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Baudelaire – Magris lo dice fulmineo “quel Dante moderno” (in “Libri di lettura”, introduzione alla raccolta di articoli “Alfabeti), “con i suoi giorni del male percorsi abbandonandosi alla vita e insieme instaurando un giudizio sulla vita”.
Biblioteca – Affascina perché evoca l’immortalità: la rincorsa della sapienza.
Senza obbligo d’uso, della polvere, del vecchio, dell’inservibile.
Dante – C’è solo in Gioacchino Volpe, che lo ricorda peraltro di passata, introducendo la riedizione anni Cinquanta di “Movimenti religiosi e sette ereticali”, ma Firenze ha il primato càtaro, nel Duecento, prima che finanziario.
Nel “Suicidio della rivoluzione” Augusto Del Noce nota che con De Sanctis si abbandonò Dante per l’apologia e il mito di Machiavelli. E conclude. “Il passaggio da Dante a Machiavelli è l’inizio della crisi o errore del Risorgimento”, l’esclusione dell’Italia religiosa (una delle varie esclusioni. un’altra è del Sud, che pure era metà dell’Italia, e un po’ di più).
Si può godere Dante come Joyce voleva, scherzando ma non del tutto, come un cronista del suo tempo. Colto e fantasioso, che riutilizza il bagaglio letterario e filosofico per dare corpo ai fatti del suo tempo, mascherandone le proprie passioni. Jacqueline Risset, che la lezione di Joyce recuperava in “Dante scrittore” (1984), ha poi fatto dell’“Inferno” in traduzione, ma anche delle altre cantiche, una stupenda occasione di lettura, un romanzone quale la cantica è, in filanti versi in francese. Dante si può leggere “correndo”. L’esperienza personale concorre, avendo studiato Dante al liceo leggendolo e "dicendolo" a voce alta, l’insegnante, reduce dalle università brasiliane (“Purtroppo non sanno un decimo di voi”), voleva tono e ritmo, oltre che una lettura quasi a memoria. Lo
spregiatore massimo di Dante, lo scrittore espressionista austro-tedesco Albert
Ehrenstein, che trovava la “Commedia” opera scolastica, noiosa, sadica, la
riconosceva di “poeta musicale”.
Jacqueline Risset fa da questo punto di vista la lettura più importante dal tempo di Boccaccio, restituendo nella sua traduzione, se non accentuando, il rimo che “fa” Dante: lo fa pulsare in ogni fibra in ogni momento, anche quando l’argomento ce ne allontanerebbe, o la sua personale visione, troppo politica, troppo mistica, troppo vendicativa. Se ne legge la poesia quasi a corto di fiato, ma piacevolmente, senza soffocare. Il revival ne è la riprova: Dante “detto” da Benigni, dopo Sermonti (che ne ha fatto oggetto per più anni di seguitissime tournées nella principali città), riprende quello che è forse il suo segreto, il ritmo. Più delle metafore ingegnose, dei versi sublimi o canonici, e dell’erudizione sconcertante.
Le lecturae Dantis, linguistica, filosofica, politica religiosa, mistica, etc., sono un utile, piacevole, esercizio anche oggi che si va di fretta, se uno le affronta a mente sgombra. Lo sgombero è però impossibile per gli addetti ai lavori, la cui craftmanship si misura in linee di sottigliezza. Boccaccio, il primo grande lettore professionale di Dante, la pensava evidentemente in modo diverso e gli è andata bene, ma forse perché era Boccaccio. L’impresa è più difficile per un traduttore.
Defunti – L’enorme quantità di parole sui defunti, che si scrivono per i vent’anni, i cinquanta, i cento dalla morte, o alla scadenza dei diritti e quindi alla ripubblicazione, senza più spesso che ci sia nulla da dire, nulla di nuovo. E non è nemmeno business. C’è una tradizione italica del lutto, (solo) morto è buono.
Don Giovanni – Come la filosofia, ne ha mille e una (le donne come le idee), e nessuna perfetta. Corteggia le dame come la filosofia la verità. Il dongiovannismo intellettuale – è materia – anche – di Natalie Clifford Barney, “Aventures de lì esprit”, 22.
Italiano – L’italiano moderno è Piero Gobetti, perché scrive chiaro, in una prosa non datata. A cu fa corrispondere progetti e mentalità non futuristiche né passatistiche (non radicalmente romantiche né “machiavelliche”), ma in grado di lavorare con i tempi, e un ruolo intellettuale razionale, di chi capisce e sa spiegare, e per questo indirizzare.
Il problema dell’italiano è che ha raggiunto il top all’inizio, dell’espressività, della varietà di lessico, dell’abbondanza grammaticale e semantica, con Dante, e da allora è un continuo rotolare in basso, in convulsioni, ghigni, prosopopee, deliri. Se è vero che la prosa viene dopo la poesia, l’italiano si deve ancora inventare. Oppure Dante è una grande prosa che non si può imitare.
Manzoni è l’italiano del Risorgimento, equivoco quindi: apparentemente non romantico, apparentemente anti-retorico, e inviluppato in forme sintattiche circonvolute, forte sintomo di disagio (disonestà?) intellettuale. Suoi più costanti e convinti estimatori sono altri personaggi apparentemente non romantici etc., tra i quali i siciliani Gaetano Mosca e, nella sua seconda fase, Leonardo Sciascia.
Gobetti disturba però l’Italia dei moderni: nessuno lo ricorda, nessuno scrive come lui.
Il fenomeno delle due lingue “parallele”, latino e volgare, e poi col Cinquecento, dominazione e riserbo, lingua ufficiale (letteraria, politica, religiosa) e lingua bassa. Una per scrivere, e parlare importante, cioè per non impegnarsi, l’altra per parlare.
L’avanguardia, o rottura del linguaggio, è fenomeno ricorrente in questa divisione. Nell’ambito della quale accentua l’artificio, non dà senso al linguaggio: Arcadia, Questione della lingua, Scapigliatura, Futurismo, Gruppo 63. La poesia del Novecento lo attesta in abbondanza, in continuazione. È in questo senso, dell’artificiosità, che la lingua evolve in continuazione, malgrado la sostanziale stabilità del paese negli ultimi secoli, non più invaso né distrutto (l’occupazione tedesca del ’44 è per questo ricordo più feroce). Ma si produce la bizzarria dell’italiano, illeggibile di generazione in generazione.
Rabelais è parte del maincurrent, a differenza di Folengo, Ruzante, Aretino, etc., e si può leggere oggi come nel Quattrocento, senza speciali supporti lessicali o grammaticali. Ancora più accentuata è la continuità del linguaggio nella letteratura spagnola e in quella inglese. Uno studente straniero d’inglese può leggere Shakespeare, uno studente d’italiano non può leggere Ariosto.
Da qui l’altro limite: in queste lingue è stato possibile il romanzo, scrittura piana, e al suo interno i vari generi, dignitosi e con un pubblico, e un mestiere delle lettere. Mentre in italiano è stato olo possibile il genere alto, lirico-epico (che scende fino all’elzeviro) e niente più. È stato possibile fino a un paio di decenni fa, ora il mercato detta nuove condizioni e sembra aprirsi ai generi, ma la lingua non segue, non si modella, s’impone, e anzi s’impoverisce.
Una situazione simile all’italiano soffre l’inafferrabile tedesco. Inevitabile quindi la considerazione che i due difetti siano da imputare alle divisioni politiche. Dove non c’è stato un centro unificatore e propulsore – una capitale, una corte, un asse politico e culturale di riferimento, non per lunghi secoli – la lingua ne ha sofferto. Ma il tedesco semmai ha un limite, non due: se la pluralità dei generi langue, la lingua è sempre quella di Lutero.
Può essere l’incapacità di ironia – esprit de finesse – la causa di questa instabilità? O ne è l’effetto?
Leopardi - È capitato, può capitare, di visitare Recanati un giorno di festa, con raduno di motocross. Se ne esce afflitti, ma scoprendo che il solingo borgo natìo straziato dai rumori non è una stonatura. La vita materiale del contino, dalle malattie ai tropi gelati e ai cattivi amici bruciava allora come oggi le infernali marmitte.
Il “contemporaneo” che non amava è “l’uomo romantico” che lui era. Ma è poeta filosofo, non idilliaco, da supererudito che vive tra i libri. La Silvia che non si trova, se non in congetture fantasiose, è solo un topos.
Traduzione – È un “problema romantico”, di due secoli e non più: Ferruccio Amoroso, intr. A H.Heine, “Ultime poesie” (e “Il Mondo”, 26 marzo 1963).
Nel “Don Chisciotte” Cervantes la vuole come “il rovescio di un arazzo”. È sempre creativa. Interpretativa cioè, non automatica: del testo, della lingua del testo, e di una propria scrittura – il proprio uso della propria lingua.
L’intraducibilità è mancanza di chiarezza. La traduzione è quindi chiarimento del linguaggio? Sì, all’origine, e se vuole essere buona, ne deve essere una efficace lettura, se non la più vera. Ma non necessariamente. La musica non si deve tradurre, la parola si deve tradurre: la musica cammina da sola, la parola solo se veicolata. Intraducibile nel senso di sublime è la parola non chiara, misterica. Che può essere poetica ma non filosofica o narrativa, come non può essere discorsiva.
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