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Banale – Il banale è profondo. È più profondo. Ci vuole la filosofia più profonda per arrivarci. “Il delitto è banale, l’esistenza è banale, soltanto le qualità banali hanno un qualche funzione sulla terra”. O questa è la filosofia delle conversation pieces vittoriane, una profondità blasée?
Céline – Il mite Ceronetti si vuole polemico, sul “Corriere della sera” di mercoledì 26, per difendere Céline, benché antisemita. In effetti, l’antisemitismo è in Céline poca cosa, benché costante, sociale (nazionale, classista al modo suo, di Céline), volgare. Anzi per questo: chi non era antisemita, al modo di Céline, in Francia negli anni 1930? Ma c’è di più: Céline vive la violenza del razzismo come diretta contro se stesso, un poco onorevole (permaloso, pasticciato) harakiri.
L’antisemitismo si guarda retrospettivamente, a partire dall’Olocausto. E non si discute, non a torto sul piano storico. Sul piano personale qualche distinzione è tuttavia possibile. Anche per Céline, che in “Morte a credito”, nel 1936, aveva rappresentato con ferocia l’antisemitismo, e due anni dopo, dopo il Fronte popolare e il viaggio nel’Urss, ne diventò becero esponente.
Il razzismo, depurato dalla tradizione, etnica, religiosa, storica, è violenza gratuita. Solo marginalmente espediente allo sfruttamento economico – il piccolo borghese, che più risente il razzismo, non ha neanche questa convenienza. Céline lo vive. Non per posa o artificio retorico, non per politica o per convenienza, come una violenza alla sua persona. Facendosi giudice e vendicatore, lo ributta su tutti gli altri, gli ebrei come la Società delle nazioni (la cattiveria di Céline è niente al confronto di quella di Albert Cohen in “Bella del signore”), i politici francesi, gli eserciti tedeschi, gli africani e i cinesi, tutto ciò che faceva nella sua generazione in Francia, potenza vincitrice e imbelle, la sindrome dell’europeo “appendice dell’Asia”. Le umiliazioni che si infligge, Sigmaringen, l’esilio con l’oro, i processi, non lo irrobustiscono: sono la voglia di degrado di un amante del bello sulla quale non può portare un occhio sereno – pur avendolo acuminato.
È difficile scrivere la storia degli anni 1930. Tra le poche cose certe è che per la pace ci sarebbe voluto un accordo tra Francia e Germania. E che Stalin fece di tutto per evitarlo, a questo scopo utilizzando i Pc tedesco e francese in avventate manovre. Due ubbie-fobie di Céline. E il suo fordismo è l’“americanismo” che appassionava Gramsci.
Certo è pure che l’antisemitismo fu diffuso, “normale” dopo la rivoluzione del 1917 – anche tra gli ebrei. Blanchot fu dell’Action Française fino al 1938, e scrisse articoli contro gli ebrei, tutti a suo dire “bolscevichi”. Ma, come tutti, Heidegger, Schmitt, dopo non disse: “Mi dispiace”.
W.Benjamin progettava “uno studio di quella particolare costellazione rappresentata dal nichilismo medico nella letteratura – Benn, Céline, Jung”. Jung che aveva “abbozzato una terapia per l’anima ariana”.
Il fondo è incolto: un “pensiero” convulso, confuso. Per l’autodidattismo superbo, di ragazzo eroe di guerra, concupito dalle più belle infermiere, in quella fornace di emozioni eccessive che è la sofferenza. Innestato su un fondo debole, di estrema bontà. Non fosse Céline, sarebbe Zola: è un documento dei suoi anni, uno dei più attendibili – gli eccessi, di stile, di passioni, sono coloratura.
Céline è scrittore realista. Delle “cose”, spiega nelle interviste: visionario perché radicale – contro la guerra, contro il denaro, per i poveri, per la salute (bellezza), per la patria. E ne è vittima: la politica è esercizio di equilibrismo, è pwassione radicale solo nel deserto, dove è inutile.
Ci sono due tipi umani, dice: il voyeur e l’esibizionista. Chi osserva il mondo (“le cose”) e chi mette in mostra se stesso (psicologismo, memoria, flusso di coscienza, di parola, etc.) del Novecento.
Céline nasce con la Fondazione Rockefeller e le campagne antibatteriche, e con lo studio di Semmelweiss. Con l’igiene, che porta alla pulizia. Del corpo, e morale, politica, etnica, genetica (l'eugenetica è semrpe in voga in Scandinavia, negli Usa e alle Nazioni Unite, al principio del Novecento anche in Gran Bretgana - per non dire naturalmente della Germania di Hitler, e anche dopo). Di arcigni difensori che, abbattendo grandi varechinate, si lasciano dietro campi desolati. È l’ideologia dell’ultimo secolo: fare pulizia. Il Novecento nasce dall’asepsi del dottor Semmelweiss?
Magris, che lo ha studiato, lo annovera fra “i collerici antidemocratici” (in “Alfabeti”, 55). Ma Céline è collerico per essere democratico, convinto, “integrale”: senza studi, senza mestiere, senza professione (è medico “di guerra”), e a ogni buona occasione che la vita incidentalmente gli offre, il matrimonio, l’Oms, l’occupazione degli odiati tedeschi contro cui esercitarsi, sempre renitente o disertore. Con la coscienza di scegliere il peggio. Se potesse essere un simbolo, sarebbe il Novecento, secolo meraviglioso (d’innovazione, di progresso) e terribile (di umanità).
G. Bataille (in epigrafe alla biografia di Surya) spiega così l’insufficienza della scrittura: “La scrittura è impotente. Mi manca il viso e la nudità di una prostituta per dire abbastanza male della vita umana che ha fatto di se stessa una facciata e che la dissolutezza riporta alla verità”. La dissolutezza di una prostituta che dà corpo alla scrittura fa sorridere, - sarà un modo per infrangere la regola, o l’apparenza. Ma la scrittura di Céline è questa prostituta ed è la sua descrizione – la sua parola. È infetta e liberatoria, per il principio omeopatico. È la passione insana, ed è l’odio (la rivolta) che rompe la facciata eretta della storia (della ragione) maestra di vita.
Dice la verità, anche nei pamphlet. La dice da escluso (paria), con una parte quindi di paranoia. Ma è solo per questa condizione di escluso che può dire la verità, sulla guerra, il patriottismo, le massonerie, il comunismo, e anche sugli ebrei. Questo suona falso dopo Hitler, ma a quel punto anche Céline era filosemita: l’esclusione conduce alla verità non in virtù della misantropia ma perché rende disincantati.
Ottocento – Perché riprodurlo inamidato? È vivace, di idee, imprese, morale. In pochi anni ha creato il mondo nel quale viviamo, i vapore, il motore a scoppio, l’immagine, l’urbanismo, gli stati nazionali e, in anni che i manuali di storia definiscono della Restaurazione, l’Amore. È oppresso da crinoline, cerchi, collets montés, barbe e baffi incollati, buoni sentimenti, patriottismo, qualche gagliardia e molta ottusità. Questa rappresentazione è improbabile, andrebbe rivisto in canottiera guizzante, occhi e labbra mobilissime sotto i paludamenti piliferi… De Sanctis, Michelet, Verdi, perfino Manzoni (e Tocqueville, etc.), gente elastica, a volta a volta asciutta, sentimentale, razionale.
Stupidità – “La stupidità sarebbe un nocciolo duro e non frantumabile, un primitivo”, annota R.Barthes in uno dei frammenti che compongono “Barthes di Roland Barthes”, 61): “Niente da fare per decomporlo scientificamente (se un’analisi scientifica della stupidità fosse possibile, la tv crollerebbe”). Ma poi prosegue: “La stupidità mi affascina. Il fascino sarebbe il sentimento giusto che deve ispirarmi la stupidità ”.
Più in là (p.132) Barthes torna a interrogarsi: “Stupido?” E si fa due considerazioni:
“Punto di vista classico (basato sull’unità della persona): la stupidità sarebbe un’isteria, basterebbe vedersi stupido per esserlo meno. Punto di vista dialettico: accetto di pluralizzarmi, di lasciare vivere in me dei cantoni liberi di stupidità.
“Spesso si sentiva stupido: è che non aveva che un’intelligenza morale (cioè: né scitbnfica, né politica, né pratica, né filosofica, etc.)”.
Lo studio della stupidità è stupidità? Il comico vi è irresistibilmente attratto, l’autore comico, l’attore. Proprio colui che, esercitando il distacco (l’ironia, la beffa), vi è più allergico, se non altro per paura. Dunque, la comicità ha da fare con la stupidità? È una barriera che si eregge, contro la demenza e contro l’ovvio.
Sade – È una pre-figurazione pop della psicanalisi – di molti temi della psicanalisi. Complica di divieti e tabù le cose più ovvie.
“Filosofo o scrittore comico?”, lo dice Boris Vian (“L’utilité d’une littérature érotique”, 34), che gli imputa “una cospirazione per il dannoso”.
“Esegeta biblico” lo fa Pascal Lainé (intr. a “Blasons et contre-blasons”, 7), il corpo facendo crocevia di conoscenza, desiderio e morte, come nella rappresentazione del peccato originale. Il grande ateo è insomma un credente. Già Flaubert lo diceva, stando ai Goncourt (“Diari”, 9 gennaio 1859): “Sade è l’ultima parola del cattolicesimo”, etc. (inquisizione, tortura e Medio Evo, cioè ribrezzo per la natura). Come dire che lo “spirito libero” è, dialetticamente, cristiano. O non è il diavolo – quante cose non salva il diavolo?
letterautore@antiit.eu
giovedì 27 gennaio 2011
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