Il cinquantenario della morte è occasione a una fioritura di studi e pubblicazioni. Di ogni piccolo pezzo d’inedito, e di ogni tipo di valutazione: Céline musicista, il romanzo parlante, la politica, la poetica, la cattiveria, gli affetti costanti, la schizofrenia, e le sue incontinenti interviste – Céline è lo scrittore più parlante (dopo Borges?). Ma il più nuovo è già noto, anche se non convincente.
La vita come nausea è il tema di un saggio fortunato nel 1980 di Jean-Pierre Richard, “Nausée de Céline”. Una rilettura del “Viaggio”, che si riedita in economica rivista e aumentata, ma sempre ambigua, o allusiva. Bardamu si ritrova in una carneficina sul campo di battaglia il giorno dopo e finisce per vomitare. È il segno della “liquidità” del corpo celiniano (p.9): “La grande malattia del corpo celiniano, e prendiamo qui il corpo per una figura del mondo stesso, è, si vede, l’incertezza interna, la mancanza di tenuta”. Una lettura che una nota così integra: “Questionata e assunta dalla riflessione, questa incertezza finisce nella coscienza celiniana al sentimento della gratuità, dell’a che vale, della non-necessità dell’esistenza. La mollezza scopre allora la contingenza: Céline introduce dunque a Sartre, ma a partire da questo punto di partenza comune le loro mitologie si sviluppano in direzioni molto diverse”. L’oggetto di Richard, studioso della letteratura, è “la deliquescenza del sé” (tra caporali Richard cita il “Viaggio”): “Giacché percepire, per Cèline, è «sfilacciarsi», perdere di consistenza intima, è «lasciarsi andare alla corrente della propria micragna», è soccombere, come tra «i diluvi di acque tiepide» dell’Africa a un «torrente di sensazioni sconosciute». Come già Flaubert, quest’altro martire della mollezza”. Sembra una di quelle analisi che Cèline prediligeva per i suoi sarcasmi.
Molti contributi sono biografici: testimonianze e lettere. Ma l’essenziale si sa. Soprattutto dell’antisemitismo. Che non fu l’accecamento di un momento, o della mancata carriera alla società delle Nazioni (questa è materia di un autore, Albert Cohen, nel suo capolavoro “Bella del signore”, che assolutamente non si sì può sospettare di antisemitismo): Céline partecipava a convegni antisemiti, a gruppi antisemiti, e chiedeva un antisemitismo attivo. Nel corso della guerra, e fino a fine 1942. Con l’aggravante cioè dell’opportunismo: Céline in qualche modo modulò questa passione con l’andamento del Blitzkrieg nazista.
Scrivendo a Milton Hindus nel 1947 se ne difende (le lettere, pubblicate quarant’anni fa nello speciale Cahier de l’Herne, sono molto utilizzate da J. Kristeva): “Entusiasmo vuol dire delirare molto – Ahimé! – Freud certo ha delirato molto – ma il nostro ora sembra unicamente un delirio di fantasmi politici – è ancora più ridicolo – lo so. Ci sono cascato”. Ma il disprezzo era radicato, sebbene non per motivi specifici e forse a sua insaputa: mediato dal padre, al quale pure l’aveva riprovato, nell’insieme di debolezze con cui ne fa il ritratto in “Morte a credito”. L’antisemitismo Kristeva rileva, nel suo capitolo forse più illuminante, “Vivere da ebrei o morire”, “violento e stereotipato ma appassionato”, per essere “il semplice esito di una rabbia assolutamente laica”, o “rabbia contro il Simbolico” (p. 205): “Il Simbolico è rappresentato dalle istituzioni religiose, parareligiose e morali (Chiesa, massoneria, Scuola, Élite intellettuale, Ideologia comunista, ecc.) e culmina in quello che Céline allucina e conosce come loro fondamento e antenato: il monoteismo ebraico”. Che Céline sia mai andato a fondo di un qualsiasi fatto religioso è dubbio, ma la tesi complessivamente regge. A Hindus, col quale corrispondeva nel mezzo dei processi perché ebreo, scrive: “Bisogna creare un nuovo razzismo su basi biologiche”. Perché è vero che l’igienista che Céline incontestabilmente fu sconfina con l’eugenetista.
È lo stigma del radicalismo, o anarchismo. Senza distinzioni, quello di destra ha gli stessi motivi di quello di sinistra: pauperismo, negazione della storia, negazione della convenzione. E talvolta gli stessi uomini: Céline, Ionesco, Cioran, a suo modo anche Evola. Ma sostituisce al nichilismo la tradizione, l’eroe, i “valori”. Con un’incongruenza in più: l’esito positivo. Che ne fa peculiare la cattiveria. Il radicalismo di destra è violento anche quando è pacifista (Céline), perché approda all’irrisione e all’intolleranza. Non riesce a ricomporsi (gli odi a catena di Céline: contro la guerra, la democrazia, il comunismo, il fascismo, i francesi dell’onore e della patria a Sigmaringen, i tedeschi in “Nord”) perché rimescola i rifiuti della storia con furia, con passione. Il radicale di destra non è dandy, è impegnato, e fatalmente resta preda della mediocrità disprezzata. È la condizione (condanna) “piccolo borghese”?
È anche vero che Céline fu cosmopolita, avendo avuto dal padre un’educazione cosmopolita, con gli studi e i soggiorni in Germania e Inghilterra, non frequenti ai primi del Novecento (“Parlo l’inglese perfettamente, come il francese”, si vanta con Guy Bechtel e Roger Poulet nel 1957, quando già cominciava a sbraitare contro l’uso dell’inglese). Che ha vissuto da borghese affluente per almeno vent'anni, dalla parziale riforma a Londra nel 1916 alla Fondazione Rockefeller, gli studi di medicina, il primo matrimonio, la Società delle nazioni in quello che sarà l'Oms, il successo del debutto letterario, con premi, inviti, serate, viaggi in Urss. Che volle essere antisemita come volle essere antisovietico. È vero pure che alla disfatta non si rifugia in Germania. Nel giugno 1944 tenta di raggiungere la Danimarca. A Baden Baden è però bloccato, e inviato prima a Kräenzlin (“Nord”), e poi a Sigmaringen (“D’un chateau l’autre”), per tutto l’inverno. A marzo può espatriare verso la Danimarca. Dove quasi subito è carcerato con l’accusa di tradimento. L’unica parte ancora non nota è quella relativa alla seconda moglie, Edith Follet, e alla figlia Colette, per la quale aveva scritto nel 1924, quando la bambina aveva quattro anni, la favola “L’histoire du petit Mouck” – Colette a sua volta ha avuto sei figli. Due donne di cui Céline lamenta più volte l’estraneità, una mancanza quindi non minore.
“Poteri dell’orrore” è un promettente studio sull’“estremismo celiniano”. Del “Male come verità del Senso impossibile (del Bene, del Diritto)” (175), con le maiuscole barocche. Del bisogno di abiezione, “una vertigine dell’abiezione” (156), come argine alla dissoluzione nello sdoppiamento della scrittura: “Chi può dire se il bombardamento di Amburgo scritto da Céline sia il colmo del tragico o la più disinvolta derisione dell’umanità?” (157-158) ma non è la stessa cosa? La letteratura del Novecento, sembra dire Kristeva, ha l’abiezione come tema, prolungamento dell’apocalisse e del carnevale. Ma lei stessa è allora pro Novecento, parole in libertà, del genere “va’ dove ti porta la parola”, che germoglia su se stessa, incapace d’accensione. “Céline ci fa credere di essere vero”, così lo presenta, “il solo autentico e noi siamo pronti a seguirlo affondati in quel termine della notte dove viene a cercarci e dimentichiamo che se ce lo mostra è perché lui sta altrove, nello scritto”. Non eccezionale. E allora: “Attore o martire? Né l’uno né l’altro o tutt’e due insieme, come un vero scrittore che creda alla sua astuzia”. Il culmine è nella scena del parto in “Rigodon”. Che è l’unica in tutto Céline, ma viene comodo eleggere a Urfantasie freudiana, la “scena primaria” che condiziona l’individuo (176): “… Incesto a rovescio, identità scorticata. Il parto, culmine della carneficina e della vita, punto bruciante dell’esitazione (dentro/fuori, io/altro, vita/morte), orrore e bellezza, sessualità e brutale negazione del sessuale”.
Il culmine della gioiosa deriva dell’estremismo psicanalitico. Col solito tecnicismo aggressivo, terroristico e inconcludente. La tecnica è nota: farsi venire un’idea, a cui tutto riportare deduttivamente – sono esercizi alla Sherlock Holmes, il vero Freud, in “concatenazioni” (questo avrà un significato nel profondo?). L’abiezione è “godimento” (11): “Lo smarrito si considera l’equivalente di un Terzo”, un voyeur, un marionettista. “L’abietto somiglia alla perversione (17). E naturalmente “Hans ha paura dell’innominabile” (39). Il piccolo Hans di Freud che aveva paura dei cavalli: “La fobia dei cavalli diventa un geroglifico che condensa tutte le paure”.
La definizione dell’abiezione è di Bataille: “È semplicemente l’incapacità di assumere con una forza suficiente l’atto imperativo di esclusione dalle cose abiette (che costituisce il fondamento della vita collettiva)… L’atto di esclusione ha il medesimo fondamento della sovranità sociale o divina ma non è situato sullo stesso piano: si situa precisamente nel campo delle cose e non, come la sovranità, nel campo delle persone. Ne diferisce dunque alo stesso modo in cui l’erotismo anale differisce dal sadismo”. Poiché la storia, l’analista lo sa “dall’abisso del suo silenzio”, si sa da Freud, “inizia con «due tabù del totemismo»: assassinio e incesto” (65). Che Lévi-Strauss, naturalmente, ha provato (67) in “tutti i sistemi di conoscenza delle società cosiddette selvagge” – tutti tutti? E dov’è dunque l’abietto di Céline? È nel “Femminile” – il tabù di Freud, il totem di Kristeva, in una delle sue tante specialità. Dell’abiezione il capostipite è peraltro Baudelaire, nella vita e nell’opera – che Kristeva non nomina (e di cui a Céline nessuno ha mai chiesto nulla, degli innumerevoli intervistatori): la cosa nasce in letteratura.
Kristeva, multidisciplinare, è più persuasiva nella critica letteraria (e, chissà, semiologica) che nella scienza della mente. Ma anche lì con riserve, la sua categoria dell’abiezione estendendo a “ogni letteratura”, il problema della “frontiera fragile («borderline»)” e dell’“identità significabile”, a Baudelaire, Kafka, Sartre, Joyce, Borges, Dostoevskij e chiunque altro le sia venuto a tiro – a fronte del porno di Proust nei convegni maschili nella “bottega” di Jupien “l’orgia sadiana” non ha “nulla di abietto” (23). Céline tuttavia sintetizza classicamente (241): “L’opera di Céline... possiede del moderno l’ostinazione distruttrice se non analitica e del classico mantiene la capacità epica unita al grande respiro popolare se non volgare”. L’orrore invece è “un sereno approdo” (244). Di chi rinuncia a purificare, sistematizzare, pensare, il proprio delle civiltà, “che si danno l’orrore per costruirsi e funzionare”. Costituirsi in un sistema: chiesa, classe, partito, nazione, razza. Per fare la guerra. Uno dei tanti “rovesciamenti” di cui la psicanalisi si fa bandiera.
Kristeva enuclea anche l’ambivalenza più radicale di Céline, dopo l’odio, riportando giustamente il debutto letterario alla tesi di laurea in medicina del 1924, il “Semmelweiss” – che è poi il romanzo più romanzo di Céline, in linea col genere. Di Semmelweiss, che fu “autore a sua volta di una tesi di stile letterario”, “La vita delle piante. Dodici pagine di poesia”. La tesi di Céline, argomenta Kristeva, “è una preparazione al «Viaggio al termine della notte», nel senso che affronta in modo quasi esplicito, sia pure attraverso la rimozione «scientifica», l’enigma costituito, per la ragione, dal femminile”. A questo legando il fascino costante su Céline della ballerina, e della scrittura come arte scenica, di parole, musica e balletto, che Céline sempre tentò, anche tra gli spaventi della guerra, quello che ambiva scrivere e non gli veniva.
“Il vero «miracolo» Céline sta nell’effetto di lettura – affascinante, misterioso, intimamente notturno, liberatore di un riso senza compiacimento eppure complice”, nota Kristeva accingendosi ad affrontare Céline. Ma questo manca nel revival, e nell’ormai immensa pubblicistica: un Céline comico. Céline comico è un capitolo tutto da scrivere. Anche se la tentazione dello sghignazzo è prevalente in lui nelle condizioni più difficili, perfino sconcia. Céline granatiere a cavallo benché cionco che subisce un tentativo di violenza da parte di una ragazzina di undici anni, truccatissima, nuda, è Aristofane (è una delle tre storie riunite sotto il titolo “Maudits soupirs pour une autre fois”). Come è Aristofane nella vita il cavaliere volontario Louis-Ferdinand Destouches che ha paura del cavallo.
Il “Magazine” ha il pregio di riportare, in due brillanti articoli di due studiose, Florence Mercier-Leca e Suzanne Lafont, a Rabelais e a Molière. A “un tartufo tartuficato dalle sue proprie imposture”. Molto Alceste, il misantropo intransigente (idealista naturalmente). Un dottor Purgone del genere umano. “Il riferimento al maestro”, nota Lafont, “è esplicito, l’omaggio reso costante, almeno da «Progresso»”, la fantasia teatrale del 1927 – ma già dal 1926, da “La chiesa”, altra fantasia teatrale, la prima opera conosciuta: “George Dandin”, anch’esso parole, musica e balletto, rimarrà sempre nelle sue corde. L’ascendenza a Rabelais, “anche lui medico e scrittore”, è rivendicata da Céline in più posti, e segnatamente nell’intervista con Bechtel e Poulet, qui ampiamente riprodotta. Come uomo: “Ho avuto nella mia vita lo stesso vizio di Rabelais. Ho passato il tempo a mettermi in situazione disperate. Mi sono reso accuratamente odioso. Come lui, non ho dunque nulla da aspettarmi dagli altri”. E come scrittore. “Non era un buontempone, Rabelais. Si dice, è falso. Lui lavorava. E come tutti quelli che lavorano è un forzato”. Anche lui “avrebbero ben voluto fregarlo, condannarlo”.
Florence Mercier-Leca ritrova il Rabelais di Bachtin nell’onomastica celiniana, tanto inventiva quanto derisoria e perfino oscena, la ripetizione, spesso aggravata dai frequentativi, le allitterazioni. Un procedimento, nota, che Charlot riprenderà quattro anni più tardi in “Tempi moderni”. Ma in Céline “i procedimenti della satira e del pamphlet traducono una visione nera della condizione umana. Il comico si lega all’ossessione della morte: la vita è per Céline una danza macabra”. Céline è retrospettivo: si guarda a lui partendo dall’antisemitismo, e quindi dall’Olocausto. Mentre è Rabelais. In tutto. Con una sensibilità, in più, che si vuole ferita, da uomo del Novecento.
Céline, “Magazine Littéraire” febbraio 2011 € 6,60
Jean-Pierre Richard, Nausée de Céline, Verdier pp. 89, €5,80
Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, pp. 247, €13
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