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lunedì 24 gennaio 2011

Novecento, un secolo di macerie ingombranti

astolfo 

“Una volta il futuro era migliore” Karl Valentin, 1920 circa.
L’ambizione del secolo, penetrare la verità, la realtà, scade nella realtà virtuale, da creare con i guanti, e nel desiderio avvilito (la tv interattiva, di telefonate, telecomandi), nella ritrazione solitaria (il tocca e fuggi della Rete, l’insolenza, ironia, linguaggio bellicoso dei media). Dopo l’Ottocento sistematico, il Novecento curioso e indagatore, disponibile e “aperto” (Popper), ogni secolo ha il suo carattere. Il Settecento anch’esso indagatore ma dell’esistente, il Seicento celebrativo, pletorico, quantitativo (matematico!), il Cinquecento classico (reazione alle divisioni, religiose, politiche, istituzionali?). In controtendenza è andata la politica, in questo secolo sistemica più che mai – ideologica. Per questo aspetto, politico, sarà sicuramente accantonato come il secolo dell’odio. Che ha portato a grandi imperi, per ultimo quello del pensiero unico, e ad ambizioni d’impero mai viste prima, per estensione e nel pensiero (totalitarismi). È per questo che il secolo è finito nell’implosione, etnica, religiosa, politica? Se questo è un adeguamento allo spirito del secolo, se ne dovrebbe dedurre che è uno spirito improduttivo, e forse anche barbarico. È nell’Ottocento peraltro la parte migliore del Novecento: in pittura, nella psichiatria, nella fisica, in letteratura. È lo spirito di sistema che ha preparato, dando loro fondamenta solide, più o meno “vere”, i Cento Fiori. Il Novecento cosa ha preparato? Il Novecento è stato il parossismo dell’Europa prometeica, un avvitamento, un delirio. Il primo industrialismo, a metà Ottocento, aveva maturato l’idea che una nuova specie di uomini, con un’altra storia, fosse in arrivo: è la traccia che da Saint-Simon, Fourier e Marx porta a Veblen e, nel delirio, a Nietzsche. Nietzsche naturalmente fa molto di più, fiutando con alcuni decenni d’anticipo l’uomo massa e la società di massa - che è l’unico segno di realismo (rifiutato, snobisticamente, non aristocraticamente) del secolo. Poi venne l’idea, specialmente teorizzata da due che l’avversavano, Jünger e Heidegger, che la tecnica portasse una nuova specie di uomini. Alcune tracce di questo Prometeo si collocano su quelle del nazismo, della pulizia etnica. Altre su quelle del comunismo staliniano, e dell’imperialismo americano, della potenza militare sconfinata. Entrambe quindi si possono dire suicide, da ultimo con gli euromissili di Breznev e le guerre stellari di Reagan – che non sono preistoria, sono ieri. Oppure si può dire il secolo dalla igiene del mondo. Dalla eugenetica allo ambientalismo. Si può dire, dopo Semmelweiss, il secolo dell’igiene che porta alla pulizia. Del corpo, e morale, politica, etnica, genetica (l'eugenetica non di Hitler ma della Scandinavia, degli Usa, fino a un certo punto della Gran Bretagna, e ora della Onu). Di arcigni difensori che, abbattendo grandi varechinate, si lasciano dietro campi desolati. È una ideologia persistente: fare pulizia. Il Novecento è stato igienico con Semmelweiss, poi, col fordismo, s’è adagiato sui consumi di massa, molto sirenusa, e infine, con l’automazione, sul tempo libero. Ma con effetti, a una sommatoria, non entusiasmanti. “Una volta il futuro era migliore” poteva dire negli anni 1920 il cabarettista tedesco Karl Valentin, a maggio ragione alla fine del secolo. Sarà stato il secolo primo della secolarizzazione del mondo – della riduzione del mondo a evento materiale. E per questo aperto ancora a ogni sviluppo. L’Ottocento che l’ha avviata la viveva ansioso, incerto, il Novecento senza residui. Con esiti insieme brillanti e nefasti. Stragi senza precedenti, per grado di odio e devastazioni, progresso economico e tecnico senza precedenti. Mentre il sacro si è ridotto alla storia delle religioni e a una generica buona condotta: giusto e ingiusto, amico e nemico, piccole categorie, astratte e temporanee. Sarà stato il secolo dei semplificatori, la religione dà le proporzioni. La globalizzazione dovrebbe ridimensionare la febbre d’onnipotenza. Che però può sempre nuocere gravemente: l’idea che tutto è possibile lungo l’asse denaro-potenza è sempre, malgrado il Novecento rovinoso, fortissima. Avrebbe dovuto essere il secolo della pace e delle miti pretese (la civiltà dei consumi può prosperare solo se le pretese si danno dei limiti), le premesse c’erano, e il trionfo dell’Europa. Ne ha sancito la fine? Due o tre generazioni ha inanellato nella sua seconda metà senza guerre, non in Europa: non era mai accaduto nella storia. Ma l’Europa non ha appezzato: subito si sono formati corpi di volontari, pagati, che vanno in giro per i mondo a mantenere la pace, con la guerra. Senza insomma sapere in realtà che stanno facendo. Con la civiltà di massa il Novecento ha scosso le più antiche, vaste e radicate tradizioni, in Cina, Giappone, India e in tutto il continente asiatico. Le ha spazzate via, dopo che avevano resistito a ogni più selvaggia coartazione, compresa la bomba nucleare. Può essere il senso di questa civiltà, fordismo e mass media, più potente di ogni forma di armamento, negativo? Il Novecento ha testimoniato, e voluto, i peggiori eccidi della storia: le guerre totali, i campi di sterminio, le pulizie etniche. Mentre si godeva, e propiziava, la più grande e diffusa prosperità della storia. Ma il risultato non è a somma zero. La società di massa, retta da criteri quantitativi, non ha consistenza etica: ha l’etica che le viene assegnata, quella hitleriana come quella castrista. Di per sé ha bruciato ogni barriera contro la violenza (il rispetto della proprietà e della vita) e contro la menzogna. È presto rimasta a corto di linguaggio e si aggira smarrita come il classico gregge di montoni: incorna e basta. È l’esito del romanticismo, una religione della libertà che solo poteva sconfinare nel totalitarismo. Una religione della libertà è inappagabile perché insoddisfacente per principio, alla ricerca di un assoluto che è un di più sfuggente, per quanti recessi si muova a esplorare, dell’inconscio, dell’orrore, dell’aldilà, dell’amore, della morte. È qui la radice della crudeltà – psicologica e sociale, verso se stessi e verso gli altri – nella quale si è liberamente esercitato il secolo. Al meglio s’insabbia nella “scuola del sospetto”, come la chiama Paul Ricoeur, Marx, Nietzsche, Freud. Del quale Magris fa il fulcro-verità del Novecento: “L’analisi freudiana ha dissolto ogni preteso fondamento originario immune dalle contraddizioni della vita, ma ha scoperto in tal modo lo «spaesamento» dell’uomo, la conturbante – e non inebriante – assenza di patria”. Lo ha scritto a gennaio del 1979, e lo ripropone nel 2005, in “Itaca e oltre”, senza ripensamenti. Freud non è invece espressione del secolo “dissolto”? È il Novecento il secolo razionalista, tecnico? O non è il ritorno della magia, della stregoneria? La Bomba, Freud, anche Benjamin, e la letteratura della decadenza, della rivolta? Si dice: la caduta delle illusioni. No, è stato la barricata delle illusioni. Quante delle sue catastrofi sono dovute alla razionalità micragnosa, e quante invece ai sogni di grandezza? Sarà stato il secolo del processo, costante, indistinto, interminabile (Kafka). Per la demoralizzazione dell’Occidente (Spengler, J.P.Aron). Per la decadenza (S.Mazzarino). E del complotto anche. Per via della guerra, costante, generale, suicida (senza limiti). Le due cose sono legate. Va in archivio proiettato sul futuro, per il balzo nella tecnica, sanità, elettronica, avionica. Mentre è stato l’esaltazione, l’esasperazione, del passato: ideologie, ragione di Stato, guerre di religione, odio di razza, tutte cose note per la loro negatività. Il passato che non vuole passare - per il culto della storia? - rende il futuro impossibile. Il secolo si è per questo chiuso con l’età dell’Acquario, il dilagare dell’astrologia e le scienze occulte, passione che è sicuro in dice di confusione mentale. Forse un modo per evitare la follia e la violenza - pulsioni dunque perduranti? Storicamente l’occulto segna l’inizio, o la fine, di una civiltà. L’inizio di una civiltà è un salto nel buio, che porta terrori (violenze) e religioni. Ma inizio e fine sono un continuum. Se la paura si esprime con i segni della certezza, sia pure astrale, allora è la fine, per quanto lunga, di qualcosa. Per esempio dell’Europa. Forma senza sostanza È un cumulo di macerie letterarie, oltre che umane e politiche, dalla guerra di Libia alle pulizie etniche. Di infamie. Tre quarti del centinaio di premi Nobel per la letteratura, che avrebbero dovuto illustrare il secolo a partire dal 1901, sono già sconosciuti. Un’altra diecina, avendoli letti e riletti, sono questionable: Hamsun, Selma Lagerlöf, Deledda, Mistral, lo stesso Quasimodo. Bergson è un filosofo. Churchill è Churchill. E chi non ha avuto il Nobel? È rischioso rispogliare Musil. Anche Joyce, malgrado la simpatia dell’uomo. Nasce da qui l’affanno del Millennio, che non si sa liberare da questo passato ingombrante, che lo artiglia coi suo paralogismi persistenti, come è arduo rimettersi in piedi dopo un forte terremoto. Il progetto di rivoluzione applicato anche alla letteratura e alle scienze umane, di rinnovamento sempre radicale, ha creato un cratere e non una montagna, sebbene pieno di miliardi di scritti inutili e scienze di nessun esito, una sorta di discarica. Da cui si ricava poco o nulla, una raccolta differenziata avrebbe margini ristrettissimi, i grandi scrittori, i grandi artisti del secolo prenderanno brevi paragrafi, se ancora ci saranno storie delle letteratura e dell’arte, in questo senso il secolo è stato un terremoto molto distruttivo. Tutta la letteratura razzista e, molto più numerosa, quella classista. Il futurismo, il dadaismo, il surrealismo, le avanguardie, la scuola, la semiologia, la linguistica, la sociologia, la sociologia della letteratura, l’ermeneutica. Da Saussure a Eco, compresi Jakobson, Benveniste, Barthes, Todorov, Kristeva, eccetera. Tutta la scrittura, con l’eccezione di qualche poeta, che pure ci sarà, e una menzione per lo sforzo di Proust. Tutta la psicanalisi. Tutta la filosofia tedesca e tedescofila, quindi francese (Genette, Derrida, Ricoeur, Blanchot….) e italiana, eccetto Hannah Arendt. Con Hannah Arendt sono del resto le filosofe donne la novità del secolo, che sole lasciano traccia: Lou Salomé, Simone Weil, Zambrano, Hersch, Anscombe, la temibile Ayn Rand, Rosa Luxemburg, Agnes Heller, Luce Irigaray, anche Edith Stein. E Karen Blixen, Iris Murdoch, Cristina Campo - benché vittima dell’idea che la vita non merita un libro. Le arti, la filosofia, la stessa scienza, perfino la musica, che pure sente i momenti marziali, vi hanno lasciato ghirigori surplace. L’epica è salvata dal Far-West al cinema, la fantasia dal giallo, la poesia dalla sintassi, magari destrutturata, il pensiero dai giochi. Il Novecento sarà stato Proust - con Joyce e Musil: l’alluvione incontenibile dell’io narrante, prospettiva, entità e tutto, nella quale ovviamente la storia e gli eventi, pure tragici, inverecondi, si stemperano. Non bastano cinquecento pagine per dare rilievo a Albertine, oltre alle centinaia sparse qua e là, al di fuori della psico-sociologia dell’epoca, fine secolo datatissimo, soprattutto nel modo d’essere delle passioni, dalla gelosia allo snobismo, on aggiunte di maschiettiamo dopoguerra. Alle genericità rimediandosi con le trasgressioni da campionario clinico, alla Krafft-Ebing. Avrà prodotto personaggi stinti, dai duchi di Proust a Bloom e consorte, agli innumerevoli borghesi manniani, senza volto, né bello né brutto. Compresi naturalmente i personaggi per questo costruiti, da Pirandello, Céline, Gadda, Calvino, per filosofia di vita. Ma non è stato un secolo filosofico: è sulla difensiva (la filosofia della crisi fatica a emergere come filosofia, essendo un derivato della disperazione, o dell’isolamento – da refoulés o laissés pour compte), e cerca vie d’uscita (assoluzioni, consolazioni, speranze, indulgenze). Perché è stato governato dalla forza, malgrado i tanti ineluttabili fallimenti: tedeschismo, nazismo, comunismo, imperialismo, per finire – ricominciare – con la pulizia etnica, e c’è al varco la povertà di ritorno. Nella musica, la pittura, la scultura, l’architettura, l’arte del secolo è solo forma. Nella letteratura ci ha tentato, con poco risultato: ha prevalso l’industria - l’editoria e la libreria saranno il nostro Milite Ignoto. Ha dimenticato l’esposizione (orientamento), la luce, l’ambientazione, i colori, il disegno, la solidità. È regole e programmi, camuffati da ideologie, e conditi da tecniche – la razionalità a bassa intensità. Che peraltro sa usare in misura minima, nulla al confronto con le arti popolari che le tecnologie mediano dall’arte ma sanno mettere a frutto: la musica pop, la grafica, la pubblicità, i non luoghi (stazioni, aeroporti, stazioni di servizio, centri commerciali). Può suscitare emozioni ma indotte, come con la propaganda. È abrasiva, nel nome dell’autocancellazione. Di modestia esibita quindi, programmata, ideologizzata. Per finire nel mercato dell’antimercato, il più perfido. Per alimentare un’avanguardia che è vecchia ormai di un secolo: l’artista nasce sterile, geneticamente ora, di quarta o quinta generazione, dopo la sterilizzazione ideologica. Il Novecento letterario è una curiosa riedizione del formalismo del Seicento - sebbene testimone di eventi eccezionali e mostruosi: le due guerre, l’atomica, l’ombrello atomico, gli stermini, di armeni, kulaki, ebrei, slavi tra di loro, e un benessere impensabile. La letteratura e l’arte ci hanno viaggiato accanto privilegiando i problemi di espressione: le avanguardie, lo strutturalismo (formalismo) russo e francese, la nuova retorica dei semiotici, da Sklovskij e Jacobson a McLuhan e Barthes, le infinite derive poetiche del simbolismo (romanticismo, che ben sapeva la “natura” della natura). Il dramma privilegiato della Zeitkultur è la psicanalisi. Psicanalisi come freudismo, cioè un ritorno, ritorno allo stato prenatale, e come junghismo, cioè un recupero del fantastico, ancora e sempre, malgrado lo scientismo, romantico. E la filosofia della crisi, che culmina in Heidegger, un’implosione allo stato infantile, una scoperta a tastoni e a gattoni dell’esistenza e dello spazio, gentile e incerta. Nella Zeitkultur non mancano le novità, la tecnica, la democrazia, il neo positivismo logico, o neo razionalismo. Ma sono rifiutate. Rompono l’hortus conclusus del formalismo, sono elaborate e pensate in maniera e misura insufficienti (Popper no, ma… ), oppure non sono abbastanza consolatorie? L’effetto del formalismo, sotto l’apparente disperazione, in omaggio all’epoca, e la “ricerca” affannosa, tutto è ricerca, è la chiusura in se stessi. Nel circolo, nel gruppo, nella comunità d’interessi. Che si presenta come rifiuto, e resistenza (al capitale, allo sfruttamento, alla modernità “disumana” – Pasolini), ed è una forma di autoreferenzialità, di consolazione. La letteratura è, per la prima volta, monotematica e formale, radicalmente, nel secolo più fattivo (non si può dire costruttivo) della storia. Fino a tutto l’Ottocento si voleva piena di cose. Le cose del Novecento letterario sono presto dette: Proust: “Gli svaghi di un ragazzo un po’ malato (molto avviene a letto)” Céline: “Un cavaliere contro la guerra” Joyce: “Sesso e lingua (sesso è lingua?)” Kafka: “?” Musil: “Far parlare l’afasico, con protesi stuzzicante (l’omosessualità, l’incesto)” Thomas Mann: è dell’Ottocento Hemingway: “A caccia e a pesca” Calvino: “La superficie delle cose” Sciascia: “Siamo tutti siciliani – per non esserlo” Pirandello: è di tutti i secoli, come Shakespeare. Non è la prima volta, abbiamo avuto Petrarca, l’ellenismo, i lirici greci: questa malinconia dello spirito è ritornante, l’autismo della parola. In Italia il Novecento delle arti è inglobato tra fascismo e comunismo, e questo è tutto: troppo, e niente. Stare nel partito Comunista “rappresentava una garanzia di potere, sopratutto intellettuale”, come disse Cesare Cases, uno dei pochi non ipocriti, interrogato per i suoi ottant’anni da Antonio Gnoli su “Repubblica” a fine secolo (30 gennaio 2000). Studiava in Germania orientale nel 1956, “e assistetti a tutto”, dice: “L'ultima cosa che vidi come testimone fu la seduta del partito (Comunista) in cui si scomunicò Ernst Bloch”. Si poteva scomunicare un Ernst Bloch. Alcuni altri: Corrado Alvaro, Dino Buzzati, Mario Soldati, Guido Morselli, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Primo Levi, uno dei capisaldi del secondo Novecento, Carlo Cassola, che ne soffrì molto, Vitaliano Brancati, Guido Piovene, Ennio Flaiano, Landolfi perfino. E lo stesso Arbasino. Ma si poteva stare nel partito Comunista ed essere perseguitati. Giacomo Debenedetti, per esempio, che per l’“Unità” eseguì alcuni killeraggi, famoso quello di Corrado Alvaro, che accusò di fascismo per “L’uomo è breve”, romanzo antitotalitario, fu bocciato per non essere abbastanza diligente al concorso a cattedra da Sapegno, altro emerito esponente del Partito, e restò precario a vita - fu bocciato tre volte, l'ultima prima di morire, a 66 anni (Sapegno ne pronunciò poi l’elogio funebre). Poche le persone libere e non censurate. Di cui si ricorda solo Gianfranco Contini. Al meglio sarà stato dunque il secolo algido dei Contini – grande lettore peraltro, di Gadda, Pasolini e quant’altri, e senz’altro il migliore della coorte di filologi e linguisti che hanno occupato gli spazi e gli interstizi, a nessuno o scarso effetto (si rileggano le “Note azzurre”, che Isella ha voluto pubblicate, cioè “Contini”, con gran corredo critico, e ora si ripubblicano, o “Il Fiore di Dante” dello stesso Contini, e non ci si crederà, non si crederà possibile).

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