Si è detto che se Emma Bovary si fosse scritta da sé la sua storia non ne sarebbe rimasta vittima, come invece la fa Flaubert, annota Magris. E subito dà la zampata: “Questa fiducia nel potere salvifico dell’intelligenza e della conoscenza, secondo la quale basterebbe capire il male e il dolore per superarli e per sottrarsi alla loro morsa, era già improbabile all’epoca di Flaubert e forse è stata sempre ingannevole e precaria”. Nella stessa “sicura e solida classicità” socratica, come poi in Freud – “uno degli ultimi spiriti socratici della nostra civiltà, (giacché) riteneva che capire le origini e i motivi dei propri mali significasse già la loro guarigione”. Tutto queste cose in venti righe.
Il libro è una raccolta di scritti giornalistici per il “Corriere della sera”, dal 22 gennaio 1979 al 14 febbraio 1982, ma è una serie di grandiose intuizioni, vive, vivificanti, sviluppate con mano felice, ispirata ed equilibrata, sempre significative. Con l’ausilio di una filologia appassionata, Magris direbbe “liceale”, di letture curiose con mente disponibile. Seppure limitate all’area germanica, da Ibsen allo stesso I.B.Singer, con incursioni su Borges e Flaubert. Da storico consolidato del Novecento più che da incerto contemporaneista, già trent’anni fa dunque – ma, poi, siamo sempre Novecento. Il critico capisce e risolve - l’incoerenza è male minore, viene dall’entusiasmo e non dall’ipocrisia.
Claudio Magris, Itaca e oltre
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