sabato 29 gennaio 2011

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (78)

Giuseppe Leuzzi

La squalifica del Sud
All’inizio del 1975 dal “Mondo” milanese Pasolini scrive a Gennariello per fargli la morale. A un ragazzo che non è un napoletano ma il napoletano, “simpatico”. Pasolini e il settimanale della borghesia scrivono dunque alla macchietta del napoletano, e perché? Perché a Napoli “sono rimasti gli stessi di tutta la storia”. Il poeta ben sapeva che borghesi e proletari, le loro storie si erano unificate nel consumo, anche violento. Ma per Napoli fa un’eccezione: “Un giorno mi sono accorto che un napoletano, durante un’effusione, mi stava sfilando il portafoglio; gliel’ho fatto notare, e il nostro affetto è cresciuto”, scrive. Indiscutibile, se l’“effusione” è durata “un giorno”. Ma questa non è più ipocrisia, è dileggio: l’“affetto” per “un napoletano”, non per un ragazzo ma per una generalizzazione, un codice.
Tutta l’antropologia di Pasolini è povera, se si leggono “L’odore dell’India”, “Il padre selvaggio” e “Appunti per un’Orestiade africana”. Provinciale, da vacanze intelligenti. Diversi sono questi mondi nei film (non negli “Appunti per un’Orestiade”, documentario molto avulso in realtà dall’Africa), dove prevale la forte capacità pittorica di Pasolini, di dire (e di vedere) in immagini. È anche da dubitare, lui che voleva bene ai contadini con la zappa, che abbia mai visto la povertà reale. Che ha incrociato, così diffusa e aggressiva in Africa, in India, e presumibilmente nel Friuli della sua giovinezza, ma senza vederla. O che l’abbia vista ma non vissuta, il sudore, i calli, il fango, la schiena rotta. Che il suo non sia virtuismo piccolo borghese, che non può fare a meno del patetico, in chiave vittimistica, la forma peggiore di spregio dell’oggetto. Con la cresta neo realista, che i poveri fa scemi, la povertà destino e dannazione. Le istruzioni a Gennariello infittiva di un “proverbio sublime” di un “amico di Chiaia”, il quartiere dei buoni: “Il mondo è dei buoni, ma i cojoni se la godono”. Una quadruplice impostura. Perché non è un proverbio. Perché “il mondo è dei buoni” è costruzione toscana, dell’italiano Rai-manzoniano che Pasolini deprecava, e non napoletana, né lo sono i cojoni. Perché i coglioni non godono in realtà. E perché, se anche fosse, non sarebbe sublime.
Era anche un momento particolare per il poeta, che di lì a poco morirà assassinato. Il sesso libero, non più perseguibile, irritava Pasolini, che passava a godere al buio di “Petrolio”, ripudiando la Trilogia della vita, i cui nudi, napoletani, arabi, bollava d’“immondizia umana”. Riconoscendo, senza vergognarsi o pentirsi (o era pentimento scriverlo nei giornali dei borghesi “belli-e-buoni”) che “niente necessita di una più accanita e matta energia che il desiderio di possesso”. Mentre la scuola obbligata, cioè gratuita, diceva “un crimine”. Ma nel suo Sud, che pure conosceva per molteplici contatti, lo stereotipo è stato fisso.

Nel 1967 si tenne a Bari un convegno dell’Associazione di studi letterari italiani. Alcuni dei partecipanti furono coinvolti da Maria Corti in una gita a Otranto, dove, racconta il torinese Giorgio De Rienzo sul “Corriere della sera” mercoledì 26, videro “un noto mosaico a pavimento di una chiesa”. Di fronte al quale, continua lo studioso, “uno dei miei colleghi torinesi” pose il quesito se l’opera fosse di destra oppure di sinistra. Dunque, tutto muta, tutto perisce e rinasce, ma in peggio? Molto leghista quel “noto mosaico a pavimento di una chiesa” di uno dei capolavori dell’umanità - dopo l’ubriacatura di destra e sinistra.

Mafia e antimafia
Giovedì 27 Salvatore Cancemi è morto, il più famoso dei pentiti. Anche il più bugiardo. Nessuno se n’è ricordato. Quest’uomo ha fatto e disfatto Palermo, la Sicilia e mezza Italia con le sue bugie. Una creatura di Ilde Boccassini quando fu a Caltanissetta. Un pentito che sarà dichiarato “altamente inattendibile” da quattro tribunali, e persino condannato all’ergastolo, caso unico, a cui la magistrata insegna “l’arte del pentimento”.

Cancemi, scrive Lino Jannuzzi in morte, “nel suo ruolo è un fenomeno, e lo è due volte: perché è il primo mafioso che si è pentito prima di essere catturato (bussò all’alba alla porta della caserma dei carabinieri), ed è anche l’unico che ha restituito un po’ dei soldi rubati (li fece ritrovare in Svizzera, sotterrati sotto un albero)”. Solo che per mesi Cancemi non racconta niente, “non dice nemmeno che ha partecipato personalmente alle stragi di Capaci e di via D’Amelio: «Il mio pentimento - dirà quando lo scopriranno per le rivelazioni degli altri pentiti - è come una vite arrugginita che si svita lentamente e a fatica»”. Il suo interrogatorio del 18 febbraio 1994 è un manuale: il giudice dice e il pentito conferma.
La magistrata si era fatta distaccare da Milano a Caltanissetta per indagare la strage di Capaci. Ma a Cancemi chiede solo di Berlusconi – che ancora doveva vincere le elezioni.

Sudismi\sadismi - “È Zingaretti il mio Obama”, proclama il comico Albanese, e non per ridere. Non Montalbano ma il fratello, che è politico di professione e presiede la provincia di Roma. Il comico ha una due giorni pienissima: deve occupare ogni interstizio, in modo che “tutti” vadano a vedere subito il suo film “Qualunquemente”. Che immortala il suo personaggio Cettolaqualunque, il politico nemico di ogni regola.
Cettolaqualunque il comico, di Olginate in provincia di Lecco, fa con grande sensibilità calabrese. E il suo film “Qualunquemente” fa uscire in seicento copie, che lo vedano tutti subito, senza passaparola – il marketing più aggressivo, che lascia lo spettatore senza parole, e quindi anche disonesto.
Per essere equanime Albanese dice che anche Vendola non è male.

Aspromonte
Claudio Magris evoca a proposito di Praga (nel saggio “Praga, al quadrato”, ora nella raccolta Alfabeti) un “triplice ghetto”, della comunità ebraica dentro quella germanica, dentro la città ceca. A sua volta parte, si può aggiungere, di un impero bicipite e anzi decentrato ma pur sempre soprammesso. Avviene così in questo territorio di frontiera, mondo a parte, inesplorato.
Nell’Aspromonte la vita agreste è avvolta nelle spire della malavita, dentro un’Italia che al meglio è assente. Una “condizione di artificio e di serra”, che porta “sradicamento e inautencitià”, la vita quotidiana lasciando nella “spettralità” e all’“umorismo grottesco”. Non amaro ma, in queste balze, insopprimibile: la Montagna si può dire che parli solo nel dileggio, anche di se stessi. Si vive come in un mondo non proprio, quasi estraneo, sempre provvisorio. Nell’incomprensione, di sé e dei luoghi, anche se non nell’incomprensibilità.In una sorta di continuo smarrimento, benché vigili, si galleggia frastornati. Da qui, anche l’incostanza, la manca di applicazione.
Praga è letteratura, l’Aspromonte vita vissuta, modesta, ma l’irrealtà non vi è meno feroce. Tra la sacralità antica di Polsi e i romitaggi, i romances portati dal Nord, di forti stolidi eroi, spiriti cattivi, fate e magheggi, su per gli anfratti angusti e bui, le fiumare scroscianti, o altrimenti lievi chiocchiolanti, il silenzio sonoro degli alpeggi, gli sproni rocciosi. Lo stesso Parco che si è creato per proteggerci è remoto, incerto, con tutti i suoi minuti regolamenti, le forestazioni, i ripopolamenti, fatto per le molte guardie che non guardano: una superiore aerea cupola, di nessuna protezione o ispirazione. Le tante energie che la Montagna sprigiona si disperdono. Si procede guardandosi attorno, senza mai trovare un punto fisso, un falso scopo direbbe l’arte militare dell’artiglieria, un ancoraggio, una geometria che ci integri. Il grande bosco sul mare che ne fa l’unicità è una sospensione, senza confini né punti d’appoggio, si respira a fatica per la troppa aria. Una società mite dentro una facinorosa, arrogante, in un’Italia che non ti considera e non ti accetta, dove quindi è difficile considerarsi, accettarsi – provvedersi, illustrarsi.
L’isolamento comincia nel 1861, l’abbandono: la desertificazione, l’inselvaggimento, e la scoperta del “sud”, falso, abominevole. “Un’esistenza lemurica”, dice Magris delle eccellenze praghesi, ben trovato. L’isolamento comincia nel 1861, l’abbandono: la desertificazione, l’inselvaggimento, e la scoperta del “Sud”, falso, abominevole. “Un’esistenza lemurica”, dice Magris delle eccellenze praghesi, ben trovato. Di un mondo a parte: lontano dalle convenzioni urbane, contemporanee, borghesi. I riferimenti, il linguaggio, le sue stesse convenzioni, e il pathos, sono altri. Definiti solitamente arcaici, che non vuole dire nulla. È un diverso fluire del tempo, un’espressione e un sentire non semplice, non per i moduli correnti, con una comunicazione empatica, sintatticamente sconnessa, necessariamente complice e in certo senso escludente, anche perché non si offre a modello né propone modelli, e tuttavia significativa, perfino troppo per l’economia del gesto o della parola – basti il tesoro del “non detto”. Ma inesplorato: incerto più che artificioso, poiché nessuno ne ha preso le misure, l’ha inquadrato, lo spiega.
Praga è tutt’altro mondo. Con Kafka resta, dice Magris, “uno dei più alti simboli dell’esilio di tutti e dunque un verace volto della patria di ognuno”. E: “Praga è sempre altrove”. È tuttavia residuo, o infondata nostalgia, di un’unità che non ci fu tra mondi separati e per molti aspetti concorrenti. L’eccellente Praga di Magris ce ne offre l’immagine giusta, vantata come un crogiuolo e invece: la divisione tra le comunità è “una frontiera chiusa, una barriera anziché un tramite”. Siamo uniti ma siamo separati.
Con un’addizione: non sullo stesso piano. Una situazione che chiunque oggi, nella Montagna, in Calabria, al Sud, che solo legga il giornale o guardi la tv, ogni giorno registra su ogni aspetto del vivere: Milano disprezza Napoli, e la Sicilia (una Calabria già “non esiste”), la Sicilia non disprezza Milano, non ne diffida – questo succedeva anche a Praga, i tedeschi si ritenevano superiori ai cechi (“la tradizione di liberalismo borghese, radicata a Praga fin dal 1848, era inscindibile per la minoranza tedesca dal concetto di superiorità sui cechi”), ma erano in numero grandemente inferiore e quindi si condannavano da sé.
E con una differenza, grande: non c’è al Sud accerchiamento geografico, o storico, o consuetudinario. C’è politico, c’è sempre stato, da quando l’unità si preparava, ed è aggressivo. Ma ha modellato una sudditanza, o su di essa si modella. Di cui non si saprebbe fare colpa al Nord, se non perché se ne approfitta. Non c’è uno stato d’assedio, se non volontario, quasi a opera degli stessi meridionali. Ed è pure vero che la sudditanza passa attraverso l’Italia, ma in questi termini: il Nord sa governare l’Italia, il Sud no.
Praga Magris dice anche ”esemplare per eccellenza di una letteratura di frontiera che induce a un tentativo paradossale, quello di trasfigurare l’irresolubilità dei conflitti quale loro superamento”. E questo è un programma. Non per gli scrittori, che questa avventura hanno già vissuto, ma per la storia e la critica – con l’eccezione (che è una conferma) di Alvaro. Ma sapendo che non siamo tutti sullo stesso piano, non per caso o disinteressatamente. Perché la cultura non è inutile né inetta. Fra gli strumenti del dominio dei tedeschi sui cechi nella città ceca di Praga, per tornare a questo remoto, inoffensivo, termine di paragone, alla fine il più lungo, costante, determinante, fu la cultura: far sentire i cechi, gli slavi, che pure erano borghesi attivi e colti, dei paria. Sociali e culturali.

leuzzi@antiit.eu

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