È presentata come la terza parte, non rifinita, di “Pantomima per un’altra volta”. Ma si legge come una riscrittura ironica, in chiave distaccata e perfino allegra, della stessa narrazione. I fatti sono sempre gli ultimi giorni di Céline a Parigi, a Montmartre, nel 1944 prima della fuga in Germania e poi in Danimarca, marchiato da “collaborazionista”. Una delle prime riscritture, nel secondo semestre del 1947 in Danimarca dopo la prigione, pezzo forte il bombardamento di Parigi visto da Montmartre, tra le pale vorticose dei mulini alla “Chisciotte”, che si pubblicò postuma, dopo un difficile esercizio di lettura dell’autografo, nel 1985, e ora si riedita per i cinquant’anni dalla morte.
Sul bombardamento si esercita in più occasioni il virtuosisimo di Céline – in attesa di diventare una pietra d’inciampo della storia revisionata? Quello di Parigi è già materia delle prime “Pantomime”. Il più celebre bombardamento di Amburgo è la materia dell’ultimo “romanzo” finito, “Rigodon”. Ma qui c’è di più: Céline si diverte alla propria paranoia. Il vocabolario sfavillante senza essere artificioso - la chiave del celinismo - in ragione dei suoi ritmi canzonettistici, della sua “musichetta”, è qui perfino sorridente. La visita di Clémence, la moglie di un compagno d’arme in trincea e all’ospedale militare nel 1915, che viene col figlio a chiedergli di autografare i suoi libri, scatena ogni sorta di sospetti, volutamente incongruenti. Esca all'odio, corrisposto, dei vicini. Che finirà in un tentativo di seduzione-violenza da parte di una ragazzina, ennesima apoteosi del grottesco. E un pretesto per rivedere, ancora una volta, il ribaltamento di una vita. Con un senso di rassegnazione: “Che sbarchino, mio Dio! Che sbarchino…”. Ma ancora, malgrado l'internamento e il carcere in Danimarca, con ironia.
Nel mezzo delle bombe Céline improvvisa una uscita a Montmartre, per mettere in salvo i suoi manoscritti in casa dello zio Èmile, non altrimenti noto (sarà lo zio Èdouard immortalato in “Morte a credito”), e scambiare la sua razione di due pacchetti di Gitanes con cinque litri di benzina, forse sette, con un crucco. È dunque colpevole di “commercio col nemico”. Ma la benzina gli serve per andare a Bezons, in periferia, dove ha la condotta, con la bici a motore, da 1 cavallo. Una uscita che è pretesto a incontri con una folla variopinta di amici, artisti, musicisti, ballerini, comici, letterati, tra essi il “tartarugone” Marcel Aymé, non disperati, malgrado la guerra e le accuse di collaborazione (Aymé, che a differenza di Céline scriveva su “La Gerbe” e “Je suis partout”, giornali dell'occupazione e antisemiti, ne uscirà indenne). E con gli animali, cani, gatti, per Céline sempre animati, personificati. Gen Paul (“ha del genio, gli devo enormemente”) fantasticandolo “demiurgo”, che sulla sola gamba che gli è rimasta, dall'alto del mulino dove abita, dirige di notte i bombardieri, ora non più nemici. Di Max Revol, cantante e intrattenitore, notando: “È come me, scherza facilmente”. Una compagnia della buona morte, “banda Céline” per i vicini, e cioè condannata a pronta esecuzione, che sbevazza per i posti segreti di Montmartre, il cimitero Saint Vincent, il palazzo liberty, il caffè “Au reve”. Ferdinand (Céline) fa pure, al cimitero, la danza dell’orso. E non hanno pensiero, i “vecchietti”, che per le settebellezze di “Tourbillon”, la quindicenne che va a scuola di danza da Lucette, “l’amore vergognoso delle ragazzine” - ma “genere mistico in un senso”.
Clémence, conosciuta per trent'anni, da quand'era ragazza, che viene a chiedere l'autografo, col figlio poi, a cui mostrare il “mostro”, qualcuno che si vede eccezionalmente, è tuttavia presagio di morte. A più riprese Céline si vede già, "si sente", spargere odore di morte. Come medico, “ce ne sono di medici ammazzati!” Come scrittore invidiato. Come “mangiatore di bambini ebrei”, come vicino, come uomo di sostanza da depredare. E questo sarà il segno della sua narrativa dopoguerra, quando le passioni si saranno spente: la tragedia dei perdenti, dei perduti. Ma qui con un'importante differenza: Céline non odia, e non teme, i combattenti della Resistenza, bensì la cattiveria di quella che allora si chiamava la piccola borghesia.
Nella portineria, dove vive la prima fase del bombardamento, Céline esibisce deferenza per la coppia di coinquilini del piano di sotto, “Charmoise”-Chamfleury, che sa essere della Resistenza e che spesso ne ospitano una cellula. In particolare per la moglie, alla cui bellezza tributa un omaggio per una volta non avvelenato (lei ritorna anche in un romanzo a caldo, 1945, di Roger Vailland, non tradotto, “Drôle de jeu”, come padrona di casa che nelle riunioni clandestine nel palazzo della rue Girardon raccomanda di non gridare: “Non così forte, disse Chloé. Céline abita di sopra. Ogni volta che c’è rumore in casa crede che si tenti di ucciderlo”, mentre il marito vorrà partecipare nel 1972 alla monografia de L’Herne per attestare: “Céline non ci ha mai traditi” – Vailland invece onestamente aveva riconosciuto che Céline, se fosse rimasto a Parigi, non “sarebbe stato più risparmiato” dalla Resistenza).
La prima metà del libro, prima della fuga, è farcita di note insistite sulla microgeografia di Montmartre, i vecchi e i nuovi numeri civici, le vecchie e nuove piazze, i negozi, i caffè, le trattorie eccetera – la pubblicazione si vuole un ritratto di Montmartre com’era. Ma facendone a meno (le geografie disturbano e non aiutano la narrazione, dal viaggio di San Brandano a Robinson Crusoe) il racconto è ben celiniano, sempre avvincente benché sul nulla. In aggiunta alle note escandescenze contro i signori delle lettere che lo odiano - tra essi pure Paulhan, che invece lo sta recuperando alla “Nrf” proprio mentre Céline scrive, per portarlo in Gallimard già nel pieno dei processi a suo carico. È la prima rivisitazione, ancora distaccata, dell’abiezione – che sarà materia dello studio di Julia Kristeva, “Poteri dell’orrore”: il genere “vedo il male, anche il danno che esso mi procura, ma lo faccio lo stesso”. Tutta puntata ancora sulla missione del dotto, dello scrittore. Di cui Céline dà, a p. 228, verosimile ricetta, la più rifinita fra le tante che poi darà in chiave difensiva, dalla condizione di nemico dell'umanità nella quale si rinchiuderà. Merita riportarla per intero.
Il cruccio di Céline nel 1947, dopo il carcere e in attesa dell’estradizione, è il ritrmo: “Mi defenestrerebbero, se fossi ancora lassù… Defenestrerebbero… Penso… Defenestrerebbero mi disturba… Defenestrino, mi defenestrino, basta, tanto peggio…Defenestrerebbo taglia il ritmo”. I suoi racconti, spiega qui una prima volta, nella maniera forse più compiuta, vuole “rese emotive”, trasposizioni commosse della realtà. Céline cerca di salvare le sue minute: “Le mie minute… insomma note… meglio! Delle rese… rese emotive!... già quasi in forma… dalle dieci alle ventimila ore di lavoro. Sono delle messe a giorno le opere. Si disbosca come il tempio di Angkor. È accanimento da sterratore…. Da sterratore di onde… un colpo di scalpello per quanto piccolo, il tempio sfrigola, sbriciola, svanisce… Non acchiappate più niente, niente viene. È la magia… La penna è uno scalpello da mago… da mago in scavo… Tutto è infossato nell’atmosfera… Bisogna scavara piano piano… soffiare, oh con dolcezza… che la sabbia voli via… è orribile vero, è orribile…. Voglio dire di delicatezza di sfioramento… è un lavoro da fata questo è, in cui l’uomo perisce dannato, perde l’anima, la buona gentilezza, la coda, tutto… torcistracci, cencio da sogno, consunto strofinaccio, sterratore torvo selvaggio feroce”.
Guardando la paranoia a distanza, come Céline fa in questa narrazione con se stesso, se ne capiscono, benché non dette, le ragioni profonde. Céline è la disperazione coerente, che non può scusarsi. Come il declassamento, che rinfocola il sospetto e l’odio: è una condizione a forte introversione. In termini di colpa è il buono malvagio, il puro impuro. La coerenza non è il silenzio (lo è in uno dei personaggi del “Viaggio”, ma fa ridere): è la disperazione stessa, la distruzione. Céline, che vive la vita tragicamente, troppo abile scrittore, troppo conseguente moralmente, va fino ad autodistruggersi. Seppure qui col sorriso, Céline si conferma lo scrittore tragico del Novecento, avendo scritto un “Inferno”, l’infamia dell’universale.
Louis-Ferdinand Céline, Maudits soupirs pour une autre fois, Gallimard, p.284, €8
sabato 12 febbraio 2011
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1 commento:
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