Magris è un classicista. Cioè è un contemporaneista, ma non legge i contemporanei. Neanche il secondo Novecento, se non per casuali riscontri, qui Semprun, Mo Yan, Achebe, Sábato, Banville, La Capria, e alcuni tributi di generosità, a Stefano Jacomuzzi, Vinicio Ongaro, Patrizia Runfola, Pahor, e altri reperti istriani. Singolarmente trascura le donne. Anche quelle della letteratura germanica. Con l’eccezione, non simpatetica, di Bettina von Brentano – del cui amoroso ventenne, lei vedova sessantenne con sette figli, spinge la cattiveria a evitare di dirci il nome (o per credere, subito dopo, che “ogni vero amore è coniugale, è passione che s’incarna in vita condivisa”?). La contemporaneità è classica, sembra dire: “Abbiamo sempre creduto che, a dispetto delle date, i Kafka, gli Svevo, gli Strindberg, i Beckett fossero i nostri contemporanei… Le date talora mentono: “Il giovane Törless” di Musil è del 1906, ma non è contemporaneo di Carducci, bensì di noi stessi, ai quali appare nuovo e innovatore, ancora difficile da afferrare”, mentre “Il codice da Vinci” è ottocentesco. E tuttavia rinnova, in questa raccolta d’occasione, di note e recensioni sparse per un decennio sul “Corriere della sera”, il fascino della filologia applicata alla realtà, ai testi ma anche alle persone, ai fatti, ai contesti, e della narrazione di narrazioni. “Una volta”, vi racconta nell’aneddoto forse più noto, “in Cina, una studentessa dell’università di Xi’an mi ha chiesto cosa si perde scrivendo. Ardua domanda kafkiana. E leggendo?”
Leggere è un’avventura, di cui Magris sa rendere la scoperta e la sorpresa. Il viaggio inizia da Salgari, con le prime letture, e attiva sempre molti motivi d’interesse, di lettura rinnovata. Anche nei percorsi noti il racconto resta avvincente, per una sapienza della scrittura. Un’ultima lettura sembra contraddittoria, che s’intitola “Il cuore freddo degli scrittori”. Ma è un esercizio a cadavere freddo sull’impegno in letteratura, che non vuol dire niente, se non la noia, con l’ipocrisia.
Scrittore di frontiera, Magris è pur sempre, anche qui, studioso germanista. Un germanista in terra (quasi) slava, se si eccettua una passione locale per Svevo e Marin. Con una puntata sul “Robinson Crusoe”, ma più sulle robinsonnades in ambito germanico (più il Kipling dell’adolescenza, peraltro ottimo e un Conrad kafkiano, “una specie di Kafka uscito all’aria aperta”). Come un cannocchiale che faccia un mondo di un punto, dilatandolo, magnificandolo. Cioè, più o meno, creandolo: la Germania è i germanisti, compatti, colti, coinvolti, apodittici. Con alcuni saggi, “La gioia del declassato”, “L’anticapitalismo nella letteratura austriaca”, “Praga, al quadrato (“il mito di Praga è nostalgia della nostalgia,… nostalgia al quadrato”), “L’idillio del Nordland” e la lettura di Rezzori, che da soli prolungano questo “Alfabeti“ in interminabili letture.
La Mitteleuropa non può mancare, ma infine accuratamente tracciata. “Praga al quadrato“, il saggio del 1978 che Magris colloca al centro della raccolta, ne centra il nodo in Praga, come di “grandezza vissuta nella fine e anzi quale fine”. Che vive cioè quando è morta, della sua impossibilità. L’unità e l’impero sono stati un fatto storico, di una politica e una dottrina cattoliche perdute (l’ultima traccia è quarant’anni fa in “Astraea” di Frances Yates, dopo l’“impero” di Evola e l’Auctoritas di A.Passerin d'Entrèves e Hannah Arendt), ma restano un disegno, seppure impossibile. Di cui la nostalgia mitteleuropea è l’ultimo residuo pratico in Europa – dell’Unione Europea non si sa, nasce esoterica (coperta), regolamentare, padronale (aziendale). Si va per questi “Alfabeti” come per un percorso ben tracciato, seppure sempre nuovo.
Claudio Magris, Alfabeti, Garzanti, pp. 496 € 9,90
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