Arendt, il grande scrittore ebreo germanico non assunto, a differenza del Kafka di Max Brod, nel canone ebraico. Nel saggio coevo “L’autodifesa dello spirito” Roth può rivendicare addolorato il privilegio degli scrittori ebrei nei confronti degli scrittori “ariani”: “Siamo gli unici rappresentanti dell’Europa”. Qui ribadisce: “Chi è cristiano stima gli ebrei”. E: “Chi odia gli ebrei è un pagano e non un cristiano. Colui che in generale può odiare, non importa chi, è un pagano e non un cristiano”.
È, collocandolo al suo tempo, non leggendolo cioè retrospettivamente, l’anti-Arbeiter, il “Lavoratore” di Jünger, impregnato della Sorge di Heidegger, la cura o disponibilità umana. Semplice e diretto, più ingenuo anche – gli anni 1930 sono stati anche questo, l’ultimo sprazzo di rivolta romantica contro il macchinismo (prima che la rivolta confluisse purtroppo in Hitler, il vero anticristo). Rivolto all’Europa più che alla Germania: la colpa che intravvede nell’afflizione è di una cultura prima che della tribù, di quella questa essendo in parte vittima.
“L’Anticristo” non è presentato, e forse non è, opera maggiore di J.Roth. Ma rovescia la prospettiva di Magris che “fonda” Roth, (“Lontano da dove. J.Roth e la tradizione ebraico-orientale”, 1971), che l’esilio isola “dalla pienezza e dalla totalità della vita vera”. Perché mostra che non c’è niente in lui che non sia vero, anche nell’esilio – quello politico a Parigi come quello esistenziale. Nella forma tragica, piuttosto che epica, che la sua conoscenza in questa perorazione prende, in particolare per quanto concerne l’antisemitismo, l’anticristo cui dedica i quattro sottili paragrafi finali, ritracciandolo in Israele, in Germania, e a Parigi tra gli uomini di buona volontà. Nello sdoppiamento, per l’insopprimibile senso dell’ebraismo e del cristianesimo intrecciati, dell’allogeno e dell’indigeno (non ci sono indigeni), del bene e del male, di Dio e dell’Anticristo. Appartenenze che Roth gioca nella distinzione tra Vaterland e Heimat, la patria dei nazionalisti del sangue e la patria della case e della lingua, del sangue anche ma allora in guerra, della vicendevole appartenenza comune, del sentire religioso, della storia, della quotidianeità. Problematico più che assertivo, come solo poteva esserlo chi nel 1934 era pur sempre germanico, di lingua, di storia – per chi altri scrive lo scrittore germanico se non un pubblico germanico? Di eloquenza fine, rispettosa, seppure accorata.
Di Magris Roth identifica piuttosto l’immagine seminale, “L’Ulisse ebraico-orientale”, il saggio del 1970. Certamente non quella di “Nostalgia della fine”, il ritratto che lo stesso Magris ha fatto di Roth sul “Corriere della sera” il 27 maggio 1979, per i quarant’anni della morte, come “maschera della verità”, partendo dal vezzo dello scrittore di divertirsi con intervistatori e biografi: “Nelle ultime opere di Roth un universalismo cattolico, imperiale e teneramente comprensivo dei fugaci erori dei sensi, si affianca fraternamente al senso ebraiico della vita, intesa quale esilio e a un’attesa messianica, identificata come il richiamo di un annullamento cui si continua peraltro a resistere tenacemente”. Dove peraltro il “si” del tenace resistente è Roth: un’intelligenza tenace della vita, malgrado le insidie ripetute del nulla che è la cifra del secolo – J.Roth ha visto tanto, ma morendo nel 1939 non ha visto il peggio.
Joseph Roth, L’Anticristo, Editori Riuniti, pp.165, € 9,90
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (75)
Giuseppe Leuzzi
Mafia
La mafia è un nemico armato, contro il quale il diritto non ammette la difesa. Un occupante violento senza tregua. Che si rafforza con la legalità, se ne avvale.
Il mafioso è colui che utilizza a fini di lucro la sua illimitata capacità di violenza.
Non è uomo d’onore. Non è uomo di rispetto. Né notabile, sociale o politico. Non è uomo di potere, se non per l’assolutezza che la violenza comporta: non ha un disegno. Non è, non può essere, compagno di strada con nessuno.
È un bandito, nel senso che è un uomo di banda, piccolo gruppo soggetto a un capo, fin là dove può arrivare il contatto personale: la mafia non è organizzazione, e si riproduce per scissione – si chiama famiglia per nostalgia di uno spirito unitario che non c’è, e va ricostituito con la violenza.
Pentiti
Il pentitismo origina da Peci a colloquio col generale Dalle Chiesa. Altre tempre morali e altre capacità investigative. L’estensione alla mafia è solo un servizio reso a investigatori inetti, quasi sempre magistrati. E in definitiva alla stessa mafia, che ora fa il crimine e la giustizia del crimine.
Quando non la sfanga (Brusa, l’animale dell’acido, il “teologo” Spatuzza), con tutto il suo carico di diecine e centinaia di assassinii efferati, senza pagare alcun dazio, e anzi diventando un eroe della televisione e dei giornali, solo per fare il gioco politico di un magistrato. Che talvolta, come sta avvenendo, non persegue la mafia ma i politici: ci si può pentire a cuor leggero, non è necessario denunciare compagni di mafia, basta nominare qualche politico. E anche questo senza circostanziare e senza speciali responsabilità: basta dire il nome.
O quando non è propriamente mafia, collusione, infiltrazione. Il lato buono della cosa è minimo: non ci sono patrimoni mafiosi emersi con i pentiti, e la mafiosità degli insospettabili è quasi sempre la loro piccola vendetta, dei pentiti.
Milano
Barbara Berlusconi dà lezioni di moralità al babbo. Su un illustrato che s’intitola “Vanity Fair”.. Basterebbe questo a condannare Berlusconi: prima la moglie, ora la figlia. Nessun politico “napoletano” ha mai oberato l’Italia di tanto.
L’allenatore Benitez lascia l’Inter. Non è licenziato, è lui che lascia, facendosi pagare la buonuscita. Ma Milano non ci fa caso. Anzi, la “Gazzetta dello sport” gli fa i conti, e calcola che per ogni giorno Benitez si è fatto pagare 30 mila euro, pensando magari di denigrarlo e non d’illustrarlo. Ricevere uno schiaffone e far finta di nulla, sarà questo il segreto del successo.
“Mia figlia è una precaria e io sono molto arrabbiata”: il “Corriere della sera” si compiace si dare spazio al lamento, questa mamma non è la prima. È il linguaggio Rai, forse dell’epoca, e il giornale dovrà tenerne conto. Ma a Milano, per Milano? Non è la lamentazione genere espressivo meridionale. O il Sud l’ha importato da Milano?
Mani Pulite ha avuto e ha singolari cadenze mafiose. Il discredito sugli indagati (le “voci”, che si perfezionano in “indiscrezioni, e infine nei cosiddetti avvisi di garanzia, resi pubblici prima di comunicarli agli indagati) per isolare l’obiettivo. Le false voci. La selettività. Il palese trattamento di favore per gli amici – esibire il potere. La rudezza. La violenza illimitata. E l’esibizionismo: non c’è mafia, infatti, che non si esibisca.
È l’apporto dei suoi giudici napoletani e siculi?
Si indaga a Milano la società comunale A2A per le false fatturazioni del gas. Ma si rinvia a giudizio, perlomeno sul “Corriere della sera”, l’Eni, per avere importato, forse, gas senza dichiararlo.
I distributori indipendenti di gas, A2A compresa, sono in guerra con l’Eni perché vogliono una fetta dell’affare, e Milano compatta aggredisce, palazzo di Giustizia e “Corriere della sera” compresi.
Milano ha buona memoria dell’Austria. Che la trattava come pezza da piedi. Al conte Dal Verme, contemporaneo di Stendhal e di Emerson, quando richiese il passaporto per andare in America, gli ci vollero sedici mesi per averlo.
Per una settimana il “Corriere della sera” fa una e due pagine sull’Inter che si gioca un Mondiale di calcio e vuole vincerlo. Se lo gioca ad Abu Dhabi. Contro una squadra coreana – del Sud, è vero, anzi del reverendo Moon. Dopodiché affronterà una squadra del Congo.
Si riesuma Sandro Mazzola, che riesuma l’ultima vittoria, 45 anni fa, in Argentina, contro una squadra argentina: “Per una città operaia era un trofeo ambitissimo”. Milano era la città operaia, gli argentini chissà, mangiavano le bistecche gratis. La città si costruisce annichilando il mondo – magnificando i poveri e i deboli, per poi annientarli.
È certo la capitale morale d’Italia ma in senso involontario: la capitale vera, quella che decide gli affari, la politica, e il modo di vivere – il Milan-Inter, le Maldive prima poi la villa ai Caraibi, con una puntatina a St.Moritz, o perlomeno a Lugano, e la benedizione del cardinale.
Sudismi\sadismi
“I Germanesi”, la ricerca sull’emigrazione in Germania da Carfizzi, in provincia di Crotone, opera nel 1986 di Abate e Meike Behrmann, ha una curiosa impostazione rétro. Abate, che pure è narratore sensibile e senza paraocchi, e la sociologa Behrmann, che pure è allieva di Norbert Elias, adottano il punto di vista critico dello sfruttamento, dell’assenteismo, del latifondo, e insieme del desiderio di terra del popolo. Non senza fondamento, c’è un positivismo sano nel socialismo: emigrati che investono i risparmi di una vita di fatica e di fame per comprare un pezzo di terra inutile o farsi una casa che non abiteranno al paese sono, o appaiono, condannabili a loro volta. Forse vittime dell’ignoranza, ma anche protervamente votati allo spreco.
L’impostazione è curiosa perché applica ai poveri l’anticapitalismo che per molti anni ha tenuto banco nella sociologia italiana, e evidentemente europea, invece di una lettura vigile del reale. Abate e Behrmann danno addosso all’ipercapitalista Fedele, che in pochi anni aveva creato, e poi difese, una grande azienda agricola, ma anche ai braccianti che ne occuparono le terre e ai cui la riforma agraria poi diede in piccoli lotti i terreni espropriati. Che non hanno senso economicamente, sono uno spreco di fatica e di soldi: sono poco capitalisti, insomma, non accumulano. Questi “germanesi” che solo agognano di stare sulla propria vigna, benché piccola e non economica, o tra gli ulivi, per quanto poveri, e a faticarci sopra senza costrutto economico, che danno un’altra dimensione alla vita e alla loro stessa fatica di emigrati, sono ridotti alla sola dimensione dell’anti-economicità. Indotta, aggiungono Abate e Behrmann, dalla rivalsa, dall’ambizione piccolo borghese di dirsi proprietari, insomma dall’invidia sociale.
Il discorso della dimensione diversa della vita si potrebbe continuare con la voglia di cambiare e la ricerca del nuovo nell’emigrazione, il cosiddetto spirito di avventura. In aggiunta, o al di là, del bisogno. O con l’attrattiva di spazi diversi da quelli di paese. O col bisogno del consumismo, perché no. Ma l’undimensionalità è più forte, se ha fatto presa pure su uno come Abate – Cesare Lombroso dice gli albanesi di Calabria, quale Abate è, “eccellenti corridori” (Lombroso che fu un Calabria solo tre mesi, nel 1862, a caccia dei briganti, e tuttavia, benché fosse già Lombroso, capì molte differenze).
Questo approccio intellettuale era vivo e anzi dominante appena venticinque anni fa. Ma oggi è diverso?
leuzzi@antiit.eu
Mafia
La mafia è un nemico armato, contro il quale il diritto non ammette la difesa. Un occupante violento senza tregua. Che si rafforza con la legalità, se ne avvale.
Il mafioso è colui che utilizza a fini di lucro la sua illimitata capacità di violenza.
Non è uomo d’onore. Non è uomo di rispetto. Né notabile, sociale o politico. Non è uomo di potere, se non per l’assolutezza che la violenza comporta: non ha un disegno. Non è, non può essere, compagno di strada con nessuno.
È un bandito, nel senso che è un uomo di banda, piccolo gruppo soggetto a un capo, fin là dove può arrivare il contatto personale: la mafia non è organizzazione, e si riproduce per scissione – si chiama famiglia per nostalgia di uno spirito unitario che non c’è, e va ricostituito con la violenza.
Pentiti
Il pentitismo origina da Peci a colloquio col generale Dalle Chiesa. Altre tempre morali e altre capacità investigative. L’estensione alla mafia è solo un servizio reso a investigatori inetti, quasi sempre magistrati. E in definitiva alla stessa mafia, che ora fa il crimine e la giustizia del crimine.
Quando non la sfanga (Brusa, l’animale dell’acido, il “teologo” Spatuzza), con tutto il suo carico di diecine e centinaia di assassinii efferati, senza pagare alcun dazio, e anzi diventando un eroe della televisione e dei giornali, solo per fare il gioco politico di un magistrato. Che talvolta, come sta avvenendo, non persegue la mafia ma i politici: ci si può pentire a cuor leggero, non è necessario denunciare compagni di mafia, basta nominare qualche politico. E anche questo senza circostanziare e senza speciali responsabilità: basta dire il nome.
O quando non è propriamente mafia, collusione, infiltrazione. Il lato buono della cosa è minimo: non ci sono patrimoni mafiosi emersi con i pentiti, e la mafiosità degli insospettabili è quasi sempre la loro piccola vendetta, dei pentiti.
Milano
Barbara Berlusconi dà lezioni di moralità al babbo. Su un illustrato che s’intitola “Vanity Fair”.. Basterebbe questo a condannare Berlusconi: prima la moglie, ora la figlia. Nessun politico “napoletano” ha mai oberato l’Italia di tanto.
L’allenatore Benitez lascia l’Inter. Non è licenziato, è lui che lascia, facendosi pagare la buonuscita. Ma Milano non ci fa caso. Anzi, la “Gazzetta dello sport” gli fa i conti, e calcola che per ogni giorno Benitez si è fatto pagare 30 mila euro, pensando magari di denigrarlo e non d’illustrarlo. Ricevere uno schiaffone e far finta di nulla, sarà questo il segreto del successo.
“Mia figlia è una precaria e io sono molto arrabbiata”: il “Corriere della sera” si compiace si dare spazio al lamento, questa mamma non è la prima. È il linguaggio Rai, forse dell’epoca, e il giornale dovrà tenerne conto. Ma a Milano, per Milano? Non è la lamentazione genere espressivo meridionale. O il Sud l’ha importato da Milano?
Mani Pulite ha avuto e ha singolari cadenze mafiose. Il discredito sugli indagati (le “voci”, che si perfezionano in “indiscrezioni, e infine nei cosiddetti avvisi di garanzia, resi pubblici prima di comunicarli agli indagati) per isolare l’obiettivo. Le false voci. La selettività. Il palese trattamento di favore per gli amici – esibire il potere. La rudezza. La violenza illimitata. E l’esibizionismo: non c’è mafia, infatti, che non si esibisca.
È l’apporto dei suoi giudici napoletani e siculi?
Si indaga a Milano la società comunale A2A per le false fatturazioni del gas. Ma si rinvia a giudizio, perlomeno sul “Corriere della sera”, l’Eni, per avere importato, forse, gas senza dichiararlo.
I distributori indipendenti di gas, A2A compresa, sono in guerra con l’Eni perché vogliono una fetta dell’affare, e Milano compatta aggredisce, palazzo di Giustizia e “Corriere della sera” compresi.
Milano ha buona memoria dell’Austria. Che la trattava come pezza da piedi. Al conte Dal Verme, contemporaneo di Stendhal e di Emerson, quando richiese il passaporto per andare in America, gli ci vollero sedici mesi per averlo.
Per una settimana il “Corriere della sera” fa una e due pagine sull’Inter che si gioca un Mondiale di calcio e vuole vincerlo. Se lo gioca ad Abu Dhabi. Contro una squadra coreana – del Sud, è vero, anzi del reverendo Moon. Dopodiché affronterà una squadra del Congo.
Si riesuma Sandro Mazzola, che riesuma l’ultima vittoria, 45 anni fa, in Argentina, contro una squadra argentina: “Per una città operaia era un trofeo ambitissimo”. Milano era la città operaia, gli argentini chissà, mangiavano le bistecche gratis. La città si costruisce annichilando il mondo – magnificando i poveri e i deboli, per poi annientarli.
È certo la capitale morale d’Italia ma in senso involontario: la capitale vera, quella che decide gli affari, la politica, e il modo di vivere – il Milan-Inter, le Maldive prima poi la villa ai Caraibi, con una puntatina a St.Moritz, o perlomeno a Lugano, e la benedizione del cardinale.
Sudismi\sadismi
“I Germanesi”, la ricerca sull’emigrazione in Germania da Carfizzi, in provincia di Crotone, opera nel 1986 di Abate e Meike Behrmann, ha una curiosa impostazione rétro. Abate, che pure è narratore sensibile e senza paraocchi, e la sociologa Behrmann, che pure è allieva di Norbert Elias, adottano il punto di vista critico dello sfruttamento, dell’assenteismo, del latifondo, e insieme del desiderio di terra del popolo. Non senza fondamento, c’è un positivismo sano nel socialismo: emigrati che investono i risparmi di una vita di fatica e di fame per comprare un pezzo di terra inutile o farsi una casa che non abiteranno al paese sono, o appaiono, condannabili a loro volta. Forse vittime dell’ignoranza, ma anche protervamente votati allo spreco.
L’impostazione è curiosa perché applica ai poveri l’anticapitalismo che per molti anni ha tenuto banco nella sociologia italiana, e evidentemente europea, invece di una lettura vigile del reale. Abate e Behrmann danno addosso all’ipercapitalista Fedele, che in pochi anni aveva creato, e poi difese, una grande azienda agricola, ma anche ai braccianti che ne occuparono le terre e ai cui la riforma agraria poi diede in piccoli lotti i terreni espropriati. Che non hanno senso economicamente, sono uno spreco di fatica e di soldi: sono poco capitalisti, insomma, non accumulano. Questi “germanesi” che solo agognano di stare sulla propria vigna, benché piccola e non economica, o tra gli ulivi, per quanto poveri, e a faticarci sopra senza costrutto economico, che danno un’altra dimensione alla vita e alla loro stessa fatica di emigrati, sono ridotti alla sola dimensione dell’anti-economicità. Indotta, aggiungono Abate e Behrmann, dalla rivalsa, dall’ambizione piccolo borghese di dirsi proprietari, insomma dall’invidia sociale.
Il discorso della dimensione diversa della vita si potrebbe continuare con la voglia di cambiare e la ricerca del nuovo nell’emigrazione, il cosiddetto spirito di avventura. In aggiunta, o al di là, del bisogno. O con l’attrattiva di spazi diversi da quelli di paese. O col bisogno del consumismo, perché no. Ma l’undimensionalità è più forte, se ha fatto presa pure su uno come Abate – Cesare Lombroso dice gli albanesi di Calabria, quale Abate è, “eccellenti corridori” (Lombroso che fu un Calabria solo tre mesi, nel 1862, a caccia dei briganti, e tuttavia, benché fosse già Lombroso, capì molte differenze).
Questo approccio intellettuale era vivo e anzi dominante appena venticinque anni fa. Ma oggi è diverso?
leuzzi@antiit.eu