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Germania – Il profondismo tedesco è adolescenza, buio, balbettio. Anche in Nietzsche, Heidegger. Per le radici immarcescibili del romanticismo, che sono l’eroico-patetico. Il prototipo, Kleist, ne è la caricatura: campagna georgica, ipocondria, suicidio, occultismo, eroismo, verginità, e perfino lo spionaggio.
Lucio Colletti, “Sull’anomalia tedesca” (“Lettera Internazionale”, inverno 1988-89) dice che lo psicodramma va da Lutero fino a Wittgenstein. Lutero è in effetti poco agostiniano e molto sentimentale. Un Blut u. Boden che può talvolta appassionare. La Germania è operosa: costruisce per esempio grandi sistemi di lavoro, di organizzazione dell’economia - ne ha costituiti tre, di primario livello, in mezzo secolo fino a Ehrard, senza contare quelli di guerra. È impegnata: non c’è socialismo senza i tedeschi. Ma pretende di essere saggia, anzi d’impersonare la filosofia, e questo è strano: su quel terreno, con l’eccezione di Kant, che però è scozzese, produce solo confusione.
Il tedesco Kundera vuole “una lingua di parole pesanti” (“L’insostenibile leggerezza dell’essere”, 199). Sono pesanti le parole, o è la lingua che è diventata pesante? È questo il tedesco cui pensa Heidegger quando dice che non si filosofa se non in quella lingua? Una lingua limacciosa, confusa.
Lo specifico è la Gemütlichkeit, la gentilezza d’animo e l’interesse per gli altri. Una sensibilità però deviata, attraverso i vari traumi recenti, verso la schizofrenia. È anch’essa ora un voler essere, sempre nel Sonderweg di Fichte (e Lutero?), il destino speciale, una dimostrazione di primariato.
Si può scrivere semplice – preciso e chiaro – anche in tedesco. Sono semplici Lutero, Böll, Grass a volte, Heine, Goethe. Sono complicati Th. Mann nei saggi e i quattro quinti o cinque sesti dei filosofi. La complicatezza è dovuta talvolta alo scrupolo scientifico, filologico. Ma più spesso alle cattive idee – che poi sono una: tedesco è meglio.
Quanto della confusione mentale dei tedeschi è dovuto ai residui celtici (visionari) e al ritornante romanticismo, di cui Wagner è epitome, e quanto a Lutero? Cioè alla teologia diffusa e alle pratiche di devozione (v. Cantimori, Jünger). Quanto dell’antirazionalismo – dell’antiromanità, o antilatinità – si apparenta all’invettiva di Lutero contro Roma? Alla purità, all’estremismo?
La tradizione letteraria è fisico-faceta. Molto espressiva sempre, e violenta, anche sul lato rabelaisiano – o sassone alla maniera di Tolkien, merry. Heine, Goethe, Schiller mantengono questa tradizione attraverso le svenevolezze romantiche e le truculente gotiche – Goethe e Heine se ne liberano viaggiando in Italia.
Ma perché gli eccessi gotico-romantici fanno più presa sul tedesco moderno, con le loro propaggini espressioniste, ribellistiche, disperate? La miscela di romanticume e biedermeier è micidiale – v. Mosse, “Le origini culturali del Terzo Reich”. Potrebbe essere questa miscela una valanga formatasi a valle del luteranesimo? Nella sua forma più tedesca, pietistica, senza cioè lo sfogo della confessione. E quanta parte vi ha certo illuminismo massonico, per esempio la lavateriana Schwärmerei? Con corteo di esorcisti visionari e mesmerizzatori (Giarrizzo, intr. a Goethe, “Il Gran Cofto”). Che Schiller bolla nel “Visionario”, e Goethe (ib., p.24) riduce a “dilettanti della misticità e del gergo apocalittico”.
Böll, Grass, Lenz? Sono tedeschi come ce n’è sempre stati, pieni di buona volontà ma inutili. Mentre Schiller è stato rimosso dalla Germania federale. E anche prima. O Max Weber.
Nello strano tentativo, ritornante, di agganciarsi a una lingua – e a una cultura – morta: la lingua e la filosofia greche sono ben morte. Con tutto quel’affannarsi di costruzioni e decostruzioni semantiche. Che possono fare ottimi giochi di parole ma si presentano e sono presentate come distillati purissimi, sempre più puri (in traduzione poi…).
Abel Hermant, “De la médisance”, giudica i tedeschi incapaci di pettegolezzo, cioè di acredine ironica: non c’è ironia nella letteratura tedesca sulle cose, sul mondo. È vero, vedi Thomas Mann, Grass, che possono passare per scrittori ironici. Mentre H.Heine è considerato poco tedesco. E dalla grecità Socrate è espunto. Il tedesco, quello federale ma anche quello di prima, ama comunicare con bonomia, “costruttivamente”. Diluisce la critica, l’animosità, la violenza in oceani di assicurazioni preventive e spiegazioni successive, fino a ritenere responsabile la banalità. E si attribuisce da sé un vizio, la gioia di nuocere, Schadenfreude. Che modo è di esercitare la verità, ambizione tedesca? La Germania è solo malata di filosofia.
Gli intellettuali vi sono stati e sono tipicamente impegnati, compresi tutti i filosofi. La contesa fra Heinrich Mann-“Zola” e Thomas Mann-“Impolitico”, che fa tipicamente impegnati i letterati francesi e disimpegnati i tedeschi, è iperimpegnata, anzi politicizzata all’estremo, volgare. I tedeschi sono i letterati che più hanno praticato la politica e ne hanno scritto. In chiave moderata, poco, e in chiave rivoluzionaria-reazionaria, di preferenza e molto. Quello che riesce loro afono e atono è la democrazia, le sue modeste virtù – l’esclusione della politica come passione. Il problema quindi è un altro, vedi la Scuola Germanica o Spasmodica di Lewis Carroll, “Photography Extraordinary” (la condanna, via tecnica fotografica, del Romanzo – naturalmente una condanna alla Carroll). Con la democrazia danno loro fastidio le piccole virtù o consolazioni: tecniche, erotiche, l’amicizia, il silenzio, la perdita di tempo, eccetera.
Scalare il K 2, girare il mondo in bicicletta, imparare il tedesco, se ne può fare a meno. Ma si capisce almeno una cosa; l’insicurezza dei tedeschi (l’ansia di riconoscimento, o petizione di benevolenza, l’umore instabile, gli stacchi bruschi, l’ancillarità delle donne) viene dalla lingua. Prevedibile ma troppo estesa – senza limiti. Si ha sempre bisogno di un vocabolario. Ma un bambino tedesco sarà portato da andare avanti senza rete e quindi soffrirà di vertigini.
Non c’è la sfida della lingua (essere spiritosi, sentimentali, sportivi, intelligenti, leader), della strada (la famiglia è iperprotettiva), delle compagnie (l’amicizia e l’eros sono “protestanti”, riservati), della scuola (il “destino” si decide a quattordici anni, o si andrà all’università a diciotto anni oppure al lavoro), mentre si forma un accumulo immenso di sensazioni e irrisoluzioni (nodi, problemi), filosofiche, storiche, letterarie, musicali, mitiche, della dittatoriale Kultur, dal prestigio schiacciante fin nelle catapecchie più umili, se ancora ce ne sono. Il disprezzo dei piccoli passi (Zivilisation) alimenta un ingombro di tiranti sempre meno elastici, una cultura totalitaria, cioè soffocante. La lingua tedesca che Fichte dichiara pura (riecco la Grecia) e quindi veicolo di primati.
“È bella la Germania. Così apertamente impenetrabile. Così sinistramente innocua. Così diversa e uguale dappertutto. Così immemore di sé” – G. Grass, “Dal diario di una lumaca”, p.74.
La Germania come ossimoro?
Manzoni – Chi ha suggerito Lucia Mondella, che sa di campagna – “cotonina e villatico” dice Dossi, “Amori”, 37 – al cosmopolita Manzoni? Un esercizio di signoria del conte Manzoni a Brusuglio? Troppo bello, un’avventura scomposta in tanto virtuismo borghese. Lucia è creatura spenta.
Come autore romantico è illeggibile: tragedie, inni, Renzo e Lucia, Innominato. È invece pregevole autore settecentesco, ironico il giusto, dal sorprendente punto di vista sempre, di storie, digressioni, costumi. Con sottile propensione gotica – o influenza (W. Scott).
Anche nel trattamento della peste: tratta a lungo della peste flagello divino, senza menzionare le carestie terribili che l’hanno preparata, che sono colpa dell’uomo – come ripetutamente spiega Ripamonti. La politica in realtà non lo appassiona.
Tolstòj - Si legge “Guerra e pace” come un’epopea, e una Bildung a ritroso, di chi dalla nobiltà della stirpe, del censo e dello spirito è indotto in quella che sarà chiamata la massificazione – la guerra totale, a massa, lo spirito delle consorterie. Ma si può leggere come un traditore – della classe, della nazione, della tradizione – evidentemente, poiché è stato fatto. Evola lo fa, e con lui molti negli anni 1920-930, quando il conte non fu amato, anche se sempre apprezzato. Se non come un opportunista, dei buoni sentimenti.
L’opera è la lettura che se ne fa.
Ughi – Uto Ughi, che riempie sempre la sala grande all’Auditorium di Roma, fa il concerto come Sanremo: un’esecuzione, poi un dialogo col pubblico (battute, gag, applausi, risate), poi un altro “pezzo”. Che di preferenza fa corto e molto brillante. È un virtuoso, e di questo si compiace, perché sa che questo il pubblico apprezza. Ughi è infatti appassionato della diffusione della musica.
Il festival di Sanremo sembrerebbe freddo, che impedisce ogni emozione: la musica non sommerge, non trascina, non porta via come sarebbe nella sua natura. Ma questo il pubblico ama, e anzi solo questo sopporta, il divismo (la battuta, l’exploit).
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