Ascoltando Bersani, Franceschini e Rosy Bindi, Berlusconi “non esiste” più, deve solo andarsene. Ma se si votasse domani loro non avrebbero un candidato.
Questa politica è come l’intellettualità italiana: si parla addosso, fumando più che altro contro il Paese. È una chiave non minore, questa della lingua, e anzi significativa, dell’impasse italiano: è un’anomalia solo italiana, questa della divisione fra l’intellettualità, o élite, e le masse. E del disprezzo dell’intellettualità per le masse. La lingua ne è una conseguenza e uno specchio. Non innocente, giacchè il vangelo da tempo ammonisce contro l’orgolgio, come contro i linguaggi falsi e ipocriti.
In conseguenza di questa anomalia l’italiano è diventato doppio, eccessivo, parolibero, confuso, insignificante e abusato. L’avversario è automaticamente mafioso, ladro, fascista, come nulla fosse. Anche gli avversari di Fassino a Torino, nello stesso partito Democratico. O Giuliano Pisapia a Milano, che pure ha vinto le primarie ed è il candidato della sinistra a sindaco. Tutti sono sempre in guerra, in una battaglia all’ultimo sangue, in una faida. L’imprenditore è uguale al mafioso. Il governo è sempre un regime. Un indistinto in cui tutto incattivisce.
Una cosa del fenomeno Berlusconi si può già dire storicamente, che da troppo si evita: che Berlusconi ha stimolato un’adesione e ha un seguito. Anche tra molti che non lo votano – perché è volgarmente ricco, con tute le sue vile, è baüscia, è insopportabile giovanilista, atticciato, truccato, e altrettali. Mentre nessuno dei capi della sinistra ha un seguito di simpatia, tra chi pensa e vota a sinistra. E tutti suscitano antipatie, sempre a sinistra, anche dure: Prodi, D’Alema, Veltroni, Rosy Bindi, Vendola. Non è un fatto d’immagine, i guru dell’immagine non difettano – senza contare che Berlusconi sarà il re dei media ma ha pessima immagine, goffo, gonfio, innaturale. È la mancanza di coerenza – di lealtà.
Prevale, stanco, il “tanto peggio tanto meglio”. Che a lungo è stato il linguaggio della sovversione, e ora si rivela conservatore: la confusione e la virulenza no sono armi dell’opposizione ma del potere. È il principio di Archimede: perché cambiare? La confusione, alimentando l’incertezza, rafforza l’esistente. La confusione dei linguaggi è da sempre, da quando c’è la storia, l’arma della disinformazione, ossia della gestione delle notizie da parte del tiranno e dello sciamano.
Si può ben dire che l’impoverimento, o crisi, del linguaggio ha tarpato le ali alla democrazia in Italia. Ma con una distinta attribuzione di responsabilità. In bocca a funzionari di partito, sociologi e giornalisti la crisi del linguaggio non ha portato nuovi, più veri, significati, ma una selva d’insignificanze. Non si può insistere impunemente a dire gli italiani poveri, malati, disonesti e violenti – sesso con ridicole comparazioni oltralpe – quando la Repubblica è stata ed è il più grosso rivolgimento dalla caduta dell’impero romano, e l’Italia è uno dei paesi più ricchi e meglio organizzati al mondo. Alcuni fatti sono reali e incontestabili nell’irrealtà intellettuale.
Il linguaggio è stato ridotto a propaganda. Una camicia di forza. Ma di essa sono ora vittime i nominalisti che l’hanno costruita (“l’Unità”, e collaterali, U. Eco, “Micromega”…). Che si salvano costruendosi furbi modeste realtà: i giochi di parole, l’osteria del tempo che fu (o la cucina sintetica), il casale in Toscana, l’Inter di Moratti tutte stelle, il comico Albanese, la bellezza, la bruttezza, e il Medio Evo fantastico. Questa élite è quella di Artemidoro nel libro dei sogni, 36: “È impossibile non ci avenga quello, che il Re ha sognato. Se lo sogna anche il popolo minuto non diremo che ha mentito, ma che il sogno era falso”.
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