astolfo
Afghanistan – Gli Usa dopo l’Urss sconfitti da alcune tribù sguaiate, animate da una fede unica, l’islam. Si possono fare delle graduatorie: l’organizzazione sconfitta dalla disorganizzazione, l’ideologia meno forte della religione? Ci sono anche casi inversi. È che le guerre tutti possono vincerle, e tutti possono perderle, purché non si tratti di una guerra nazionale. La guerra senza fine di Israele ne è un altro caso.
America Latina – La politica come espressione collettiva della follia. Gli indios hanno mediato dai creoli, orfani dei loro re, anzi figli spesso ribelli, la nostalgia della patria, e tutti insieme vivono la politica come retorica. La retorica della patria è l’ideologia dei crudeli governanti e dei loro non meno crudeli oppositori. La povertà, o la ricchezza, il bisogno, la giustizia? Prima viene la retorica, che ha un bagaglio di violenza, o di stupidità.
Arabi – Gli arabi (non l’islam, oggi militante, dopo il khomeinismo) si risente per sentirsi vedovo dell’Occidente, che in parte ha generato e allevato, seppure sempre sul campo di battaglia, dall’Egira. Le oscillazioni politiche del dopoguerra sono una reazione all’imperialismo, un adattamento ai due blocchi, e una reazione al colonialismo israeliano. Ma, con tutti i loro limiti, dipovertà tuttavia e non di barbarie, gli arabi si integrano nell’Occidente: la stessa concezione della libertà, la stessa solidarietà tribale, il rapporto riservato con la donna, la nostalgia della solitudine e dell’individualità.
La cultura araba si è formata su quella occidentale, e l’ha arricchita con la poesia della lontananza, dei grandi spazi, della nostalgia, e più in generale della poesia lirica e anomica – non realista. L’Occidente si è formato attingendo al moralismo orientale della patristica, e a se stesso filtrato dalla cultura araba: la filosofia, la poesia, il decoro del potere e la spesa suntuaria, la diatribica politica – d alla precettistica del principe ala dottrina dello Stato, rinate nel secolo X a Damasco e Bagdad su derivazione persiana, da cui la commistione nel revival della res publica con Machiavelli.
Comunismo – La cultura comunista è processuale, volendo essere rigida (etica): poliziesca, inquisitoriale. È un continuo riesame delle carte di credito. E statica, cioè ferma, all’Autorità di un Qualcuno. Perché presuppone di avere un codice di riferimento preciso e perfetto.
È un’attitudine psicologica? Ereditata da una qualche cultura? Attraversa come vizio Marx, epigono dello hegelismo, dei sistemi di verità. Ma diventa una tecnica del potere, e quella dominante, con Stalin. Di cui malgrado tutto non si libera: comunista è sempre essere serio, cioè triste. Contro il calcio, contro la moda, contro lo scherzo e lo sberleffo. Borghese (il “dromedario moralista” degli scout)? Ma se caratteristica unica dell’uomo è il riso, questo comunista che uomo è? È un errore.
Alcuni vivono il comunismo come una speranza, altri come un’ipocrisia – gli intellettuali che non sono totalmente ipocriti. Togliatti lo sapeva: non ha scritto di teoria dopo il rientro, e ha lavorato a un grande e forte partito di opposizione, di idee e iniziativa. Lo sapeva perché è stato a lungo a Mosca? I suoi successori fanno figura di ingenui perché non hanno vissuto a Mosca? Togliatti non avrebbe mai pensato, tantomeno lo avrebbe detto, che il partito è “un popolo diverso” (Berlinguer, Calvino): è il cardine del familismo piccolo borghese, cioè fascista, e comunque che senso ha in politica?
A parte il comunismo, i comunisti hanno sempre avuto molto di buono. L’incomprensibile avvitamento nell’odio nasce dall’utopia dell’uguaglianza, che in sé non è male, e comprta comunque una sensibilità, perlomeno riflessiva. Ma hanno una colpa grave: l’anticomunismo. Anzi due: c’è anche l’impossibilità di dirsi anticomunisti.
Corruzione – È un segno di potere. Dunque più diffuso, decentrato, è il potere, più la corruzione si diffonde. Nelle società consolidate, gerarchiche, la corruzione è ovviamente dominio di chi detiene il potere. Ma quella minuta, diffusa, “socializzata” come vuole la sociologia dell’Italia, è tipicamente democratica.
Già il cartiglio di Ambrogio Lorenzetti, sulla parete del “Mal governo” a Siena, lo spiega. “Fuor si robba e dentro delle porte”.
Crociate – Nell’arte della guerra contemporanea sarebbero un pre-emptive strike, un attacco preventivo.
Equilibrio – La teoria dell’equilibrio (Congresso di Vienna. Kissinger) è in astratto la teoria della democrazia internazionale: nessun soggetto può prendere la supremazia, i meno forti vanno protetti, i diritti pure, civili e umani, eccetera. Ma è conservatrice: tutto il nuovo è per essa sovversivo. E può essere imperialista. Per esempio la guerra fredda, che si è fatta a danno dell’Europa, e che l’Europa ha perduto. O la decolonizzazione, col paradosso dell’apertura delle colonie all’influenza di tutti.
Masse – È la realtà fantastica? È per questo che le masse sono niente. Secondo Marx, “La Sacra famiglia”, cap. IV. Lo hegelismo critico, dice, è ragionamento, coerenza interna, logica e verbale: “Tutto ciò che è reale, vivente, è non critico, di massa, e perciò «niente»”. E: “La critica come formule… è e rimane una vecchia donna, l’avvizzita e vedova filosofia hegeliana, che imbelletta e ritocca il suo corpo rinsecchito fino alla più ripugnante astrazione”. Solo le creature ideali, fantastiche, della critica critica sono “tutto”?
Mitteleuropa - Magris la dice (Itaca e oltre”, p.152 ) “una comune vocazione cosmopolita e universalistica, un’intelligenza analitica, spregiudicata e demistificatrice ma anche fraternamente comprensiva”. E: “Una grandezza vissuta nella fine, o anzi quale fine, nell’alone di un prolungato tramonto al quale, pur rimanendone affascinati, non ci si rassegna a credere e al quale non si può perdonare di essere un tramonto”. Che è la stessa cosa: è un discorso retrospettivo, l’invenzione di una tradizione. Anche contemporanea, ma sempre retrospettiva, in forma di nostalgia: il presente non è mai stato “mitteleuropeo” fra italiani, tirolesi, sloveni, croati, e magiari, rumeni, slavi tra di loro. E non lo è tuttora, in Istria, nel Banato (il disprezzo di Herta Müller è sempre vivo per i rumeni), in Transilvania.
Oriente – La violenza – l’estrema concorrenzialità – del “Tao tö king”. Non c’è in questo Oriente il senso del dovere né il limite. Non c’è la società. Anche il santo (il saggio) è manipolato secondo criteri di furbizia, cioè di asocialità. Non c’è in Oriente la società: una sensibilità sociale, una cultura storica-popolare, di massa, la sociologia, la democrazia. C’è la sottomissione.
All’Autorità si dà manto religioso, di interprete e mediatrice presso l’Onnipotente, ma questo senso religioso, la profondità, la saggezza, ci sono davvero in Oriente? Se tutto è astuzia e accorgimento.
La tecnica è il modo di essere della cultura orientale, la craftmanship. Non della società, ma dei chierici e dei filosofi: dalla religione all’eros la riflessione è tutta sul “come”. L’Oriente è materialista. L’Oriente metafisico è invenzione (reazione) anti-Occidente. Dapprima degli orientalisti, a partire da Francesco Saverio.
Usa – Mancando la memoria storica, la parola è tutto: quello che è detto è vero, chi mente si cancella. E il numero – gli Statistical States di Adorno.
Una società informale ma molto formale, di principi, e di pregiudizi: l’osmosi sociale facendosi per dichiarazione (petizione), ognuno si tiene aggrappato alle sue. È il solo modo di identificarsi, non è una posa, e per questo è determinato.
astolfo@antiit.eu
mercoledì 19 gennaio 2011
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