Giuseppe Leuzzi
Alvaro, o l’odio-di-sé meridionale
C’è un problema biografico di Corrado Alvaro, un nodo per il quale i familiari e gli eredi avrebbero offerto poca collaborazione ai biografi, ed è il suo rapporto con San Luca, il paese di origine. Che se ne fa simbolo e vanto, ma solo da qualche tempo: a lungo il paese non riconosceva lo scrittore, mentre lo scrittore se ne teneva lontano, se non per due-tre visite di poche ore, per la morte del padre, per la madre, in quarant’anni.
L’opera di Alvaro invece, che pure è lo scrittore più cosmopolita del Novecento, è “piena” delle origini: del paese, della Montagna (l’Aspromonte), dello Ionio, della Calabria. Per l’ambientazione spesso, un po’ ovunque per i richiami, di odori, sapori, luci, miti, modi di essere e di dire. Un’ambivalenza che lo apparenta a uno dei maggiori scrittori del Novecento, Thomas Mann.
Analizzando il rapporto di Mann con la sua città, Lubecca, che è il mondo del suo capolavoro, “I Buddenbrook”, Claudio Magris lo trova analogamente sdoppiato (“Thomas Mann, demoniaco e ufficiale”, in “Itaca e oltre”). “I Buddenbrook” “ricalcano minutamente tante figure della città”, come in piccolo fa Corrado Alvaro con San Luca e Platì in “Gente in Aspromonte”. Provocando “un risentimento unanime”, dice Magris di Mann, che è vero anche per Alvaro. Pure la ragione è forse la stessa: “In parte”, dice Magris di Th.Mann, “per un’effettiva mancanza di carità con la quale egli spesso ritrae i personaggi reali, abusandone parassitariamente per farli oggetto della sua rappresentazione letteraria piuttosto che partecipando con vero amore al loro destino; in parte per l’insuperabile equivoco che sempre che sempre sorge fra un mondo e la poesia che lo rappresenta”.
Più problematico, ma forse non meno vero per Alvaro che per Mann, è come questa discrasia si forma: “Il legame di Mann con la sua città era uno spirito conservatore rivolto contro se stesso”. Uno “spirito borghese conservatore” che “è anzitutto autocritica, ironia”. Nostalgico e dissolutore.
Sudismi\sadismi. Il “Corriere della sera” pubblica un lungo articolo sul porto container di Gioia Tauro, che dopo quindici anni di traffico record, da primato nel Mediterraneo, ricorre per la prima volta alla cassa integrazione. Per quattro turni operativi, trenta ore complessive.
Il porto è “il faraonico progetto le cui radici affondano nella Cassa del Mezzogiorno”. E naturalmente è controllato dalla ‘ndrangheta. La triplice condanna è questa volta a firma di Massimo Sideri, che sembra un cognome calabrese.
Napoli
Goethe ha divulgato “Vedi Napoli e poi muori”, frase famosa, anche per il duplice significato. Se si chiarisce col prosieguo, sempre di Goethe: “Non sarò mai davvero completamente infelice, poiché ho visto Napoli”.
La Germania ride, tutta la Germania, da Monaco a Lubecca, per le intemperanze di Berlusconi, e per i rifiuti che Napoli manda da smaltire a Amburgo. Su treni e autotreni tedeschi. Non riesce a capire, la Germania, come Napoli possa spendere così tanto per smaltire i suoi rifiuti.
Per molti che ci vanno per lavoro, Napoli non sembra così sporca come ce la mostra la televisione da alcuni anni. Era già sporca prima?
Anche la città, che si ribella per tutto, non si ribella per i rifiuti.
Napoli ha molte eccellenze: alberghiere (i grandi direttori d’albergo sono sempre stati napoletani: gli alberghi sono macchine complesse da gestire), culinarie, sartoriali, librarie, metalmeccaniche, musicali, artistiche (pittura, scultura), nonché poliziesche e giurisperite. Ma si è sempre governata male, dai tempi di Alfonso il Magnanimo, sono cinque secoli. Con applicazione, e al solito con studio, anche della distruzione di sé ha fatto un’arte e un’eccellenza, imbattibili. Come se volesse farsi perdonare. O fuggirne, con tutte le eccellenze.
Calabria
“Simultan”, il primo racconto di “Tre sentieri per il lago” di Ingeborg Bachmann (e quello che dava il titolo originale della raccolta “Simultan, Neue Erzälungen”, nuovi racconti), si svolge “in Calabria”. In “un albergo in Calabria”, in “un villaggio della Calabria”. Che invece è Maratea. È un racconto dell’anno in cui Adorni vinse il mondiale di ciclismo su strada, quindi il 1968, pubblicato nel 1972. Allora si andava in Calabria. La ‘ndrangheta, sembra impossibile, è venuta dopo, con la squalifica della Calabria.
I selvaggi e le scimmie, si diceva, non sorridono. Ma con la civiltà il sorriso si è molto diradato, la civiltà di massa. In Calabria invece è fortissimo: un bisogno insopprimibile, anche sconveniente. È un bisogno di tutti, per tutti. In una regione “barbara”, si dirà, ma è la cifra di un linguaggio non semplice, perfino troppo articolato: tutte le forme sintattiche, dirette, indirette, negative, affermative, si dicono umoristicamente.
È la realtà dissolta (la dissoluzione della realtà)? L’umorismo è un dire impreciso. Forse per voler essere complesso, troppo complesso, è “aperto”, cioè inconcludente.
È la vena naturale che si è imposta a Pirandello quando si è dissolto il suo paradigma borghese (studi, viaggi all’estero, carriera accademica, casa con decoro sulla Nomentana), quando il paterfamilias e la famiglia si sono dissolti nella nevrosi della moglie.
“E a cantari\ su’ sempre i mafiosi e i generali”, Pino Macrì conclude rapido la sua “A storia è glià”, la storia è là, la storia della Calabria sempre occupata avendo ridotta a una rapida ballata. Sulla quale Paolo Sofia e Peppe Platani, i Quarta Aumentata, possono imbastire allegri una pizzica.
Il romanzo di Michele Giuttari, “La donna della ‘ndrangheta”, si traduce negli Usa con “Death in Calabria”, subito acquisito, tradotto e lanciato, da primaria casa editrice. Il nome ha dunque un richiamo.
Giuttari apre i suoi libri con fantastiche citazioni, appetitose. Ma è di Messina, e per continuare a scrivere appetitoso deve dunque parlare di Calabria e Aspromonte, guardando il quale è cresciuto. Che identifica nella ‘ndrangheta, da bravo sbirro. Forse per giustificarsi, in questo “La donna della ‘ndrangheta” si spinge a rintracciarne l’etimo addirittura nella “Summa Theologica”, andragathìa, virtù eccellente per Tommaso d'Aquino, la capacità di operare il bene - i sardi direbbero balentìa, insomma ci siamo intesi. E bisognerà dunque sobbarcarsi, era inevitabile, anche alla filologia della 'ndrangheta. Mentre gli ‘ndranghetisti sono brutti ceffi.
Capo della Mobile a Firenze, Giuttari risolse e non risolse il caso del Mostro, la catena di oltre venti assassinii, con torture e mutilazioni. Affogò in appello a opera dell’avvocato Nino Marazzita di Palmi, la cittadina alle pendici dell’Aspromonte. Figlio del sindaco e senatore di Palmi avvocato Giuseppe Marazzita, socialista, che Palmi ha sempre rieletto, Nino Marazzita, già studente di regia cinematografica al Centro Sperimentale con i coetanei Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio, a Firenze ha difeso e praticamente fatto assolvere Pietro Pacciani, l’imputato principale di Giuttari.
Il “compagno di merende” Mario Vanni, invece, fu condannato anche in appello, benché difeso da Nino Filastò, anch’egli figlio di avvocato calabrese. Ma di suo romanziere.
Ci sono stati avvocati che vincevano sempre le cause. Il più famoso è l’avvocato Mazzeo di Palmi,che è stato presidente democristiano della provincia, e candidato non fortunato al Senato. A Reggio l’avvocato Panuccio era famoso per vincere sempre le cause in Appello.
Poi, quando a Palmi la Procura della Repubblica passò a sinistra, le cause le vincevano gli avvocati Bajetta e William Gioffré.
In un piccolo supermercato a Roma in via dei Serpenti, che ospita un comparto di prodotti calabresi, lavora come inserviente un ragazzo albanese. È meravigliato e un po’ scioccato da alcuni arbërëshe che sono appena usciti, albanesi di Calabria, che lo hanno rimproverato perché non capiva la loro lingua – il loro dialetto. C’è sempre qualcuno più nazionalista (etnico, puro) degli altri. Ma nei paesi viciniori in Calabria gli albanesi sono ritenuti superbi, per il loro senso della differenza.
Una insolenza del lessico più che dei modi, e delle forme grammaticali, in “curioso contrasto colle vecchie e molli genti greco-latine del Mezzogiorno”, Cesare Lombroso, giovane medico con le truppe antibrigantaggio in Calabria nel 1862, nota nei suoi appunti pubblicati con quel titolo, “In Calabria”, nelle colonie grecaniche e in quelle albanesi: “La statura è media, il temperamento bilioso; l’animo fiero, iracondo, testardo, impavido…”
La Madonna della Consolazione, protettrice di Reggio Calabria, è chiamata l’Avvocata.
La “Gazzetta del Sud”, che si pubblica a Messina ma è da sempre il giornale della Calabria, ha un supplemento per i ragazzi il giovedì, “Noi Magazine”, che significativamente sottotitola “il settimanale degli studenti per gli studenti”. I testi e i disegni sono firmati con l’indirizzo delle scuole. I titoli sono: “Il primo giorno di scuola”, “Il mio paese”, “L’inverno”, “L’estate dai nonni”, eccetera, per molte pagine. Dopo una prima su temi sociali: “Stop alla violenza negli stadi”, “Omosessuali si nasce o si diventa?”, “Violenza in tv”. Dal vecchio tema in classe al nuovo politicamente corretto.
La prima emigrazione, informa Lombroso negli appunti “In Calabria” (1897) , fu delle balie in Egitto, “pei lauti stipendi che vi avevano”.
Una società e la natura vittime dell’abusivismo di necessità, la natura dei luoghi e i caratteri, che i debiti a vita rendono tristi, amari e violenti. Il cosiddetto abusivismo di necessità è quasi sempre un palazzo di trenta o quaranta metri di lato, quant’è grande il pezzo di terra acquisito, per tre o quattro piani di altezza, che inevitabilmente si ferma allo scheletro in cemento armato, o ad un abbozzo di scheletro. Senza muri e quasi sempre senza tetto. Scheletri di cui il paesaggio, i vicini, e l’igiene soffriranno a vita. Ma in compenso con un debito inestinguibile per la famiglia.
L’idea della casa è all’inizio quella del più ricco del paese. Poi quella di sopravanzare comunque il vicino di un piano. E sempre si conclude nel non finito, e nell’amarezza accresciuta dello spirito di rivalsa. Perché assorbe i risparmi di una vita, più una cifra, quasi sempre di uguale ammontare, presa a mutuo dalla banca, il cui ripagamento obbligherà a una vita di perpetuo sacrificio, e ad altri debiti – non escluso, benché raro, il ricorso all’usuraio.
Gli amministratori, che non fanno rispettare i piani di fabbricazione, nemmeno nei tanti paesi della provincia a rischio terremoto, in virtù dell’abusivismo di necessità, finiscono per essere complici delle banche. Invece di indirizzare i meno ricchi e i poveri al rispetto di se stessi, a una gestione equilibrata, anche solo in forza della legge, nonché al rispetto dei vicini, del paesaggio e della tradizione, del vivere come si sa e si può, li impoveriscono definitivamente. E con essi gli interi paesi, che anche le abitudini di spesa più costose non traggono fuori dallo squallore, ambientale e civico, anzi, dove possibile, lo accrescono.
leuzzi@antiit.eu
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