Che nuova politica stanno seguendo gli Stati Uniti nel Medio Oriente, Nord Africa compreso e fino all’Afghanistan? L’intervento unanime e coordinato a Washington contro il re del Bahrein ha avviato alla Farnesina un riesame delle strategie americane. L’emiro del Bahrein si è autonominato re, ma mantiene bene o male un Parlamento, ospita la famosa Sesta flotta americana, contribuendo alle spese, e ha all’Onu un’ambasciatrice ebrea. La discesa in campo coordinata, di Obama, dei Clinton, lei e lui, e di Ban Ki Moon, il segretario del’Onu (detto “la ruota di scorta” di Washington), contro il sovrano del Bahrein ha fatto capire che gli Usa hanno una strategia nei mutamenti in corso nel mondo arabo, hanno mutato cioè strategia. Tanto più che il Bahrein aveva rafforzato i legami con l’Occidente e con Israele per guardarsi dagli ayatollah. È da qualche tempo che Teheran rivendica la sovranità iraniana sull’emirato. E nella prospettiva certa che, dopo il Bahrein, tutti gli Emirati del Golfo verrebbero sovvertiti in poche ore senza resistenza, Abu Dhab, Qatar, Dubai, compreso l'Oman e forse anche il Kuwait.
Un primo risultato del riesame è che Washington possa puntare a regimi più duri nei paesi arabi, contro l’insorgenza islamista. Di militari senza il doppiopetto, come in Egitto. O di borghesie dichiaratamente occidentaliste come in Tunisia, senza gli equivoci tradizionalisti su cui si appoggiava Ben Alì. Ma negli Emirati non ci sono bonapartismi possibili: se si spazzano via gli emiri non c’è più niente, né una società né un gruppo politico o di potere. E ovunque, in una'rea socialmente tanto instabile, un semplice cambiamento di regime implica comunque un upgrading delle politiche antisioniste, un livello di maggiore militanza contro Israele. Il riesame insomma non si presenta facile, la nuova politica americana è tutta da scoprire.
C’è sconcerto in realtà, più che curiosità, per l’obamismo internazionale. Come se il presidente americano dicesse qualsiasi cosa gli viene in mente, tanto il Medio Oriente è lontano. Ma questo contrasta con la pianficazione della politica estera, che Washington cura da sempre. Ed è forse un effetto della delusione più grande che l’irrispetto dell’ambasciata Usa a Roma manifesta nei documenti di Wikileaks. Non per Berlusconi ma proprio per l’Italia. Da parte degli ambasciatore di Bush e degli ambasciatori di Obama. Un disimpegno atteso dopo la caduta dei blocchi, ma camuffato nel primo decennio dall'impegno comune nel Golfo e nelle guerre balcaniche, nel decennio successivo dalle pressioni di Bush. Ma non sfuggito alle altre capitali europee, Berlino Parigi, Madrid, e da qualche tempo perfino a Londra. Ora la costanza del (pre)giudizio sembra avere avvilito anche la nostra diplomazia - una sensazione che la stessa incertezza o ignoranza delle motivazioni americane di per sé conferma.
D’altra parte, in alternativa a una stabilizzazione di tipo militare, non si vede per il mondo arabo che un futuro “iraniano”. All’insegna cioè della sharià. Non necessariamente antioccidentale. Ma allora non si capiscono il Libano, l’Afghanistan e l’Iraq. Cioè, una revisione della presenza e del sostegno italiani alla pacificazione in corso, o guerra umanitaria, si imporrebbe. Tanto più in regime di ristrettezza della spesa pubblica: dopo aver tagliato università, la scuola, e i beni culturali, Tremonti ora dovrebbe mettere mano alla spesa militare, che per l’Italia è ingente.
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